like a matador in the fog

Tatuaggio di A.J. (Noel Clarke) in Heartless (2009) di Philip Ridley

Questo mese è morto uno dei miei amici più cari. Il post di aprile potrebbe anche chiudersi qui, ma ho pensato di riversarci dentro qualcosa di bello e inatteso, una scoperta fatta per caso qualche settimana fa. Philip Ridley ha – timidamente – ricominciato a scrivere narrativa. Non si tratta di una novità assoluta. I primi segnali in questo senso risalgono al 2016, mentre è del 2021 (dopodiché, silenzio) un racconto, Sunday, inserito in un’antologia dal titolo Mainstream – con “main” barrato – curata da Justin David e Nathan Evans e uscita per il piccolo marchio Inkandescent, “by outsiders, for outsiders”. Davvero un’orecchia annidata in prati spelacchiati.

Ridley, nato (forse) nel 1964, (forse) nel 1957, sicuramente ancora vivo e scalciante, è emerso come una buriana arcobaleno nei tardi anni Ottanta. Dopo gli studi artistici ha pubblicato un primo racconto nel 1986, Embracing Verdi, subito seguito dal bellissimo Leviathan (1987). Entrambi i testi, che coniugano una sensibilità queer ad ambientazioni proletarie londinesi, quasi sempre l’East End delle Docklands quando i grattacieli del Canary Wharf erano ancora in costruzione, rientrano in un macrofilone britannico che andava sotto il nome di Rinascimento. Voci nuove attente al sociale, contrarie al thatcherismo e allegramente mascalzone nella loro difesa dei diritti civili. Confondendo i piani mediali, il timbro di Ridley oscilla da sempre tra l’amarezza di Terence Davies, lo slancio pop di Jimmy Somerville e la veracità del primo Kureishi. Con occhi odierni, il suo mondo è un po’ invecchiato. Troppo binario, si direbbe, nostalgico di drammi “kitchen sink”, antiquato nel suo immaginario da liberazione frocia con le stampe di Tom of Finland. Forse è questo il motivo per cui da quasi vent’anni Ridley non si legge più. Nei suoi racconti, “queer” vale ancora come un’arancia meccanica.

Eppure, trentacinque anni fa Philip Ridley emerse come un colosso dalle acque della Manica non certo in quanto scrittore gay. Nella sua eterogenea produzione, la narrativa “per adulti” occupa un segmento relativamente piccolo nonché limitato ai primi anni. Il suo romanzo di debutto, Crocodilia (1988), rientra senza dubbio nella letteratura queer ed è anzi molto esplicito per l’epoca. Già con In the Eyes of Mr Fury (1989) l’attenzione ai corpi e alla sessualità cede il passo a un immaginario gotico e favolistico che rappresenterà la vera forza dell’autore. Un alveo la cui espansione è evidente anche nella raccolta di racconti Flamingoes in Orbit (1990). Trent’anni fa, in Italia, Ridley usciva per Mondadori spesso tradotto da Angela Ragusa. Fenicotteri in orbita ebbe un tale impatto tra i lettori giovani da meritare persino un’edizione mass market (“I miti”, pochi spicci e copertine metallizzate). Anni apicali per Ridley, con un fuoco di fila di libri – per adulti e ragazzi -, i primi, straordinari testi per il teatro e addirittura un film come regista, The Reflecting Skin (1990), girato in Canada, che entrò di volata nella graffa delle pellicole di culto.

Maestro dello straniamento e della “luce nell’ombra”, Ridley si è fatto un nome non certo grazie al rimasticamento gay di situazioni vicine ai film di Mike Leigh – in Embracing Verdi latita un motociclista vestito in pelle nera, ex amante del padre morto del protagonista – bensì sulla scorta di un perturbante popolare e atavico. Ecco allora le marionette che appaiono in In the Eyes of Mr Fury, tanto il britannicissimo e violento Mr Punch quanto un diavolo con le zanne gialle, le balene cosmiche di Leviathan osservate da due ragazzi abbracciati, coccodrilli e iguane a iosa, spesso solo evocati, il “feroce Iellagel” del romanzo eponimo per ragazzi, in originale Mighty Fizz Chilla. Facendo perno su una biografia misteriosa – il famoso anno di nascita che nessuno conosce davvero – e su un atteggiamento schivo degno di Tiziano Sclavi, Philip Ridley a cavallo degli anni Novanta si qualificò come una sorta di Tim Burton queer capace di fondere visceralità e poesia adolescenziale.

