modeste proposte editoriali

Immagine di copertina di Ganz normal anders (1989), a cura di Jürgen Lemke. Mann mit Papierhelm, di J.A.W.

Buchi, carotaggi, tagli profondi. Ho raccolto qualche idea per libri da fare, rispolverare, rifare e lucidare, che appoggio qui gratis et amore dei con la premessa forse scontata che son tutte lingue da cui traduco, quindi ci siamo capiti. Spunti copincollabili senza fatica, pur nel rispetto teorico della licenza Creative Commons spalmata su tutti i contenuti di questo blog.

Dal tedesco. Leggenda vuole, anzi storia certificata vuole che il primo Schwulfilm della DDR, Coming Out, per la regia di Heiner Carow, sia uscito la sera del 9 novembre 1989. Facile immaginarsi con quale successo di pubblico. Si sa meno che quello stesso anno uscì, sempre nei territori della Repubblica Democratica, un primo volumetto non fantascientifico né psicofarmacologico sull’omosessualità, ma proprio un libro che dava voce a tredici maschi gay cittadini tedeschi orientali. Si chiamava Ganz normal anders e a curarlo per Aufbau, senza metterci la propria voce né dichiararsi apertamente, fu Jürgen Lemke. Di suo ci sono la commovente dedica “Per Frank” a inizio foliazione e quattro righe a pagina 284 in cui ringrazia le persone intervistate e l’editor Helga Thron. Prefazione tra il nervoso e lo spiazzato di Irene Runge. Ganz normal anders è una strepitosa scatola nera sulla vita in Germania (Est) dalla seconda guerra mondiale in poi. Digiuno di qualsiasi scatto attivistico, ignaro sia dei film berlinoccidentali di Rosa von Praunheim, sia della Kleinstadtnovelle di Schernikau, il libro sembra la scena iniziale di 2001 col desiderio omosessuale al posto dell’utensile osseo. AIDS citata al volo da Bert a pagina 280, con un pizzico di sollievo dedicato alla sua relazione stabile con Rainer. Il tono cambia da intervista a intervista, si va dalle Tunten più sbracate e consapevolmente “capovolte” alle maschie nell’armadio che millantano bisessualità e altre scappatoie. Impagabile da questo punto di vista la conclusione del cinquantenne “R.”: “So, nun muß ich aber langsam los. Mein Zug wartet nicht. Kopfschmerzen habe ich auch von deiner vielen Fragerei. Und es gibt ein ganz falsches Bild von mir, wenn wir uns nur über Männer unterhalten”. Effetto straniamento e macchina del tempo assicurato. Un gioiello rimasto chiuso per decenni nella sua custodia crucca, tradotto solo in inglese nel 1991 – e in lettone.

Dall’inglese. William Friedkin è morto poche settimane fa. A Venezia è stato presentato il suo ultimo lavoro, The Caine Mutiny Court-Martial. Non è questa la sede per parlare dei suoi film, che meriterebbero orecchie su orecchie. Ma forse è questo il momento per farsi una sana overdose di video su youtube che lo vedono protagonista col suo umorismo caustico e la sua rara capacità di fare autoanalisi, spesso autocritica, passando senza colpo ferire dai grandi successi dei primi anni Settanta ai numerosi fallimenti successivi. Epocale la sua risposta a una domanda riguardante la lavorazione di quel capolavoro che è Cruising (1980): I don’t give a flying fuck into a rolling donut about what Pacino thinks. Esattamente dieci anni anni fa, per HarperCollins, è uscita la sua autobiografia, The Friedkin Connection, cinquecento pagine d’oro zecchino che ricostruiscono minuziosamente una delle carriere più incredibili e irripetibili nella storia del cinema americano. Il tomo copre cinquant’anni di film e documentari, fino a Killer Joe (2012), ergo mancano solo l’ultimissimo film e il suo home movie delirante su padre Amorth, che ha messo in difficoltà anche la mia profonda fede friedkiniana. Insomma, poco male, oltretutto come lettura è una goduria e ha una delle chiuse più sincere e devastanti che abbia mai letto, che riporto qui tanto non è uno spoiler: “I haven’t made my Citizen Kane, but there’s more work to do. I don’t know how much but I’m loving it. Perhaps I’ll fail again. Maybe next time I’ll fail better”.

