buona fortuna.

[vignetta di Sergio Ponchione dal n. 6, A passeggio per Roma, 2017]

Rututùnf. Come un capitombolo tra i cespugli nella notte romana, il Mercurio Loi di Alessandro Bilotta è arrivato in edicola generando un soffice spaesamento. Non è durato molto. Devo ammettere che all’epoca, tra il 2017 e il 2019, ero troppo preso dal rilancio di Dylan Dog per farci davvero caso. Ne lessi qualche albo a casaccio, per poi recuperarli tutti dopo la chiusura della testata. Il pilot, ormai irreperebile salvo ricorrere all’edizione di pregio, l’ho letto un pomeriggio tardi alla Sala Borsa Ragazzi. Ora che ho una visione d’insieme scrivo queste righe, dolorosamente convinto che un sogno così non ritorni mai più.

Il 28 de Le Storie, uscito nel gennaio del 2015, è l’unico numero della collana ad aver esaurito la tiratura. Ideata da Mauro Marcheselli come un contenitore di graphic novel autonome e potenziali “numeri zero”, Le Storie ha realizzato la propria missione grazie al successo immediato del personaggio di Mercurio Loi, per il quale si pensò a una collana apposita – o, secondo i criteri televisivi ormai dominanti, una miniserie rinnovabile. Tra la Bonelli di quegli anni e quella attuale, schiacciata sul western e di fatto ferma agli anni Ottanta, c’è un discreto abisso sicuramente motivato dalle vendite. Le Storie escono ancora, ma ripropongono albi d’antan. Dylan Dog doveva mettere le ali col reboot recchioniano e si ritrova sdoppiato e smarrito, con un cinquanta percento delle uscite dato dall’OldBoy, la versione sclaviana classica e immutabile. Pure un grandissimo come Carlo Ambrosini s’è messo a lavorare su quello che anni fa era il Maxi, vagamente punitivo, il ghetto estivo di Montanari & Grassani. Malgrado un apprezzabile ricambio generazionale e il costante lavoro di scouting, il “nuovo” Dylan Dog con le carte rimescolate fatica ad attecchire. L’hanno ammazzato strategie di marketing vuote di contenuto e l’eventite che c’infetta tutti, questa tendenza decerebrata al colpo di scena a tutti i costi. La realtà è che la rivoluzione dylandoghiana è stata un carota penzoloni per troppo tempo, compiuta a metà (disegni, copertine, ristrutturazione delle collane: chapeau) e deludente nella sua restaurazione di fatto, a partire dal 407. Si salva, guarda caso, la saga ormai ultradecennale del Pianeta dei morti, ogni anno sullo speciale, firmata Bilotta. Ed è l’idea di fumetto popolare di Bilotta, per quanto sicuramente incapace d’incassi importanti, a fare di Mercurio Loi un esempio brillante, e brillantemente concluso.

La serie regolare è uscita tra la primavera 2017 e la primavera 2019. Copertine di Manuele Fior, colori – chiccheria ancora rara in casa Bonelli – a cura di Francesca Piscitelli, Nicola Righi, Erika Bendazzoli, Andrea Meloni, Stefano Simeone. L’editoriale, scritto da Bilotta, s’intitolava “Guida per camminatori senza meta” e si concludeva sempre con “Buona fortuna”. Non entro granché nella trama, che va goduta tramite lettura cartacea in puro stile Bonelli. Basti dire che Mercurio è un intellettuale benestante nella Roma del primo Ottocento. Ha una bella casa con maggiordomo, biblioteca e palestra sotterranea. Gli piace andare a zonzo, sia di giorno sia di notte (nottetempo, anche sui tetti). Appresso ha di solito il giovane Ottone, suo studente e apprendista. A detta di Agata, moglie di Leone il maggiordomo (ex ladruncolo), Mercurio è una “scimmia col mantello” (n. 3, Il piccolo palcoscenico, dis. Onofrio Catacchio, p. 98). E infatti le orecchie importanti e i lineamenti da grande primate cozzano col suo intellettualismo esibito. Da bravo personaggio bonelliano, Mercurio ha un’arma speciale, chiamiamolo il suo murchadna: un bastone da passeggio col pomello dorato a forma di testa di lupa. È un’arma perché il pomello può saltare per aria colpendo il malintenzionato di turno, come succede nel n. 1 (Roma dei pazzi, dis. Marco Mosca) ai danni dell’arcinemico nonché ex adepto Tarcisio Spada. Come per il murchadna, o la famosa custodia esplosiva del clarinetto di Dylan, il trucco non si ripete quasi più, perché non conta. Cosa conta?

