il mestiere dei ferri

Michelangelo’s Florence Pietà, a cura di Jack Wassermann, Princeton University Press, 2002, p. 176 (dall’appendice A, The Carving Techniques of Michelangelo’s Pietà, di Peter Rockwell).

Tra poche settimane compio quarantasette anni. I primi spiccioli li ho guadagnati nel 1995 facendo volantinaggio a tappeto a Bologna e dintorni. Se tutto va bene, nel giro di un quarto di secolo dovrei tirare una qualche forma di pensione. Quindi ora mi trovo nel bel mezzo della brillante carriera che scelsi, scapestrato, una quindicina d’anni fa. Il bilancio qual è? Il bilancio, forse non dissimile da quello di molte colleghe (femminile inclusivo), è che dovrei guadagnare molto ma molto di più.

Questa, beninteso, non è una querimonia. Parlerò di royalty, casse e ferri da scultura col tono scanzonato che appartiene a ogni orecchia di questo blog. Questa semmai è una piccola disamina del sistema-traduzione in regime di diritto d’autore tra Italia e Germania, i paesi in cui vivo e lavoro. La traduzione editoriale è, o dovrebbe essere, un mestiere in grado di dare il pane. Concetto fluttuante, visto che dipende dall’economia che ognuno di noi porta avanti. Su una cosa però dovremmo essere tutti d’accordo: un mestiere, come quello del fontaniere che ti si presenta a casa brandendo la chiave inglese, è tale se basta a coprire i bisogni essenziali di una famiglia. È un fatto che la traduzione editoriale fatichi, sia in Italia sia in Germania, a conquistare questo status. Molte di noi sono costrette ad arrotondare o – peggio ancora – arrotondano traducendo. Considerato un lavoro figo, materiale perfetto per tesine e fantasticherie, la traduzione editoriale è fragile perché porosa, massacrata da un clima di concorrenza atroce nonché, spesso, inconsciamente sleale. In questo quadro pieno di crepe arrivano pure le speculazioni sull’intelligenza artificiale. Che sia il caso di aggrapparsi alla chiave inglese?

Lungi da me sostenere che in Germania si sta meglio. Si sta diversamente, con pro più macro e contro più micro, nel senso che più si allarga lo sguardo, più si ha un’impressione positiva. Dal punto di vista sistemico la Germania rappresenta un buon esempio, in ambito europeo, di paese attrezzato per consentire al nostro mestiere di essere davvero un mestiere. Parto dal calcolo della “cartella”, unità di misura del classico pagamento a cottimo. Se in Italia da molti anni la cartella editoriale ammonta a 2000 battute spazi inclusi, in Germania si adotta la Normseite, oscillante tra le 1500 e le 1600. I compensi agganciati a questa unità di misura sono poi nominalmente più elevati della media italiana, di circa un 50%. A disciplinarli, almeno in teoria, è la gemeinsame Vergütungsregel negoziata dal sindacato VdÜ. Dico in teoria perché molte case editrici ignorano l’accordo. Ma in pratica, restando al confronto tra i due paesi, c’è una bella forbice sui compensi perché la Normseite è più piccola della cartella e viene fatta pagare di più.

In Germania c’è il Deutscher Übersetzerfonds (DÜF), un ente che dal 1997 si occupa di sovvenzionare progetti traduttivi e la relativa formazione professionale. La graffa dei programmi è davvero vastissima e da alcuni anni, grazie a un mirato intervento politico, il fondo eroga borse anche alle colleghe, come la vostra affezionatissima, che traducono dal tedesco (cioè DE>, non >DE) vivendo stabilmente in Germania e pagandoci le tasse. Pur non essendo l’unico ente che finanzia traduzioni legate al mondo germanofono, il DÜF ha un ruolo così centrale da creare, per certi versi, comunità. La traduzione editoriale in Germania non sarebbe la stessa senza le iniziative del fondo. Il fatto che manchi un omologo italiano è un cratere che grida a gran voce di essere riempito dal legislatore. Qualche passo s’è fatto tra il Conte II e il governo Draghi. Ora bisogna vedere se il testo troverà la sua strada, in una forma dignitosa, anche tra i meandri di questa legislatura.