Una nota pizzicata a meraviglia al tempo, ma ormai lontana dalla sensibilità diffusa. Tant’è che nel 2016, con la riscrittura di In the Eyes of Mr Fury, Ridley ha cercato di salvaguardare la freschezza dei suoi testi. Significativo, da questo punto di vista, il profondo rimaneggiamento di Flamingoes in Orbit, la cui versione attualmente sul mercato sfoggia dieci racconti invece dei tredici del 1990, tra cui due con titoli nuovi, uno riscritto (Another Story, ex The Barbaric Continuity, l’unico che parla di Aids) e due precedentemente usciti in solitaria nel corso degli anni Novanta, Alien Heart e Wonderful Insect. Sunday (2021) è il primo segnale di una ripresa narrativa dopo anni di ripensamenti.

Come scrittore, Ridley è soprattutto noto grazie alla sua sterminata produzione per ragazzi, che gli valse il titolo di nuovo Roald Dahl. Sono libri, questi, a partire da Mercedes Ice e Dakota of the White Flats, entrambi del 1989, che non necessitano di alcun rimaneggiamento. Classici nati, tant’è che Dakota delle bianche dimore uscì quello stesso anno per Salani, tradotto da Donatella Ziliotto. Oltre alla già citata Ragusa, i traduttori che per una quindicina di anni si sono ottimamente cimentati con Ridley sono Cecilia Veronese, Matteo Colombo e Laura Spiteri (altri ne dimentico, altri mi scuseranno). Nell’aprile del 2005, per un sito di recensioni che non esiste più (corpo12, collegato alle ancora vispe edizioni END di Aosta), scrissi queste righe su Krindlekrax: “Epopea di via Lucertola, dove la palla del bullo di turno fa da-boing e spacca le finestre, l’insegna dell’osteria fa iiiik e il tombino fa ku-clunk perché nelle fogne passa Krindlekrax, il coccodrillo gigante. Ruskin Scheggiolo è un bambino dal corpo gracile e il viso coperto dagli occhiali, roso da ambizioni eroiche. Ordinaria amministrazione nell’universo di Philip Ridley: gli adulti sono difettosi e patetici, i bambini reggono il mondo sulle loro spallucce, i mostri divorano solo chi ha paura e le strade sono quelle povere di un sobborgo londinese vasto come la Terra di Mezzo. La periferia sognata degli angeli (altro che putti: al massimo l’Eros amico di Pollon), dove le pezze al culo non sono vestiti di scena. Philip Ridley ha la letteratura per ragazzi nel sangue e la scodella con una precisione che sfiora la manualistica: ogni personaggio ha le sue battute, i suoi tic, gli eventi ritornano con piccole variazioni, l’happy end è di rito ma ha il retrogusto della favola nera, dove la morale (morale?) porta con sé anche una iniezione di dodici cc di inquietudine. Nei libri di Ridley ognuno ama chi gli pare, il passato incombe e non c’è esorcismo che tenga, la morte non è mai apparente e la famiglia è un nido raffazzonato di serpi dove l’amore non sempre si schiude. Tutto accade di notte, quando i bambini bravi sono a letto. A innescare il meccanismo perfetto della narrazione basta la curiosità che svezza il gatto e quel coraggio senza macchia che chi cresce può solo sognarsi. Di giorno, a occhi aperti. Ricordi dolorosi di quando si era più grandi da piccoli”. L’ultimo suo romanzo per ragazzi, Zip’s Apollo, risale al 2005.