Contano le onomatopee, meglio se italianizzate. Le pistole fanno pamm. Conta la sintassi narrativa, con la tavola numero uno dei primi numeri che è spesso una texture, o uno zoom arretrante. Un’introduzione in un piccolo mondo antico e misterioso, fatto di piccioli misteri che il nostro Sherlock, vanesio ma metodico, ricostruirà. Conta lo stupore. Come la splash page che apre il n. 7, La testa di Pasquino (con i disegni strepitosi di Massimiliano Bergamo), quasi un quadro, il fermo immagine di una fucilazione con in primo piano il professor Camillo Scaccia, mentore di Mercurio, che dice: “Lo so, ti stai chiedendo… cos’è la poesia?”. Lo stupore del n. 8 (dis. Matteo Mosca), percorso dalla voce del colore giallo, ultraterreno e non certo vaticano visti i dialoghi al vetriolo tra Mercurio e il vescovo Longhi nel corso dell’episodio. Contano le piccole cose. Rispetto al pilota (in bianco e nero), grossomodo convenzionale nel suo intento di far spiccare il personaggio e un’impalcatura di massima, la serie imbocca strade secondarie, a volte vicoli ciechi o sentieri nella nebbia, che nulla hanno a che spartire col solido manicheismo texiano o con le trovate strombazzate del Dylan Dog post-Gualdoni.

Qualche esempio. Il muto colonnello Belforte parla per lavagnette e irrita Mercurio, che vorrebbe tanto sapere cosa pensa. Nel n. 1, a p. 13, scopriamo cosa pensa. Le nuvole di tre vignette consecutive contengono gatti disegnati: un tigrato, un siamese e uno spelacchiato. Belforte non si dà pace, perché non ricorda più le fattezze di un micio che vedeva sempre su un ponte. Oppure Giampiero Casertano ai disegni del n. 2, La legge del contrappasso, libero di illustrare il carnevale romano come gli era capitato a inizio carriera con la festa in maschera di Attraverso lo specchio (dyd n. 10). Le vignette “gustative” che innervano tutto il n. 4 (Il cuoco mascherato, dis. Sergio Gerasi), facendo vedere cosa pensa la persona che sta assaggiando un certo piatto, o quelle che nel n. 6 completano, tratteggiando, le posture dei passanti, mettendo in risalto che cosa ricordano (un facchino, una lavandaia, un barcaiolo?). Nel n. 10 (L’uomo orizzontale, dis. Francesco Cattani) ci sono tavole “verticali” che ti costringono a girare il fumetto, con un Mercurio che non vuole lasciare ideologicamente il divano mentre fuori imperversa una strana setta di immobilisti rivoluzionari. Il n. 12, Una settimana come tante (dis. Catacchio e Ponchione), è strutturato come un gioco buñueliano di ripetizioni ossessive e piccole variazioni. Le tavole hanno la griglia fissa, come nella parte disegnata da Montanari & Grassani in Graphic Horror Novel (dyd 369, testi di Ratigher). Nel programmatico Tempo di notte (n. 13, dis. Sergio Ponchione) Mercurio arriva stabilmente solo a p. 70, e il gessetto di Belforte scribacchia “frc, frc, frc”.

I numeri più riusciti sono forse quelli tra il 5 e il 7. L’infelice (dis. Andrea Borgioli) gioca con l’idea di un Mercurio Loi Batman al contrario, col villain eponimo dell’episodio marchiato da cicatrici che gli vanno dagli angoli della bocca al mento. Invenzione pazzesca quella dell’Infelice, anche se il suo modus operandi può ricordare quello del John Ghost recchioniano. A p. 85, mentre i suoi sgherri menano Ottone (tum! pa! pa!), l’Infelice esclama a occhi sgranati e tristanzuoli: “Tumpappà!”. Il n. 6, A passeggio per Roma, è un gioiello di sceneggiatura. Bilotta sceglie la forma-librogame e la porta alle estreme conseguenze consegnandoci un albo squisito, allucinato – arriva l’Ipnotista! – e leggibile ad infinitum. Chicca onomatopeica sulla prima tavola: sfo sfo sfo per indicare le pagine sfogliate. Il 7, cui ho già accennato prima, alterna una trama una volta tanto in grande stile con momenti di inabissamento nell’inconscio.