Come si fa a non amare Terry Jones? Il Python tranquillo, quello che metteva d’accordo tutti, invitava la truppa a scrivere a casa sua e quando necessario, senza frizzi né lazzi, si metteva dietro la macchina da presa. Il secondo ad andarsene dopo Chapman, in seguito a un lungo declino cognitivo già ravvisabile durante gli show all’arena O2 nel 2014. Insieme al sodale Palin, Jones amava la goliardia made in Oxford, il Medioevo e le favole. Ne ha scritte un bel po’, e tra il 1990 e il 2002 è pure uscito con Mondadori. Una parentesi che inizia con Nicobobinus (trad. Laura Cangemi) e termina con Lo scudiero e il cavaliere (trad. Giovanni Luciani), entrambi con le magnifiche illustrazioni di Michael Foreman. In realtà quella dello scudiero è una vera e propria trilogia proseguita con The Lady and the Squire (2000) e The Tyrant and the Squire (2018), pubblicato due anni prima della sua morte e probabilmente affastellato a partire da appunti, spizzichi e mozzichi. Nel 2011 però Jones era ancora in piena forma, e diede alle stampe due chicche: la raccolta di racconti Evil Machines, edita via crowdfunding con marchio Unbound, e soprattutto l’esile ma esilarante Trouble on the Heath, una “quick read” di cento paginette a corpo grosso uscita per Accent Press al costo di una sterlina e novantanove. Ambientato nella zona di Londra dove viveva, col parco di Hampstead Heath a fare da sfondo e quasi da personaggio a sé, il libricino frulla cani piscioni, gangster russi e palazzinari in un concentrato tardo-pythoniano efficace e senza un filo di grasso. Non esplosivo come Mr. Creosote, ma a volte contagioso come le casalinghe sfrante interpretate da Terry.

Dal polacco. Letteratura ancora poco nota – soliti noti a parte – e perlustrata a fatica per paura del mondo slavo e dei picchi sconcertanti dell’anima nazionale, quella polacca è uno scrigno col doppio/triplo fondo che merita di spingersi oltre i reportage e i (sacrosanti) premi Nobel. Prendiamo Eliza Orzeszkowa, esponente di spicco del positivismo tardo ottocentesco e di quella che allora si chiama praca organiczna, lavoro organico, tesa al graduale ripristino della Polonia (sud)divisa. Qualche traccia del suo coevo Prus si rimedia sul mercato italofono, ma di lei si sono perse le tracce da esattamente sessant’anni, quando le edizioni Paoline e le del Grifo azzardarono la pubblicazione di un suo romanzetto di 75 pagine. Di tutt’altra levatura Nad Niemnem (1888, “sul fiume Niemen”), uno dei capisaldi della letteratura polacca, che andrebbe recuperato insieme al coevo Lalka (“la bambola”) di Prus. Peraltro, se la prende con la Russia zarista.

Ugualmente importante, e noto almeno tra i cinefili grazie alla trasposizione di Andrzej Wajda, è Popiół i diament (1948) di Jerzy Andrzejewski. Cenere e diamanti (1958) è il film-universo della cinematografia polacca, un concentrato di analisi storica, sociologica e realismo magico oltre la cortina di ferro che non ha perso un minimo della sua energia. Mi fregio, e consentitemi l’inciso nerd, di averlo ancora in videocassetta originale rimediata nell’armadietto del bookcrossing all’istituto di slavistica berlinese. Il romanzo ebbe una genesi travagliata. Uscito nel 1947 con un altro titolo (“Subito dopo la guerra”), pochi mesi dopo venne riscritto dall’autore per rispettare le linee guida del nuovo governo filosovietico, che Andrzejewski sosteneva almeno sul piano ideologico. Successive modifiche arrivarono alla spicciolata fino al 1954. Quindi non è un romanzo: sono almeno due, il primo tutto da disseppellire. Popiół i diament è lo specchio del caos in Polonia durante gli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, tra potenze in ascesa e gruppi clandestini. Ultimo avvistamento in Italia: anno 1961, editore Lerici, traduzione di Vera Petrelli.