Con l’eccezione di The Reflecting Skin, la filmografia di Ridley è meno nota della sua produzione letteraria. By outsiders, for outsiders anche lei, tant’è che l’apparizione on line del suo primo corto Visiting Mr Beak (1987) va considerata un miracolo. Idem per The Universe of Dermot Finn (1988), un gioiello che vidi per la prima volta grazie alla copia di una copia di una copia (matrioska ad infinitum) su VHS. Più accessibile, anche perché di facile collocazione nella tassonomia dei generi, The Krays (1990) di Peter Medak, su sceneggiatura di Ridley che pare iniettare il tema cronenbeghiano / priestiano dei gemelli in ambito gangster-cockney. Al solito bizzarro, ma fallimentare al botteghino e tra i critici, The Passion of Darkly Noon (1995) con protagonista Brendan Fraser, pendant del Viggo Mortensen altrettanto giovanissimo che si vede in The Reflecting Skin. Dopo uno iato di quattordici anni Ridley è tornato dietro la macchina da presa nel 2009 per un piccolo film londinese, Heartless, scrivendo anche le canzoni. Questa versione “Eastender” di Faust, amara, graffitata e incappucciata, vale come un ulteriore biglietto da visita per l’universo di Ridley. Solo quando è buio pesto, questo il messaggio, si vedono le stelle. Tra le molotov e le scintille mefistofeliche di questo film senza speranza si muovono tre sagome prelevate di peso dal cinema di Mike Leigh: Timothy Spall, Eddie Marsan e la strepitosa Ruth Sheen. Un ultimo whimper cinematografico da parte di Ridley, quando ormai il bang di Riflessi sulla pelle era acqua passatissima.

La produzione teatrale di Philip Ridley meriterebbe un saggione a sé stante. Dal punto di vista quantitativo è il peso massimo della sua bibliografia allargata, inoltre il medium del teatro – meglio se fringe – rappresenta la sintesi perfetta del talento dell’autore per i dialoghi, del suo genio nel mettere in scena i turbamenti adolescenziali e della sua tendenza, già visibile nei romanzi e nei racconti, a racchiudere la narrazione tra poche pareti, per poi concluderla con una battuta che fa spegnere le luci. Parimenti suddivisibile in testi per adulti e per ragazzi, con l’aggiunta di monologhi e altre brevi pièce d’occasione, il teatro di Ridley inizia col botto nel 1991 con l’incubo infantile The Pitchfork Disney, subito seguito dal romantico The Fastest Clock in the Universe (1992). A volte rappresentati anche in Italia, i moltissimi lavori teatrali di Ridley sono l’ossatura vera del suo lavoro autoriale. Un esempio per tutti: il dramma Mercury Fur (2005), a suo tempo considerato scandaloso.

Insieme a Nick Bicât, autore della colonna sonora di Darkly Noon e Heartless, Ridley ha messo in piedi anche un progetto musicale, Dreamskin Cradle, con tanto di album cantato da Mary Leay, Songs from the Grimm (2014). Su Spotify, tanto per fornire un esempio, si trovano solo due pezzi e gli ascoltatori mensili del gruppo – per quanto significativo possa essere questo indicatore algoritmico – ammontano a 11 (undici). I bei tempi di Brokenville e Vinegar Street sembrano quindi finiti da un pezzo per lo scrittore britannico dalla testa tonda, alla moda quando c’era John Major e la Brexit era uno scenario impensabile. Motivo di più per ordinare, meglio se direttamente da Inkandescent, il volumetto contenente, in chiusa, il racconto Sunday. Intrise di un senso attanagliante di decadenza fisica e mentale, queste dieci pagine originali segnano un ritorno sghembo alle idiosincrasie stilistiche e culturali che fanno di Ridley uno scrittore imprescindibile. Nell’afa – molto moderna – di una Londra raccontata da un narratore inaffidabile vediamo evocare piogge di iguane, pappagallini come rane bibliche (peraltro destinati a fondersi), vecchi film in bianco e nero e, in pieno stile Ridley, la figura salvifica di una madre. Leggendolo, e rileggendolo, mi è tornato in mente Benediction (2021) di Terence Davies, biografia tristissima del poeta e soldato Siegfried Sassoon che si conclude con una poesia non sua, bensì di Wilfred Owen: Disabled. Autori che Ridley cita nel primissimo racconto di Flamingoes in Orbit, ora intitolato The Tooth of Troy Flamingo. Come mai? Perché leggendo Sunday ci s’imbatte, nelle parole di Ridley, in “oh, a glimpse of that old grit and glamour, faded now, but still eye-catching, like a matador in the fog”.

halleluja now

Terence Davies, sequenza dei titoli di testa di The Neon Bible (1995), immagine finale.