A rendere prezioso Mercurio Loi è l’ironia nei confronti di certi tropi fumettistici. Chiunque altro avrebbe trasformato la serie in una specie di teatrino avventuroso su sfondi anticati, Bilotta invece fa sul serio con la flânerie filosofica, e introduce eventuali antagonisti solo per deriderli: gli Uomini Lupo del pilot, gli Uomini di Fuoco del n. 3, la banda dei fiori citata nel n. 2, l’esilarante Karl il favolista del n. 11 (Il circolo degli intelligentissimi, dis. Gerasi) coi suoi scagnozzi armati di “penne avvelenate”, in realtà innocue: i recensori! Albo peraltro splendido per come mette in luce i limiti di Mercurio, alle prese con un circolo simil-Mensa che non lo vuole tra i propri membri, e s’ingegna per umiliarlo. Tropi, e ragni. Sì, Mercurio ha anche un classico punto debole: è aracnofobo. Ma in una serie che snocciola animali, colori e oggetti parlanti (con un surrealismo forse debitore di Napoleone), i ragni non diventano mai quelli che sono i pipistrelli dell’alcol per Dylan. Anzi, nel n. 15 (Ciao core, dis. Borgioli), Enrica ne regala uno bello grosso allo pseudofidanzato Mercurio per provocarlo, e lui finisce per tenerselo in casa. Il quindicesimo albo contiene anche le uniche tre tavole della serie in bianco e nero, per l’esattezza due e mezzo. Una sequenza agghiacciante degna di Frank Miller.

La testata chiude col n. 16, La morte di Mercurio Loi (dis. Mosca), episodio labirintico che va letto conoscendo bene la trama fino a quel punto. Qui non vale la pena aggiungere nulla rispetto all’ottima analisi di Francesco Pelosi, se non che, pure al momento di interrompere l’avventura, Bilotta ha saputo mantenere il pieno controllo della propria creazione, cosa che ad esempio è mancata a Berardi, anni orsono, con la serie classica di Ken Parker rimasta in sospeso. Il numero sedici ricorda l’enigmatica perentorietà del ventinovesimo episodio di Twin Peaks, l’ultimo della seconda stagione. Legittimo immaginarsi che ricominci un ciclo, sempre a passeggio per Roma.

Chiudo tornando all’arco narrativo di Belforte, tra i più riusciti. Nel n. 13, a p. 79, l’uomo scova uno scoiattolo – e pensa l’immagine di uno scoiattolo, poi gli succede qualcosa. Il n. 14 (Nascondino, dis. Bergamo) si apre con un flashback inquietante che lo vede protagonista, riallacciandosi agli eventi del n. 2. Nel n. 12, su una lavagnetta, il colonnello aveva scritto cosa gli piace: pensare. Questi, allora, i suoi ultimi pensieri, sul finire di Tempo di notte: “Se mangio la verdura non ho più paura / di partire all’avventura, non ho più paura / se la notte è scura, non ho più paura”.

Una pessima annata (pure per Dylan Dog)

Sono uno di quelli che hanno ripreso a leggere Dylan Dog nel 2013. Uno iato di quasi vent’anni, col primo cedimento al giro di boa del numero 100. Ricordo ancora quanti mollarono la testata, un po’ per saturazione dopo la sbornia iniziale, un po’ perché sembrava che fosse Sclavi a volerlo, scrivendo un “albo definitivo” da lasciare sempre in fondo allo scaffale. Questo pur continuando a regalarci alcuni titoli notevolissimi prima del “Progetto” (n. 176), che segna per certi versi il punto di non ritorno sclaviano, nella sua ossessione ufologica che vale anche come un tentativo di eliminare Dylan una volta per tutte. Vedi anche il finale aperto, ovviamente “poetico” di “Ascensore per l’inferno” (n. 250), ultimo contributo del Tiz per il ventennale. Sia ben chiaro, Tiziano Sclavi è a mio avviso uno dei migliori scrittori italiani viventi, e la sua forza è data proprio dalla fragilità che trasmette sia ai personaggi, sia alla struttura organica, caduca delle sue storie e delle sue trame. Imperfezione, ma anche depressione profonda e una luce in fondo al tunnel tenue e incerta. Lo si vede a meraviglia in quello che è forse il suo capolavoro recente, “Dopo un lungo silenzio” (n. 362), che riprende “Il fantasma di Anna Never” inteso come manifestazione dylandoghiana dell’alcolismo e riesce a far piangere più volte nel giro di un centinaio di tavole. Senza bisogno di grandi effetti speciali. Duole constatare invece come “I racconti di domani” siano un tentativo inutile, reso persino antipatico dal marketing bonelliano (cartonati di 64 p. a quasi venti euro, zero distribuzione in edicola).

