Sono stato due settimane al Cairo insieme alla famiglia da parte di madre di mio marito Yassien. Previo test prima dell’andata (cinque ore d’attesa al gelo insieme a una torma di crucchi in fuga per le feste), e ora quarantena spezzabile dopo cinque giorni mediante nuovo test. Misure sensate, di fatto una tassa sui viaggi in tempi di reclusione. Tra pochi giorni a Berlino scatterà il divieto di allontanarsi da casa oltre un raggio di quindici chilometri. Il mio pensiero vola istintivo verso gli scaffali delle biblioteche bolognesi che dovrei consultare entro metà marzo. Ma scavallato il duemilaventi, come dire, non farcela non è un’opzione.
Al Cairo c’ero già stato tre giorni a metà febbraio, visita lampo volta a supplire alla festa di matrimonio a Funo di Argelato (sì, Funo di Argelato) andata a carte quarantotto. L’allarme corona era agli albori, nella pura forma di una paura montante priva di qualsiasi evidenza scientifica. Ricordo di aver giudicato alla stregua di fifoni con l’alluminio in testa le prime persone mascherinate viste all’aeroporto. Tre giorni fulminei, quelli, in un maelstrom di lavoro ed entropia durante i quali riuscii a vedere le piramidi, andare al Museo egizio e vedere la struttura ciclopica di quello nuovo, beccarmi un avvelenamento alimentare epocale e stringere finalmente la nonna di Yassien. Non mi azzardai ad attraversare la strada da solo, visto il traffico ballardiano in stile Concrete Island. M’innamorai, al primo colpo, delle preghiere cantate live dai muezzin. Pure della prima, che ti sveglia al sorgere del sole come un gallo impettito.
Queste due settimane sono state familiari, non turistiche. E malgrado fatichi ancora a leggere foneticamente le parole in arabo (basta un cambio di font a spalancarmi una botola sotto i piedi), qualche passetto in avanti l’ho fatto, anche orale. Ialla. Inshallah. Il giorno di Natale ho attraversato la Doqqi St. per la prima volta da solo, diretto a un supermercato nei pressi per comprare un panettone di marca italiana venduto a peso d’oro tutankamonico. Il giorno dopo, a piazza Tahrir dove campeggia un obelisco ancora da svelare (come se non si capisse che sotto la pezza c’è un obelisco) ho imparato con le cattive che non si fanno video in quell’area, soprattutto se puntati verso una moschea e soprattutto se in quel momento gli altoparlanti stanno pompando una preghiera da brividi. Così ho dovuto fingere di cancellare il video come quella volta in Armenia che un soldato mi prese in castagna mentre immortalavo il treno sovietico da cui eravamo appena scesi, marzo 2019. L’altra sorpresa, per difetto, è stata allo scoccare della mezzanotte del nuovo anno. Niente botti né fuochi. E dire che ovunque si vedevano scritte celebrative del 2021, mentre l’anno islamico, mi dicono, è una nozione pressoché inutilizzata nel quotidiano.
Un giorno abbiamo fatto una passeggiata in un parco – l’accesso a tutti i parchi è oneroso, anche se il biglietto è risibile per chi ragiona in euro – dedicato a paladini ed eroi sudamericani. Tra le palme, i gatti egizi (razza a sé, arcana e sublime) e i cani randagi ecco piccoli monumenti dedicati a sceicchi paganti, condottieri ecuadoregni, Chavez e Gandhi. Dissonanza cognitiva ripetuta in un altro parco, stavolta nel cuore dell’isola (di cemento e privilegio) di Zamalek. Il cosiddetto Grotto è una formazione naturale a suo tempo piena d’acqua, incastonata tra i palazzoni appena sotto un edificio disabitato, la Gezira Tower, ancora una volta degno dello scrittore di Shepperton. Entrando nei suoi meandri si coglie uno squittio frenetico. Sono i pipistrelli che occupano la cupola centrale e disegnano incessanti rotte aeree all’interno di una circonferenza ben definita, sotto la quale si estende un rozzo cerchio di guano. Il tutto immerso in un labirinto di luci pseudonatalizie e vecchi diorami protetti da vetri colorati. Allargando lo sguardo, questo avviene nel centro geometrico di una metropoli di ventisei milioni di abitanti.
New Giza è uno dei nuovi progetti architettonici che dovrebbero dare respiro alla magnifica bolgia cairota. Uscendo dalla città via freeway, si supera un’area agricola con prefabbricati nudi sparpagliati nel paesaggio come mattoncini Lego senza senso – e si approda nel deserto. O meglio, nel deserto edificato. Si sale, senza accorgersene, arrivando a un plateau di villette ammucchiate e recintate, con rigidi controlli all’ingresso. Ai parchi pubblici (a pagamento) si sostituiscono del tutto i club privati all’aperto, presenti anche in città e organizzati in base alle varie fasce sociali. Le strade s’allargano, si svuotano, c’è chi guida controsenso tanto per, la prossemica umana si slabbra d’improvviso. L’unico reminder del Cairo vero, popolare, quello cantato da Mafhuz, sono i microbus che portano avanti e indietro i domestici. New Giza ha due università e un liceo giustamente intitolato ad Albert Camus, ma il livello d’assurdità aumenta allontanandosi di poche centinaia di metri, quando i cantieri iniziano a confondersi col paesaggio naturale. Qui l’orizzonte di senso diventa quello di Frank Herbert, l’orientamento si sfalda, interviene un senso di stupore e nausea. Non è caldo: è altro. Ho ingollato le mie due pasticche per il mal di testa e mi sono ripreso del tutto sono al ritorno in città.
I cieli del Cairo, coi tramonti rosati o l’ovattamento straniante dovuto allo smog. Il caos dei marciapiedi, da non confondere con la povertà. La sarabanda delle botteghe e dei sciuscià. La proliferazione urbanistica senza piani, inarrestabile. La stazione centrale, che malgrado il radicale ammodernamento continua ad agganciarsi allo straordinario film di e con Chahine del 1958. Potrei ciarlare oltre, ma mi fermo come dovrei fermarmi davanti a una parola che non riconosco, incerto sulle vocali brevi da inserire. Unire i puntini a tutti i costi, a casaccio, è controproducente. Solo il Corano riporta tutti i segni diacritici che aiutano la pronuncia. Il sukūn è un pallino che gravita su una lettera e ci dice una cosa bellissima: che va pronunciata così com’è, senza vocali. Il sukūn è il nulla.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.