Un genere in cui la Polonia ha sempre avuto fortuna grazie a Lem è stato la fantascienza di stampo sovietico, quindi più pensosa, tecnocratica, filosofica rispetto alla media dei volumetti Urania. Un genere inanellato alla perfezione da Tarkovskij negli anni Settanta, quando portò sullo schermo sia Solaris (1972), sia Stalker (1979), cioè Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackij. Leggere Lem al giorno d’oggi non è facilissimo. Io c’ho provato con Solaris, che unisce intuizioni rapinose a impreviste cadute di stile, ad esempio la descrizione razzista di una donna nera che appare, “fantasma su Marte”, al protagonista. La forza di Lem si lascia riassumere dal titolo del suo ultimo romanzo, Fiasco, scritto nel 1986 per conto dell’editore tedesco Fischer, che gli staccò un lauto anticipo. L’umanità non ce la può fare. L’universo non è morto, anzi è vivo e intelligentissimo come l’oceano di Solaris, ma è anche indifferente, incomprensibile e intraducibile, con buona pace della fantascienza occidentale conquistadora e ottimista, vedi Arrival (2016) di Villeneuve. Ma non c’è solo Lem. Sul finire dei fatidici Settanta, in Polonia un romanzo di fantascienza divenne ancor più popolare: Robot (1973) di Adam Wiśnieski-Snerg, recentemente riproposto addirittura da Penguin in una collana di classici SF. Scritto in prima persona non si sa se da un automa o da un individuo, il romanzo è lineare e travolgente nel raccontare un viaggio tra macchinari steampunk, oceani di mercurio e società non lontane da quella, di lì a poco egemonica nell’immaginario collettivo, à la Blade Runner.

Dal francese. La storica Sophie Bessis (Tunisi, 1947) è “juivarabe”. Da sempre sulle barricate per i diritti delle donne nel Maghreb, ha pubblicato numerosi testi sui rapporti tra il Nord e il Sud del mondo ed è una delle pochissime autrici a occuparsi dell’identità ebraica all’interno del mondo arabo. Lo fa ad esempio nel pamphlet Je vous écris d’une autre rive – Lettre à Hannah Arendt (Elyzad, Tunisi 2021). Scritto durante i primi mesi di pandemia, il testo parte da una provocazione per affrontare un tema più ampio e stringente. Bessis lo fa da ebrea tunisina, femminista e amante del pensiero arendtiano, che mette in discussione in quanto di matrice eurocentrica. La tesi è che la materia culturale per un dialogo costruttivo esiste già, soffocata però da nazionalismi e letture manichee. “Cara Hannah Arendt, è stato l’anno scorso, in riva al mare, che ho deciso di scriverle”. Inizia così questo breve saggio che si rivolge all’intellettuale tedesca sull’onda dell’inesauribile risonanza dei suoi testi. “La follia, diceva il suo amico Albert Einstein, consiste nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. E se la nostra follia fosse dovuta al rifiuto dell’Altro?”. Citando un testo contenuto in Politica ebraica (Cronopio 2013), Bessis ricorda come Arendt stessa non veda altra soluzione “per i nazionalisti coerenti, che diventare razzisti”. Secondo l’autrice, il problema dell’impostazione arendtiana è la “negazione dell’esistenza degli ebrei arabi”, come si evince da un suo articolo del 1942, nonché la collocazione dell’intero bacino del Mediterraneo nella sfera d’influenza culturale europea. L’auspicio è che lo stato israeliano ritrovi la propria componente orientale rimossa, disinnescando in tal modo i conflitti che lo minacciano e fanno virare a destra le sue politiche. A patto, ovviamente, che anche il nazionalismo arabo si smussi. “Da troppo tempo gli arabi vogliono essere soli”. L’antidoto all’antigiudaismo arabo sta prima di tutto nella riscoperta di una dimensione cosmopolita. Il testo è strutturato come un’unica, lunga lettera ad Arendt, con un post-scriptum che riflette sul virus come acceleratore dei nazionalismi. Di Bessis esiste un solo libro in italiano, L’Occidente e gli altri. Storia di una supremazia, edito vent’anni fa dalle Edizioni Gruppo Abele. Forse è il caso di tornare con lo sguardo all’altra sponda.

azzurrino tedesco

Su quel che resta di Twitter seguo il profilo di wahlrecht.de, un ottimo aggregatore di sondaggi sulla situazione politica in Germania. Gli istogrammi dalla primavera 2023 in poi sono orrore puro, e confermano una tendenza che è andata consolidandosi nell’arco del 2022. Il partito di ultradestra, che in questo articolo chiamerò filologicamente montagna di merda, ha ormai superato quota venti percento a livello federale.

Questo significa che la montagna di merda è il secondo partito tedesco. Più forte dell’SPD, che esprime il cancelliere, e dietro l’Union, formata però da due forze politiche, una delle quali presente – ed egemonica – solo in Baviera. La CDU da sola manterrebbe la prima posizione nella supermedia, ma all’Est le cose si metterebbero peggio. Premesso che parlando di sondaggi il condizionale è d’obbligo, basta dare un’occhiata al calendario delle elezioni imminenti per capire al volo che se i rapporti di forza stanno così, il 2024 rischia di diventare un buco nero per la Germania e per l’Europa. Si voterà infatti non solo per il Parlamento Europeo, ma anche in tre Bundesländer orientali dominati dalla montagna di merda. Sta per nascere un nuovo muro, stavolta attorno a Berlino.