Scrivo dal Cairo alla fine di questo mese turbinoso di febbraio duemilaventitré. La Berlinale è appena finita, e il riconoscimento alla carriera è andato a Spielberg. Il suo discorso m’ha incollato allo schermo del tablet mentre mangiavo la mia zuppetta in cucina. Per tutta la vita ho avuto l’impressione di stare su un bullet train, ma mica ho finito – voglio battere il record di Manoel de Oliveira, ha detto. E ancora: mio padre è morto a centotré anni, quindi i geni ci sono. Spielberg ha pronunciato chiaro e tondo il nome “Manoel de Oliveira”, auspicando per sé altri trent’anni di empatia, presenze/assenze materne e affabulazione. Ha anche ammesso di non avere piani al momento, eccezion fatta per la produzione di una miniserie tratta dal Napoleon di Kubrick. Hai capito?

Nel corso della Berlinale, per me mordi e fuggi causa calendario allucinante, ho avuto la fortuna di vedere, scrivendo qualche riga per Indie-Eye, Roter Himmel di Petzold e Sur l’Adamant di Philibert. Ho anche visto quel capolavoro ballardiano di Infinity Pool e The Survival of Kindness, ritorno alla radicalità, purtroppo furbetto e spuntato, da parte di Rolf de Heer. L’Orso d’oro è andato a Philibert, cioè un maschio bianco ultrasettantenne, sulla cresta dell’onda quando i cineasti da seguire con devozione erano Kitano, Kusturica e Kiarostami. Rivoluzione! Che l’abbiano salvato i tanti rimandi subliminali ad Agnès Varda sparpagliati sulle pareti lignee del barcone protagonista del film insieme al suo carico di matti? Mi piace credere che la statuetta dorata vada soprattutto ai primi piani, agli abissi belli di quegli occhi mostrati con amore. Nel sua tragicommedia di mezza estate, Petzold gioca con gli stilemi del suo modo di raccontare, a partire dal brano dei titoli di testa: In my mind. Quasi a suggerire che l’intero film è, ancora una volta, una visione, il sogno di un morto o, in questo caso, di uno scrittore in crisi nera. Ma anche qui mi piace credere, di una fede limitata alla sospensione dell’incredulità, che le ceneri volanti che si vedono non siano il segnale di una favola ma avvisaglia vera di un incendio in arrivo. Che il cinghialetto in fiamme sia drammaticamente vero, pur nell’evidenza del cgi. E che lo stesso valga per i cieli fiammeggianti del titolo, metafora facile dell’emergenza climatica ma, nel quadro del film, innesco credibile di una catena di svirgolate che termina col faccione di Thomas Schubert, reaction shot a un comportamento apparentemente assurdo del personaggio di Paula Beer. Film coraggioso che mischia il pesante e il leggerissimo, Roter Himmel, rischiando tutto con alcune scelte di sceneggiatura. Finalmente Petzold fuori dal proprio, idiosincratico tunnel.