Una traduttrice editoriale italiana pura, che lavora esclusivamente in regime di diritto d’autore, non ha la pensione. In Germania esiste la KSK, la cassa sociale degli artisti: chi supera il vaglio accede a un meccanismo che simula il datore di lavoro assente per noi libere professioniste, coprendo metà dell’assicurazione sanitaria (cifre non indifferenti) e procedendo al versamento dei contributi pensionistici. Io tutti gli anni ricevo una letterina dall’Inps crucca con una botta di calcoli e un numero di tre cifre che dovrebbe rappresentare la mia pensione tra venti e passa anni “se le cose restano così”. Tant’è che nonostante mi muova nel maraviglioso sistema tedesco, io qui una pensione integrativa l’ho attivata, tra lacrime, fragole e sangue, perché non si sa mai. Gli ingranaggi del sistema ci sono tutti, ma la povertà relativa sempre quella è.

Una cosa che l’Italia ha come la Germania è la sua bella collecting society, che si chiama Siae. La tedesca VG Wort fa i calcoli del venduto, del fotocopiato, del trasmesso e del messo in scena e provvede affinché le colleghe ricevano una quota di Tantiemen, cioè royalties (d’ora in avanti al singolare neutrale). E qua si apre un discorso enorme, che riassumo così: le traduttrici editoriali hanno diritto a partecipare ai proventi dell’opera che traducono, ma ha senso insistere solo se si sa che il prodotto venderà molto. Il tema in Italia sta emergendo in seguito alla direttiva europea recepita nel 2021 dal governo Draghi. La ratio del testo è il rafforzamento contrattuale degli autori, da sempre parte debole, e sola, al momento di negoziare. Le remunerazioni delle autrici, quindi anche delle traduttrici di opere dell’ingegno, devono essere “adeguate e proporzionate”.

Per ora siamo a zero: testuggine schiacciasassi da parte degli editori, piccoli o grandi che siano, salvo accordare royalty cosmetiche che si traducono in un nulla di fatto. La Siae, per le traduttrici, versa al massimo qualche euro (cifre: due) per le fotocopie. E in tempi di covid, complice il ministro Franceschini, ha più volte bonificato alle colleghe aventi diritto un beneficio ottenuto cambiando in via emergenziale la destinazione di un fondo interno. Va detto che il merito della nostra emersione ai tempi del coronavirus, con tanto di ristoro ad hoc, è soprattutto merito della sezione sindacale Strade in Slc-Cgil, a cui sono iscritto dal 2013. Un lavoro che continua a spron battuto, come dimostra la recente audizione presso l’AgCom, l’ente che dovrebbe vigilare sull’applicazione della direttiva di cui sopra. Non è un caso che buona parte dei link di questo articolo puntino al sito stradajolo. Se traduci libri e stai leggendo queste righe, per cortesia iscriviti o avvicinati a Strade. Annusaci. I brutti contratti si firmano ignorando i propri diritti. Inoltre, Strade è un portentoso collettivo. Una portentosa collettiva.

Le royalty. Le famigerate royalty per le traduttrici che tanto scandalizzano gli editori potrebbero saltar fuori conformemente alla legge senza che nessuno si faccia male. Basterebbe prevederle come partecipazioni sostenibili – per le case editrici – nel senso di farle scattare, con percentuali modeste (intorno all’uno percento) dal momento in cui il libro inizia a generare profitti. Non tutti lo fanno, soprattutto in un mercato drogato dalla coda lunga e da un ritmo di produzione equiparabile a una bolla. Ma se io so che sto accettando un libro che ha tutte le carte in regola per andar bene, sarà meglio che le chieda, le royalty. Perché mi spettano. Parlo per esperienza, avendo tradotto negli ultimi anni un autore che finisce spessissimo in vetrina e davanti alle casse. Quella che dovrebbe essere una richiesta legittima rischia invece di tramutarsi in un boomerang, perché siamo tutte sostituibili. O così si crede. Così come si crede che, alla lunga, l’intelligenza artificiale possa svolgere anche mansioni artigianali. Una scemenza. Quindi no, le royalty devo ancora vederle ma sì, continuerò a chiederle sprezzante del pericolo. Cari editori, le competenze umane si pagano.