Il dilagare di questa tendenza politica nell’ex DDR non è nuova, e sta già avendo conseguenze concrete nella dialettica con le altre forze. Nel febbraio del 2020 in Turingia un candidato liberale, Thomas Kemmerich, venne votato governatore dal proprio partito, dai cristianodemocratici e anche dalla montagna merdace. Durò un attimo, ma fotografò un fenomeno spontaneo sul territorio, ovvero la convergenza dei partiti conservatori. Sempre in Turingia, Sonneberg ha da poche settimane un Landrat di quel partito lì, votato con tutti i crismi. Un caso brandeburghese, dalla cittadina di Forst, dimostra inoltre come anche la Linke, nel nome della Realpolitik, ogni tanto stringa la mano ai compagni camerati che le hanno soffiato la primazia.

Ultimamente si parla spesso di “muro tagliafuoco”. Sarebbe il no secco, sancito da decisioni formali nei singoli partiti, a qualsiasi forma di collaborazione con la montagna, che neanche loro chiamano con la sua ragione sociale furbetta optando per la perifrasi “partiti non democratici”. A Merz, il segretario della CDU, in pieno Sommerloch è sfuggito un peto di verità, quando intervistato dal ZDF ha ammesso che a livello locale non c’è veto ideologico che tenga. La CDU in realtà di muri tagliafuoco ne ha due, verso destra e verso sinistra (nei confronti della Linke), ma guarda caso i cedimenti si registrano a destra. I cristianodemocratici hanno smentito il segretario, ma con un partito al venti percento c’è poco da fare in termini di noli me tangere.

Com’è potuto succedere? La risposta, un azzardo psicologico, si chiama stizza. In sintesi, è lo stesso motivo per cui Fratelli d’Italia ha spiccato il volo come opposizione unica al governo Draghi nella fase calante della pandemia. Per quanto possano essere sensati, i divieti alla lunga stufano. La democrazia è sempre più debole a livello globale, e questo si spiega con fenomeni di massa come il trumpismo, con le conseguenze ferali delle bolle internet, con la sparata facile offerta dall’opzione di commento – forse l’idea peggiore mai partorita dalla rete. È la stessa stizza dei complottisti, degli antivaccinisti, dei terrapiattisti d’ogni risma, degli antigrinpassisti, dei volenterosi aiutanti di Putin che si credono di sinistra. Una reazione umana, ma irrazionale, alla complessità e alla stanchezza. In parte, anche ai dettami maestrini di quello che si chiamava politicaməntə corrətto. Se è vero che negli ultimi anni la vita è diventata più ardua, il mondo meno accessibile, i beni, soprattutto, meno accessibili, meno valido è risolvere questo dramma prendendosela a casaccio con “die da oben”, come si dice tedesco, cioè i poteri forti, pompando il consenso di chi promette soluzioni facili. La felicità mai vista delle tradizioni inventate (Lega docet), i vantaggi marciscibilissimi del proprio orticello (Brexit docet). La montagna di merda capitalizza la stanchezza abissale di chi va a fare la spesa, lo stress senza fine tra la fisarmonica del covid e lo scoppio di una nuova guerra di aggressione in Europa, la stupidera di un mondo dove tutte le informazioni sono disponibili ma nessuno le legge, anzi finisce per leggere solo quelle che gli piacciono – e che spesso irridono qualsiasi test scientifico. Visitors è un documentario con protagonista Hillary Clinton. Ve-ri-tà.

Ma per arrivare al venti percento la strada è lunga. Il flusso di voti – per ora virtuali – prende da tutti gli altri partiti. E parte della responsabilità, al solito, risiede negli errori altrui. A cominciare dalla Linke in crisi nera. Frazione del Bundestag per miracolo grazie all’elezione diretta di tre suoi candidati, il partito della sinistra nato da una costola dell’ex SED e da un’altra dell’SPD schröderiana respira a fatica, complice uno scollamento dalla realtà iscritto nel suo programma bello ma impossibile, e complici posizioni di politica estera talmente assurde da far sembrare senso comune quelle della montagna di merda. Negli ultimi mesi la Linke si sta letteralmente smontando, e all’orizzonte si staglia la figura glamorosa di Sahra Wagenknecht, che ha un nuovo partito in canna – un mix forse geniale, forse demenziale di sinistra e populismo (cioè destra). Con una ricetta economica presa paro paro da Ludwig Erhard, che di sinistra non era di sicuro. Per un periodo m’era venuta voglia di tradurla, e per fortuna non ci son riuscito, anche perché leggendo i suoi libri ebbi l’impressione che volesse far pubblicità al vecchio Wohlstand für alle più che proporre una concreta alternativa al merkelismo.