Durante la Berlinale, ma non nel programma della Berlinale, sono riuscito a esperire dal vivo Jerzy Skolimowski al vernissage della sua mostra di dipinti presso la galleria nüüd di Mitte. Mi era già capitato nel 2001 al Lido di Venezia, occasione pressoché identica, ma allora Skolimowski era un monumento in pensione, celebrato ogni tanto da Fuori orario. Ora, quasi novantenne, ha alle spalle una ripresa formidabile dell’attività cinematografica a partire da Quattro notti con Anna (2008), una candidatura agli Oscar per IO e The Palace, una sceneggiatura scritta a quatto mani con Polański come ai tempi del Coltello nell’acqua (1962). Sorvolando sui dipinti, il momento in cui il vecchio pugile balbuziente, scocciato dal vociare, è salito su una panca tenendo due minuti di discorso da vero stand-up comedian e arrivando a far ragliare tutti in coro, be’, è stato un fulmine a ciel sereno come sentire Spielberg pronto a seppellire una seconda volta Manoel de Oliveira. Nella testa, mentre ero alla galleria, avevo l’imminente esame orale di polacco. Di lì a pochi giorni avrei tenuto un discorso filato di venticinque minuti, senza power point né appunticini di sorta, su sei anti-favole di Olga Tokarczuk e Sławomir Mrożek. Per l’agitazione ho dormito male una settimana intera, con allucinazioni uditive del tipo Art the Clown ha appena suonato il campanello. L’esame di polacco profondo, livello B1+, è andato (ho preso 1,3 e mi bacio i gomiti), e il merito è anche del buon Jerzy e di tutte le volte che ha rinunciato alla tentazione di fare il cineasta internazionale, arrivando a girare Cztery nocy z Anną attorno a casa.

Ma questo mese, al calare del Feierabend, mi sono rituffato soprattutto nel gorgo di Terence Davies. In biblioteca ho recuperato Benediction (2021), arretrando fino a The Neon Bible (1995). Ho rivisto, dopo un quarto di secolo, la Trilogia, Distant Voices… Still Lives e The Long Day Closes. Non pago, ho messo le mani sul suo unico prodotto letterario, Halleluja Now (1984), libricino sghembo ma interessantissimo per inquadrare la filosofia di Terence. Britannico fino al midollo, con una voce stentorea che tradisce una formazione attoriale, Davies è emerso insieme alla generazione dei Derek Jarman e dei Mike Leigh, facendo il botto negli anni Ottanta con Greenaway, Loach e Frears. Ai tempi della Thatcher si parlava di rinascimento inglese, un rigurgito di autorialità senza vie di mezzo, non di rado animata da slanci politici. Terence, a volte scritto Terrence Davies, è sempre stato il più apocalittico, apodittico e ombelicale tra questi nomi rinascimentali d’Oltremanica, riuscendo a farsi apprezzare con tre mediometraggi – la Trilogia – datati 1976, 1980 e 1983 che parlano di lui, cioè di un perfetto sconosciuto, della sua famiglia cattolica e dell’infanzia a Liverpool. Come se Spielberg avesse fatto The Fabelmans al posto di Duel. Persino il film che l’ha consacrato nel 1988 risulta composto da due mediometraggi: in Distant Voices campeggia una figura paterna quasi kafkiana, mentre in Still Lives è la madre, una Madonna del popolo, a prendere il sopravvento. The Long Day Closes (1992) è considerato il capitolo conclusivo della sua lunga fase autobiografica, quando in realtà il film, primo lungometraggio senza cuciture, si limita a riproporre le intuizioni alla base dell’universo daviesiano: un tempo non lineare in cui s’intersecano le generazioni, lo struggimento per la casa di Liverpool, le sue scale, le sue finestre pulite il giovedì, la quotidianità arcana con la famiglia, il padre pazzo e manesco, un genio proustiano per l’inserimento e l’espansione di dettagli rivelatori e un amore sconfinato sia per il canto, quello improvvisato alle feste e nei pub, sia per la poesia – questa, giocoforza, altissima. La vertigine, insomma, anche questa à la Spielberg, tra l’enorme e il microscopico (lo schermo di De Mille e la faccia del bambino per la prima volta al cinema), tra il sublime e l’infimo. The Neon Bible, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di John Kennedy Toole, è stata una bella sorpresa. Davies si sposta nella “cintura biblica” americana, filma cieli stellati, lune gigantesche, una Gena Rowlands nonna scatenata, e riesce a proiettarsi nella vita altrui. Il ragazzo (Jacob Tierney) è più Davies che Toole nella sua malinconia, nel senso di inevitabile fallimento, persino nello scatto di violenza vendicativa del prefinale, il dito sul grilletto del fucile nel nome della madre. Un ultimo guizzo prima di lasciarsi andare a narrazioni filmiche fin troppo trattenute e ieratiche, “quiet passions” che stendono una rassicurante coperta calligrafica su un nocciolo magmatico e buio. Benediction, biografia per immagini del poeta e soldato inglese Siegfried Sassoon, segna un prudente ritorno di Davies alle origini. Prudente perché sempre proiettato su tempi lontani, vite non proprie, e corroborato dalla sacralità della forma poetica. Ma Benediction è anche una tragica storia queer ante litteram, una biografia omosessuale in tempi di poco successivi alla condanna di Oscar Wilde. Non solo. È una storia sul tempo che passa impietoso, con la trasformazione di Jack Lowden in Peter Capaldi mentre la macchina da presa rotea attorno al protagonista. È, ancora, una storia di cattolicesimo con la schiuma alla bocca, con Capaldi steso prono, Cristo spiaccicato sul pavimento in pietra di una chiesa. È una storia di relazioni difettose e frustrate, che nel finale riesce a far piangere proponendo integralmente una poesia non di Sassoon, bensì di Wilfred Owen, il suo primo amante: Disabled. Nella poetica di Davies, questo componimento non parla solo della terza età come sofferenza cronica e cronica nostalgia dei tempi andati, della spensierata potenza della gioventù, ma è anche, inevitabilmente, una considerazione – inattuale? – sull’omosessualità.