Se c’è un fondo per traduttrici, questo fondo dovrebbe occuparsi di sostenere i progetti più coraggiosi e meritevoli, lasciando a una giuria di esperti il compito di definire i criteri. E se c’è un mercato, e quello c’è dappertutto, allora gli attori del mercato dovrebbero far sì che la ricchezza venga distribuita in maniera equa. Ergo: se traduco una silloge di nicchia busso alle porte del fondo, ma se traduco un autore alla moda il mio contratto deve prevedere o un compenso elevato, o una quota di royalty dalla tot copia venduta. Il tot dipende dall’economia in cui ci si muove. Al momento, in Italia, queste due opzioni mancano del tutto. E anche i compensi son da fame. Se aggiungiamo alla scena coloro che traducono libri per hobby, curriculum, la gloria o altri motivi accessori non legati a una qualche consapevolezza professionale, il pasticciaccio è patente.

La direttiva europea sul copyright, ora legge dello stato italiano, contiene un unico obbligo, almeno sulla carta, che è quello di rendicontazione. Articolo 110 quater. In quanto coautrici dell’opera tradotta, noi abbiamo pieno diritto a sapere quanto vende. Anche se non percepiamo royalty. E questa informazione è importante proprio per calibrare la richiesta di un extra rispetto a quanto pattuito col calcolo a cartella – e che sia un extra sostenibile per tutti, quindi motivato da vendite sufficienti. Finché restiamo all’oscuro dei dati di vendita non potremo mai negoziare percentuali sensate a partire da una cifra ragionevole di copie vendute. Molti editori lamentano l’aggravio burocratico dell’invio di questi rendiconti. Eppure i numeri son sempre quelli che finiscono nelle caselle mail degli editori esteri e degli agenti.

Un ottimo strumento di negoziazione, non nuovo ma al momento unica breccia nella testuggine, è il discorso sugli anni di cessione. Un tema, questo, tutto italiano visto che in Germania il sistema è diverso (e una volta tanto, non invidiabile). La legge sul diritto d’autore del 1941, aggiornata e finalmente superata dal recepimento della direttiva a ottant’anni di distanza, prevedeva un massimo di vent’anni per la cessione dei diritti di sfruttamento dell’opera tradotta. Ora quel massimo è considerato una stortura. Contrattando il contratto, che va contrattato altrimenti si chiamerebbe zitteffirma, conviene sempre ridurre la durata della cessione, in modo da rinegoziare la pubblicazione dell’opera in tempi più brevi. E se il libro nel frattempo è scomparso dal mercato, la traduzione torna nelle mani di chi l’ha dattiloscritta – che può riproporla.

L’editoria è la prima industria culturale italiana. Pur con un fatturato inferiore a quello di paesi come Francia e Germania, i soldi – come suolsi dire – ci sono e vanno redistribuiti meglio. Non c’è bisogno di punire nessuno con espropri proletari e barricate ideologiche. C’è bisogno, questo sì, un bisogno urgente, di mettere in sicurezza mestieri creativi a rischio perché mal pagati e privi di tutele. C’è bisogno di stati generali veri in cui tutte le parti in causa si incontrino a carte scoperte – anche la distribuzione, che si pappa la fetta più grossa. Io voglio la sicurezza economica, non la visibilità a tutti i costi. Il nome della traduttrice in copertina dev’essere un mezzo, non un fine, per proseguire un percorso di emersione del mestiere che sfoci in compensi dignitosi. Altrimenti chiamiamolo hobby col mignolo alzato e non se ne parla più.

Nel penultimo libro che ho tradotto, un milione e novecentomila battute un quarto delle quali appendici, note e bibliografia da capogiro, il tutto smaltito in dieci mesi, mi sono trovato alle prese coi nomi tedeschi di tre scalpelli: Sticheisen, Zahneisen, Kammeisen. Tre ferri, letteralmente. In italiano si chiamano, e l’ho installato nella mia traduzione con due giri di chiave inglese e un grugnito, subbia, calcagnolo e gradina.