Più Wagenknecht non significherebbe tuttavia in automatico meno montagna di merda. La politica tedesca è lenta, procede a passi pesanti. Il ritmo volatile e vertiginoso di quella italiana le è del tutto estraneo, sebbene ultimamente anche questa impostazione stia rivelando delle crepe. Un rilancio ibrido della Linke sotto una nuova bandiera potrebbe cambiare i flussi di voto almeno nell’Est, ma rispetto alle scadenze del 2024 i tempi sono strettissimi. Sarebbe fantastico veder implodere la montagna e Sahra in uno scontro tra titani populisti. Le conseguenze sulle teste degli elettori sarebbero comunque catastrofiche.

La CDU è in crisi identitaria dalla fine dell’epoca Merkel, un sedicennio fortunato per la Germania anche solo per il fatto che il sistema, economicamente solido, non ha dovuto perdere pezzi né inventarsi riforme clamorose. La presunzione di poter andare avanti così per sempre ha generato hybris e passi falsi, in particolare nella scelta del candidato cancelliere Laschet. Nel 2021 è stata la sua campagna elettorale disastrosa, insieme a quella disastrosa – per difetto – di Baerbock per i Verdi, a consentire l’improvvisa impennata dell’SPD da agosto in poi. Un fuoco di paglia tuttavia sufficiente a portare a casa il risultato (25,7%). Se si fosse votato una settimana dopo, la CDU, cioè la pancia dei tedeschi, avrebbe di nuovo sorpassato i vecchi Bonzen. Merz, da sempre l’anti-Merkel, vuole sfidare la montagna di feci schiacciando l’acceleratore della politica conservatrice. Una gara persa in partenza con chi fa, senza vergogna, politica völkisch. Tra le opzioni in mano all’Union c’è quella di candidare Söder, segretario della CSU bavarese, a cancelliere nel 2025. Sarebbe la prima volta dai tempi di Stoiber che il junior partner esprime il candidato numero uno. E al contrario del 2002, stavolta potrebbe farcela. Così come avrebbe potuto farcela due anni fa, se le strutture profonde del partito democristiano non gli avessero preferito Laschet. Sempre che Merz non tenti la strada della sfiducia costruttiva prima della fine della legislatura. La CDU c’ha già provato due volte ai tempi della RFT, una volta con successo – cioè Kohl vs. Schmidt. Il grimaldello sarebbe al solito l’FDP, partito jolly attualmente alleato riottoso dell’SPD e da sempre Wunschpartner del grande centro.

Nemmeno i socialdemocratici se la passano benissimo. La perdita di Berlino dopo vent’anni, col passaggio da Giffey a Wegner come sindaco ad appena due anni dal voto, è il sintomo di un sistema di potere ormai fragile, la cui unica carta è l’autosubordinazione nel quadro di una große Koalition – come ai tempi di Merkel. Scholz venne scelto come candidato nel 2020, un anno prima delle elezioni, per via del suo profilo moderato. Caratterialmente non è molto diverso dalla sua predecessora, è tutto uno svicolare, un prender tempo, uno stop and go. Ma a differenza di lei, da quando è in carica ha un problema di consenso che non vuole rientrare. Oltretutto, la coalizione “a semaforo” è litigiosa. Nel contesto drammatico in cui ha dovuto muoversi fin dall’inizio, il governo federale non sta sfigurando. Malgrado la svolta militarista, agghiacciante ma inevitabile, è un governo che mette all’ordine del giorno miglioramenti delle leggi sulla naturalizzazione, sul salario minimo, sui diritti delle persone trans*. Qualche centinaio di euro a cranio contro il caro energia è arrivato via annaffiatoio di stato. L’SPD funziona a due velocità: il carrozzone governativo da una parte e il partito vero e proprio dall’altra, trainato da personalità di sinistra come Kevin Kühnert, Saskia Esken, Lars Klingbeil, nessuno dei quali è un fan delle coalizioni innaturali e del potere a tutti i costi. Certo è che se le cose restano così, nel 2025 Scholz resterà a casa. Con meno ignominia di Schröder, simbolo di un rapporto sclerotico con la Russia tutto gas e pacche sulla spalla a Putin, ma pur sempre con la colpa di non essersi spinto oltre la parentesi.