E qui riemerge, tellurico, Halleluja Now. Pubblicato per la prima volta nel 1984 per i piccioli tipi di Brilliance Books, quasi una versione tie-in della Trilogia, il libretto con le sue 170 pagine è tornato in libreria nel 1993 con Penguin, sicuramente sull’onda di The Long Day Closes. La prima considerazione è che per essere un’edizione Penguin, quella che ho consultato è piena zeppa di refusi. Come se la redazione avesse preso il testo di dieci anni prima per schiaffarlo nella nuova gabbia e darlo alle stampe senza manco rileggerlo. Come mai? Jamacian al posto di giamaicano, recluctance, un Adistra in bella vista per spiegare come si dice right in italiano, e due righe dopo un classico, ma evitabilissimo, Piazza Navonna. Suddiviso in tre parti – Songs for Dead Children, Letters to a Friend, The Walk to the Paradise Garden – il libro rispecchia in maniera patente il ritmo della Trilogia – Children, Madonna and Child, Death and Transfiguration. Rileggendolo oggi vien da pensare come Davies, all’epoca quasi quarantenne, ragionasse in chiave quasi fantascientifica sulla propria morte in un ospizio. Ora ha quasi l’età del tristo protagonista di Death and Transfiguration, che muore rantolando a un volume insostenibile mentre allunga le braccia verso l’immagine anonima di un ragazzo. Ma se le prime pagine rispettano lo stile nostalgico e raffinato che ha fatto la fortuna del suo autore, una madeleine dopo l’altra, e le ultime testimoniano del suo lato più pessimista e desolante, che oggi tacceremmo di ageism, ad alzare una bandiera rossa è la parte centrale del libro. Sono cento pagine secche che espandono senza vergogna un elemento appena accennato, ma impossibile da dimenticare, nella Trilogia. L’infimo pulsionale pendant del sublime. In Halleluja Now, Terence Davies parla della propria sessualità. Un tema che nel 1976 deve aver assestato un bello choc a chi ebbe l’occasione di vedere Children, prodotto dal British Film Institute, impeccabile nel suo bianco e nero ma anche nel mettere in scena le violenze istituzionalizzate della scuola inglese e i desideri omosessuali di un ragazzino che resta a bocca spalancata sotto la doccia della piscina. In Madonna and Child, al rapporto commovente con la madre si alternano scene in cui il protagonista, col volto dolente di Terry O’Sullivan che pare uscito dalla prima sequenza di Night of the Dead, azzarda i primi passi nella Londra BDSM, bussa nottetempo alle porte di un club privato, stringe un paio di chiappe, telefona ossessivamente a un tatuatore chiedendogli se è disposto a intervenire sui genitali, mentre noi, il pubblico, vediamo in panoramica la navata di una chiesa. Questo immaginario fassbinderiano, che cozza con una grazia cinematografica più vicina a Merchant & Ivory, è il grande sommerso viscerale della Weltanschauung di Davies. Tutto questo trova sfogo, senza filtro né inganno, nella parte centrale di Halleluja Now. Con una lunga elencazione di annunci sulla rivista Malebox e di scambi epistolari, troppo efficaci per essere inventati.