Ma nel 2013 ho ricominciato a comprarlo, DYD, recuperando addirittura in negozietti di seconda mano il meglio della produzione persa per strada. Le storie di Medda, qualche Barbato, tutto Recchioni. Perché era stato “Il giudizio del corvo” (n. 311) a fulminarmi e a motivare l’attesa per la nuova gestione, divisiva sì, boriosa senza dubbio, comunicativamente esagerata – il contrario di Tiz – ma almeno foriera di un cambio di rotta. Le storie isolate di Recchioni raggiungono livelli altissimi. A cominciare da “Spazio profondo”, graphic novel apripista, passando per “Il cuore degli uomini” (n. 342), fino ai suoi due albi (nn. 387, 399) del ciclo della meteora. Non entro nei dettagli della presunta rivoluzione recchioniana. Mi limito solo a sottolineare l’importanza, per la credibilità stessa del personaggio, di quanto compiuto col n. 342. Il vero, urgente ammodernamento di Dylan Dog è infatti la cancellazione di uno degli aspetti più antipatici del personaggio sclaviano anno 1986, cioè il suo lato maschilista per giunta giustificato dall’idea che lui, l’eroe romantico, tutte le volte s’innamori e tutte le volte venga mollato. Col “Cuore degli uomini” scopriamo le cose come stanno, cioè che anche a Dylan piacciono le botte e via, e che proprio quelle, da trent’anni, gli riescono a cadenza quasi mensile. Detto ciò, gli albi più belli della cosiddetta fase due portano le firme di Alessandro Bilotta, Ratigher e Fabrizio Accatino. E Bilotta, mediante gli speciali, è di fatto l’unico a portare avanti l’idea migliore, ma anche più difficile da realizzare, della gestione Recchioni, cioè una visione autoriale del personaggio secondo cui gli “universi paralleli” non sono definiti dal pensionamento o meno di Bloch, bensì dalla penna di chi scrive e dalla versione di Dylan Dog che l’autrice, o l’autore, riesce a tessere. Bilotta unica eccezione in questo senso insieme ad Ambrosini, e non è un caso che l’ultimo speciale (“La grande consolazione”), che li vede insieme e trasforma “Attraverso lo specchio” in un’opera aperta, sia straordinario.

Recchioni, e lo dico laicamente da lettore estraneo al tifo da stadio dell’ambiente fumettistico, è andato a sbattere contro il muro della sua promessa più grande: un ciclo “fine di mondo” e il “nuovo inizio” che coincide col gennaio 2020. Innanzitutto il ciclo della meteora, rimandato troppo e scritto a comando da una Paola Barbato (& co.) cui è stato solo concesso il contentino, in “Chi muore si rivede” (n. 398), di tirare le fila di alcuni suoi personaggi sparpagliati nell’arco di centocinquanta numeri e passa. Mossa di continuity così raffinata da risultare incomprensibile, anzi un boomerang che mette in evidenza da quanto tempo Barbato è considerata la nuova promessa di DYD, e quanto poco in realtà abbia fatto per sviluppare il personaggio. Pur rimanendo una sceneggiatrice di grande mestiere. E il mestiere, nel ciclo della meteora, si vede tutto, dimostrando come la gabbia bonelliana – 94 tavole al mese: un’enormità – possa ancora riservare sorprese e progetti ambiziosi. Oltre ai “migliori disegnatori italiani”, come recitava la pubblicità di Dylan Dog già nel 1986.

Dal n. 399, “Oggi sposi”, fino al n. 406 (“L’ultima risata”), Recchioni ha avuto otto mesi di tempo per dimostrare che la rivoluzione annunciata non era un bluff. Passi la boutade del matrimonio con Groucho, che da marito di un uomo vedo come una provocazione tesa a riempire un cratere all’interno del mondo bonelliano. Passi anche un finale copiato pari pari da Lars von Trier – ma anche il Tiz copiava, citando Umberto Eco nel farlo. E chapeau al bel numero 400 che, sulla scia di Apocalypse Now, taglia la testa a Kurtz/Sclavi. Il problema è che il “nuovo inizio” non è nuovo, e questo toglie qualsiasi credibilità anche al pathos di plastica del ciclo della meteora. Il nuovo inizio secondo Roberto Recchioni è in realtà un rimescolamento di carte.