La grande coalizione è da ormai vent’anni a questa parte la cifra della politica tedesca. Sinonimo di grandi compromessi e di mesi interi spesi a stendere il contratto di governo, questo sistema è grossomodo funzionante. La montagna di merda rischia di scardinarlo. Se resta secondo partito, primo addirittura in alcune aree orientali, o la CDU si allea contaminandosi definitivamente, oppure si tenta la strada rischiosa dell’ammucchiata contro il nemico unico, fallimentare sia sul fronte comunicativo, sia su quello del coordinamento interno. Dal grande compromesso si arriverebbe in entrambi casi al grande pasticciaccio. La montagna di merda non è un partito “normale”, uno dei tanti movimenti populisti che stanno ammorbando l’Europa. È un partito con radici mentali nazionalsocialiste, che a differenza dell’NPD e di tutte le altre sigle minuscole presenti sulla scheda dal 1949 ha una base organizzativa solida e sufficiente perfidia da flirtare con l’estremo senza caderci grossolanamente. È un partito che nasce annusando l’aria alle manifestazioni di piazza organizzate da Pegida. Molti suoi esponenti sanno parlare. E sono bravissimi a ribaltare la realtà facendo perno sulla stizza, la stanchezza, l’ignoranza di molti. Il colore azzurro, un azzurro Forza Italia, è poi perfettamente complementare all’arancione scelto da Merkel per la campagna elettorale del 2005. La CDU è da sempre indicata col colore nero. Questi qua affogano il marrone nel ceruleo.

Si può dire: è un bluff. Si getteranno la zappa sui piedi. Si capirà che le loro soluzioni non sono tali, essendo fuori dal tempo e da ogni grazia diddio. Oppure, s’annacqueranno causa pressioni esterne. Ma l’idea di lasciarli governare per farli fallire potrebbe non essere la migliore. Perché siamo in Germania. E la destra tedesca non è mai stata normale. Se questi ratti infilano la zampa nella porta, forse non vogliamo sapere l’effetto che fa. Ai tempi della crisi dell’euro, il terrore tedesco era d’indebitarsi pensando a Weimar. Perché a Weimar, la pressa della crisi economica e dell’inflazione alle stelle aveva sputato fuori Hitler. Ora l’inflazione è qui con noi, ovunque, e morde. Basteranno grandissime coalizioni, semafori e bandiere ad arrestare il suo prodotto più caro?

przygoda na uniwersytecie

Wooooow!

All’università, insieme alle mie compagne di corso, ho lanciato un blog dal titolo Polska nad Szprewą – la Polonia sulla Sprea. Lì parlo del festival cinematografico berlinese FilmPolska, della libreria antiquaria di Álvaro, del film Possession (1981) di Andrzej Żuławski e del monumento ai caduti antifascisti polacchi situato nel Volkspark del mio quartiere, Friedrichshain. Il blog è in polacco. Da qualche giorno ho in tasca il livello B2.

L’idea folle di tornare all’università, matricola, lezioni e tutto, a quaranta e passa anni – ormai più cinquanta che quaranta – la ebbe mio marito nel gennaio del 2021. Da un lustro ormai frequentavo le lezioni di polacco della Volkshochschule, con un’insegnante turbo appassionata di James Bond e Peaches. Formalmente ero già al B e qualcosa, ma mi mancava la pressione adrenalinica di un esame vero da sostenere. Sapevo peraltro che non avrei mai superato un esame orale. Le lezioni erano poco frequenti, informali, di fatto hobbistiche. Una delle prime cose che imparai il 10 ottobre 2015, prima lezione di polacco e giorno in cui incontrai Yassien, è che hobby, po polsku, si può pronunciare scandendo la doppia b: hobbəbbə. Un dettaglio che mi fece detonare la capa. Glielo raccontai, a Yassien, dopo meno di cinque minuti dalla nostra stretta di mano. Il resto è matrimonio.