Si inizia a pagina 26: “Soon I begin to answer advertisements of a very special sort: ‘Young bi-sexual leatherguy (24) would like suggestions on how to keep warm during long, winter evenings. Box BP/129’; ‘Bearded guy, bodybuilder (28) into leather and skin-tight jeans. Seeks similar. No camps. Box BP /132’; ‘Biker – good physique – (32) seeks mates anywhere with black leather and bikes. Box BP/160’; ‘Handsome London biker – interests bodybuilding/leather/rubber S&M wants friends anywhere. Box BP/200’. A pagina 55: “Quaking in the silence, I simply watch him. He goes back to his seat, picks up his guitar, and opens his legs. We looks at one another in the warm spring sunlight. ‘Are you a leather guy?’ I say after a long, long time. ‘No.’ Warm spring silence. [riga bianca] Oh God have mercy on my thoughts”. A pagina 59: “Am I the only Malebox reader who enjoys plastic baby pants?”. A pagina 65, lapidaria citazione da Donne: Batter my heart three-person’d God. Le citazioni bibliche, dal Cantico dei Cantici, dall’Ecclesiaste, dall’Apocalisse di Giovanni aumentano fino al parossismo visionario della morte.

Lontano anni luce dalle barricate per i diritti civili, rinchiuso in una celletta soffocante e martirologica, Halleluja Now è un lai che toglie il fiato. Al contempo, ha un valore storico e sociale al pari del documentario che Davies ha dedicato a Liverpool, Of Time and the City (2008). Tra queste pagine ingiallite si coglie il bianco e nero di una vita omosessuale da Small Town Boy, tragica perché apparentemente priva di alternative malgrado le occasioni del bacino londinese, ignara degli appelli lanciati da Rosa von Praunheim nel perimetro ristretto di Berlino Ovest – e soprattutto rassegnata. A incontri fuggevoli e meschini. A uno scambio epistolare ossessivo e letterario, finzione intervallata da pochi, sofferti momenti di carnalità. Spesso addirittura controvoglia. Rassegnata a un gioco sadomasochista di menzogne, comportamenti miserabili – gli episodi col micragnoso St John fanno accapponare la pelle – e cattiverie indirette. Ellissi nella vita vera. Il protagonista, Robert, si vendica di un amante volubile dandogli appuntamento all’aeroporto per un viaggio e restandosene a casa, nel silenzio della propria stanza beige. Nel cuore grezzo di questo libretto ci sono tutti i film che Davies non ha fatto. Vi si coglie la repressione di un Visconti, l’angoscia abissale che Pasolini ha saputo tramutare in immagini solo in Salò. Terence Davies ha preferito deflettere, proiettare, usare Edith Wharton, Emily Dickinson o Sassoon come schermi per la propria, personale, tragica idea dell’esistenza. Impossibile sapere se ha fatto bene. Prescindendo dal dato biografico, basta la scena in ralenti di Distant voices con i due corpi in caduta libera che frantumano una tettoia di vetro per qualificare Davies come uno dei registi più talentuosi degli ultimi cinquant’anni. Talentuoso e dotato di senso dell’umorismo. La sua fusione di parola poetica e immagine “allestita” non ha eguali. Eppure, leggendo le pagine autoflagellanti di Halleluja Now, mi chiedo se Davies, che ora va per gli ottanta, non abbia ancora dentro di sé il proprio Salò, un film devastante e sincero sul fallimento che, sfumatura qui, sfumatura là, ci portiamo tutti dentro. Un fallimento di carne e non di crinolina.

Terence Davies, sequenza dei titoli di testa di The Neon Bible (1995).