Il “rilancio” di Dylan altro non è che una restaurazione ordinata. Recchioni prende vari elementi sclaviani, li depura da qualsiasi aspetto provvisorio o casuale e li integra con i propri contributi al “canone”. Fin dai tempi di John Doe “rrobe” ha dimostrato di essere un maestro nel pescare dalla scatola degli attrezzi dell’arte fumettistica, usando ogni figura retorica disponibile. Si pensi, di nuovo nel contesto dylandoghiano, al geniale retcon del clarinetto nella sua riscrittura dell’Alba dei morti viventi, che rimedia a una falla di sceneggiatura. Del resto, rileggendoli oggi i primi numeri di Dylan Dog sono pieni di incongruenze, in particolare quando emerge il tema del padre del protagonista. Con Recchioni al timone questo non succede. Peccato tuttavia che a volte la struttura disegnata a tavolino spicchi più della storia in sé. L’esatto contrario degli inciampi umani, troppo umani di Tiziano Sclavi.

Il mio giudizio di lettore è ovviamente influenzato da preferenze personali. L’idea di togliere di mezzo Groucho mi è piaciuta subito e ho ingenuamente creduto che il suo – persino doppio! – ammazzamento fosse definitivo. Così come la mia predilezione per Gnaghi, personaggio che non può reggere una serialità lunga, si è scottata nel numero 406. Ma il vero problema non è la spalla di Dylan, bensì il format stesso della testata. Dal numero 401 al 406 abbiamo assistito a una metamorfosi: da un Dylan effettivamente diverso, alcolizzato e barbuto (anche in senso metaforico), alla solita sbobba – ma con tutti i personaggini al loro posto. Ecco allora Bloch “papà” e soprintendente illuminato, Rania ex moglie (per evitare la sindrome di Martin Mystère), Mater Morbi che collima con Anna Never, Lord Wells fatto fuori in due tavole (Sclavi l’ha sempre detestato). Persino il mostro del dottor Hicks, dimenticato da Tiz e Mignacco alla fine del n. 14, beneficia di un repentino comeback al solo scopo di… vomitare Mana Cerace e schiattare. Tutto a posto e niente in ordine.

Tutto a posto, se mai ce ne fosse bisogno, ma a condizione che questa sia davvero la nuova strada intrapresa dalla testata. Sono sicuro che Recchioni tiene nascosto nella manica un buon asso per spiegare, prima o poi, cosa è davvero successo alla fine del n. 399, ma la verità è che nel corso di quest’anno la Bonelli ha fatto una scelta editoriale più eloquente di cento albi rivoluzionari non cantati da nessuno. Ha trasformato in bimestrale l’OldBoy, cioè la collana-scialuppa in cui la rivoluzione non è avvenuta e tutto si trascina come ai tempi della direzione di Marcheselli o Gualdoni. Questo vuol dire che invece di tre storie ogni quattro mesi, ne escono due ogni due, quindi dodici l’anno. Esattamente come la serie regolare. Quindi, mentre l’OldBoy riscalda la minestra – che evidentemente continua a piacere molto – la serie ammiraglia, invece di osare, propone un puzzle di elementi già noti. Che cambiano posizione quel minimo da far dire “così ha più senso”, ma non modificano l’immagine finale, quella della copertina del n. 407, ed è un’immagine di restaurazione totale. Si potrebbe obiettare che gli universi sono diversi e paralleli – un gioco che da sempre piace a Sclavi, per quanto pigro e dal fiato corto – però nei fatti abbiamo una testata che continua a produrre molto, forse troppo, “more of the same”. Probabile che questa situazione non si sarebbe determinata se la rivoluzione tanto attesa fosse stata tale e soprattutto premiata dalle vendite, che non si conoscono a parte l’exploit certificato dell’albo scritto da Argento e Piani.

Una pessima annata, quindi. Ora che Recchioni ha sparato le sue migliori cartucce e perfino il ritorno di Chiaverotti viene spacciato per un evento – lui, che a suo tempo Dylan Dog l’ha imbarbarito scrivendo a raffica per dare una mano a Sclavi – abbiamo un’impalcatura formalmente nuova a cui sono appese le facce di sempre. Un “nuovo Recchioni” all’orizzonte non si vede, e quel che è peggio si sta procedendo a pubblicare rimasugli di magazzino. Lo stesso Bilotta, interpellato su fb, non sapeva dell’imminente pubblicazione di “Una pessima annata”, in tutta evidenza scritto anni fa e aggiustato di recente per inserirsi nel nuovo corso. Ovvio, in ballo ci sono logiche industriali oltre che artistiche. Uscire tutti i mesi non lascia margine per rivoluzioni portentose, soprattutto col calo fisiologico dei lettori, ma annunciare grandi cambiamenti per poi limitarsi a qualche retcon e ad altri interventi cosmetici ha tutta l’aria di una presa in giro – per il lettore conservatore così come per quello avventurista e famelico di novità, svolte, cuori buttati oltre l’ostacolo. Dopo Il giorno della famiglia, Il giorno della marmotta.