Così, nell’estate del 2021, con la fisarmonica del coronavirus che andava allentandosi, inviai tutti gli incartamenti alla Humboldt, e attesi. Terrorizzato. All’idea che non mi prendessero, sancendo così un fallimento anagrafico insanabile. O che mi prendessero, ufficializzando un passo forse più lungo della gamba. Nel formulario ufficiale avevo chiesto di fare lo studente part-time al venticinque percento. Quando studiavo a Bologna a cavallo del millennio avevo sogni ricorrenti su esami non dati, nel senso che passavano i decenni e continuavo a dimenticarmi di darli. Un sogno ricorrente simile, maturato più tardi ma che ho ancora adesso, riguarda una miserabile stanza d’albergo condivisa col coinquilino di quando vivevo per conto mio, sempre a Bologna. Grande come un dormitorio da ostello, trasandata e col legno dei letti scheggiato, questa stanza è a mio nome da tempo immemorabile ma nessuno la usa. Ogni tanto ci torno di soppiatto per godermi questo spazio libero, sebbene inutile come gli oggetti che vi giacciono sparpagliati. Il conto aumenta, nessuno lo salda mai. Ma basta andarsene lungo una scaletta a chiocciola, abbastanza svelti da non dare nell’occhio alla reception, per rispazzare il discorso sotto il tappeto. Insomma, l’incubo di non (voler) finire progetti con scadenze precise, iniziati in preda a slancio scavezzacollo. Figurarsi adesso, con un lavoro a tempo pieno per quanto flessibile, rimettersi sui banchi.

Mi presero. Il masterplan è fare un Bachelor, in teoria di tre anni, con Slavistica (Polonistica) in pole position e Scienze bibliotecarie e dell’informazione come materia accessoria. Tradotto: imparare solo cose nuove. A due anni da questa scelta che mi ha imposto di mettere in pausa qualsiasi forma di attivismo e volontariato, ho nove esami alle spalle e sono a un terzo dello schemino. Ricordo ancora il senso di stanchezza abissale dei primi mesi, la testa fritta che dopo le 22 riusciva a malapena a giocare a sbarazzino sul letto prima di chiudere baracca. Pur avendo già studiato all’Alma mater un quarto di secolo fa, e per cinque anni, previo un esame d’ammissione a crocette che doveva battezzare centocinquanta nomi a fronte di duemila candidati stipati in un capannone della fiera, malgrado questo, e il vecchio ordinamento, e la tesi, e alcuni esami da incubo come Diritto pubblico e Relazioni internazionali, da quando studio in tedesco – e polacco – alla Humboldt mi sembra di fare l’università per la prima volta. Sarà che la memoria selettiva ha bruciato tutte le sequenze accademiche dei miei anni col villino in via Toffano a fungere da punto di riferimento della nostra setta di spietati analisti del tg4. Sarà, semplicemente, che a suo tempo avevo la sensazione di dover studiare per il pezzo di carta, mentre adesso questo lusso dadaista mi riempie di gioia. Una delle decisioni più azzeccate della mia vita.

Cosa c’è di più bello dello studio? C’è la struttura, istituzionale ma vispa, c’è il brivido della corsa al voto, c’è l’accesso a una quantità immane di conoscenza. Che non è lo stesso di una normale connessione a internet. Quando studiavo Comunicazione ottenni un rivoluzionario indirizzo mail e potei usare per la prima volta un computer connesso alla rete – occasione che sfruttai per vedere se a Nizza davano The Straight Story in anteprima europea (lo davano), per chattare col fidanzato via mirc sul canale #dadolandia, per scaricare i testi delle canzoni dei Blur e dei Queen e anche per visitare qualche pagina birichina, cosa che mi drogò d’avventura e vergogna. Ovviamente non sapevo dell’esistenza della cronologia. Oggi l’affiliazione universitaria consente di accedere legalmente a milioni di pdf, e oltre alla mail di rito, alla VPN fattapposta e a una connessione wireless valida in ogni dove (ci sia una struttura accademica) tutto funziona via moodle, una “piattaforma di apprendimento” che di fatto sostituisce dazebao, appunti, fotocopie e libri ordinati in via Petroni. Non succede quasi mai che sia necessario acquistare un testo. Le lezioni, una volta esperite dal vivo, si tramutano magicamente in versioni pdf di power point. Tutto è digitale, ordinato e organizzato alla perfezione. Con un ritmo pazzesco e un workload poderoso. Ma ordinato. E se questi commenti fanno di me un boomer, so be it.

Il progetto originario era di approfittare del “duales Studium” per domare il polacco – quindi iniziare a tradurre nella combinazione PL>IT – e avere credenziali da bibliotecario, un lavoro per cui in Prussia c’è molta richiesta. Le notifiche sulle posizioni che si aprono su Berlino le ho già attivate. Sul primo punto, per il polacco sto ricevendo una formazione universitaria che per il tedesco, imparato individualmente e crudamente più con la biografia che col curriculum, non ho mai avuto. Noi traduttrici vogliamo solo tradurre e spesso respingiamo proposte di interpretariato perché non ci competono – sebbene molte di noi abbiano eccome le competenze. Nel 2021 entrai in una saletta per il corso di polacco A2+ – primo step per chi comincia con conoscenze pregresse – e mi ritrovai per novanta minuti ad ascoltare un docente che parlava solo in polacco, a velocità di crociera, ci dava istruzioni in polacco e pretendeva da noi che parlassimo, argomentassimo, scrivessimo in polacco. E sì, leggessimo. Ma il leggessimo era, ed è, solo un quarto delle competenze richieste, funzionale alla produzione di chiacchiere comprensibili e di testi sensati oltre che ben strutturati. Quando nel corso del terzo semestre abbiamo iniziato a leggere i racconti di Tokarczuk e ho scoperto Sławomir Mrożek mi sono commosso. La Polonia non è solo croci mariane infiocchettate in aperta campagna, kaczyńskismo a palla e americanismo militarizzato. C’è una tradizione culturale impressionante che parte come minimo dai tempi di Mickiewicz e arriva intatta, oltre che poco approfondita all’estero, fino ai giorni nostri. Per farsi un’idea a colpo d’occhio dico sempre che basta guardare i poster dei film rifatti per il mercato polacco, una sorta di détournement programmatico con decenni di storia, che la dice lunga sullo światopogląd (Weltanschauung) di questo Paese abituato a mancare sulla cartina. Quanto al perché a monte, cioè perché studiare una lingua slava con sette casi e una dubbia reputazione politica, potrei raccontare di viaggi selvaggi a Oświęcim e Łódź o della distanza abissale tra Görlitz e Zgorzelec (che sono la stessa città), ma la spiegazione migliore l’ha data un nostro amico psicanalista. Polonia suona come Bononia.

In questi due anni ho imparato cose che non avrei mai detto. La meraviglia dell’Open Access, un’autentica rivoluzione copernicana nell’accesso alla scienza, pur perfettibile nel suo sistema di finanziamento, e il problema sindacalissimo, di fatto ancora intonso, della gratuità della peer review. Il portentoso ginepraio di RDA, il sistema internazionale di catalogazione bibliotecaria vigente da alcuni anni – un set di regole in costante sviluppo. La trascrizione fonetica, quanto di più lontano dal mio approccio visivo al mondo, eppure bellissimo coi suoi simboli assurdi e la mappatura che cambia a seconda delle lingue. Non capirò mai perché una t è dentale (quindi con un ponticello sotto) davanti alle vocali o alla cappa, alveolare davanti alle alveolari e postalveolare (con un trattino sotto) davanti alle postalveolari, ma va bene anche così. Alcune cose vanno imparate a memoria, in un tunnel di ossessione e disperazione, e dopo il picco dell’esame scemano, acquistano improvvisamente senso o restano un aneddotto – come la pronuncia di hobby.

Per capire meglio il fenomeno propagandistico e culturale del socrealizm, il realismo socialista alla polacca, qualche settimana fa abbiamo guardato il film Przygoda na Mariensztacie (1953) di Leonard Buczkowski (Leonarda Buczkowskiego, il genitivo è questo). “Avventura a Mariensztat” è un finto musicarello, nonché finta commedia romantica ambientata nell’omonimo quartiere di Varsavia protagonista negli anni Cinquanta di un importante rilancio urbanistico. Per la Polonia col sol dell’avvenire davanti alla faccia era il momento di costruire in tempi record nuovi quartieri, o intere città satellite come Nowa Huta, cantata peraltro da Wisława Szymborska nella prima fase, organica, della sua produzione. La protagonista, Hanka (Lidia Korsakówna), scopre Mariensztat venendo in torpedone dai campi insieme al suo coro contadino e decide di diventare muratrice a tutti i costi – non facile, sebbene il sistema promuova ufficialmente la parità dei sessi. Ce la fa, anche se più che un trionfo delle brigate femminili il finale segna l’importanza del lavoro collettivo e la saggezza del segretario locale del partito. Nel film c’è un’esile trama sentimentale che funge da McGuffin per lanciarsi a testa bassa tra le impalcature. L’altro McGuffin sono le canzoncine, che scompaiono appena si entra nel vivo. Hanka s’imbatte in un aitante muratore, la scintilla scatta, nella folla si separano senza dirsi come si chiamano, lei lo rintraccia – il faccione del tipo compare su un manifesto dedicato agli operai più zelanti – e i due si rincorrono nel viavai di calcina e scale mobili della Varsavia in crescita verticale, incrociandosi con sorrisi smaglianti dopo una lunga sequenza affamata di desiderio. Ed eccoli finalmente insieme. Che fanno i due piccioncini? Si danno la mano. Łał!

t dentale prima di i o j, come in festiwal. santo cielo.