
Con la cosiddetta trilogia del ritorno (albi 435-437), Dylan Dog si è mozzato un braccio di cento numeri. Anzi, di più: quasi dieci anni di serie regolare, a partire dal numero 325 del 2013 programmaticamente intitolato Una nuova vita. La storia la conosciamo, e il suo andamento zigzagante e un po’ ingannevole mi diede lo spunto, quasi tre anni fa, per cacciare la pelle nella tastiera e rianimare questo blog. Riparto da quelle considerazioni.
Una cosa la dico subito: malgrado tutte le riserve del caso, considero la gestione Recchioni molto valida, e trovo assurdo che la Sergio Bonelli abbia deciso di silurare in questo modo una delle sue collane più importanti. Ci sono, va da sé, delle motivazioni di mercato. Le edicole chiudono e il covid, complice Internet, ha assestato un colpo mortale al reparto dei fumetti classici, seriali, bonelliani. Ricordo ancora, tre anni fa esatti, quando tornai a Bologna ai primi di marzo e andai in bici fino all’edicola Carella sui viali per acquistare Il tramonto rosso, DYD 402, secondo capitolo del discontinuo reboot recchioniano. Strade deserte, un senso di proibito che non avvertivo da decenni collegato all’edicola, e il sospetto che tutta quella storia sarebbe finita male. I sei numeri del rilancio-non-rilancio, usciti nella prima metà del 2020, non li ha letti nessuno. E le vendite, si sa, erano in calo da tempo. Ma già prima di decidere il retrofront radicale, col 407 divenne chiarissimo quanto fragile fosse quella rivoluzione di carta. Col ritorno di Groucho e la scomparsa della barba (per tacer di Gnaghi), il “nuovo” Dylan Dog era pressoché indistinguibile da quello classico. Tant’è che, sono pronto a scommetterci cifre importanti, negli ultimi anni l’OldBoy è andato meglio quanto a fatturato. Infatti il suo curatore non è più Recchioni ma Busatta, la frequenza e il numero di storie sono aumentate, e all’idea ultranostalgica – oltre che cretinetta – di ancorarsi a un eterno 1986 si è accompagnato un tono scanzonato, efficace, reso a meraviglia dalle copertine a cui lavorano Montanari & Bacilieri. Un ossimoro geniale che già Ratigher, con Graphic Horror Novel (DYD 369), aveva intuito alla grande.
Alla “trilogia del ritorno” sarebbero bastati due albi, il 436 e il 437 (Non con fragore… / … ma con un lamento), sceneggiati da Barbara Baraldi per i disegni di Gerasi. Evidentemente, Recchioni ha cercato di non farsi esautorare in toto, inserendo in corsa una sorta di introduzione allo smontaggio senz’appello del suo lavoro decennale. Due minuti a mezzanotte (435) sembra frettoloso a partire dai disegni dell’ottimo Pontrelli, che qui risultano scarabocchiati in preda a una scadenza imminente (si prenda L’uccisore, DYD 405, come pietra di paragone). Per capire l’umore col quale Recchioni ha dovuto affrontare questa nuova fase, basta guardare il video allucinante del keynote dylandoghiano a Lucca 2022. Una umiliazione, la sua, tanto patente quanto fuori luogo. Malgrado ritenga che la rivoluzione 2013-2020 sia stata fatta a metà, forse per pressioni da parte della casa editrice, e che gli ultimi anni abbiano sparpagliato troppe variant, troppi gadget ed effetti speciali, troppi classici subito cartonati ancor prima che fossero i lettori a decretarli tali, non ho dubbi sul fatto che molti “numeri 300” abbiano segnato un ritorno alla forma, e alla leggibilità, di cui si sentiva il bisogno dalla celebre boa del numero 100. A quanto pare, tuttavia, Sclavi si è stufato dell’andazzo e tramite un suo conoscente, Claudio Lanzoni, ha licenziato un soggetto teso a far tabula rasa, ritornando ai bei tempi andati. Bei tempi? Non dimentichiamoci che fino al numero 324, al posto del lei, la formula di cortesia era ancora il voi.
Recchioni non ha solo ristrutturato tutto l’ambaradan di testate afferenti a Dylan Dog, facendo ad esempio collimare lo speciale con la saga del Pianeta dei morti a marchio Bilotta, ma ha oggettivamente svecchiato il personaggio. Nella tecnologia come nella psicologia. Certo, ogni tanto s’è fatto prendere la mano dal marketing puro, e soprattutto si è dimenticato di scrivere. La gestione Recchioni sembra dettata da dei post-it buttati lì nella speranza che gli sceneggiatori cogliessero lo spirito del Nuovo e ci mettessero del loro. L’unico a farlo davvero è stato forse Gigi Simeoni, con storie (spesso realizzate in toto, testo e disegni) pregevolissime e mitopoietiche, come dimostra il dittico “degli umarells” post-numero 407, Scrutando nell’abisso (408) e Gli infernauti (434). Dopo il reboot in sei numeri (401-406) e soprattutto dopo la fantasia coppoliana del 400, in cui Dylan-Willard stacca la testa col machete a Sclavi-Kurtz, la vendetta è arrivata. Nella forma di un enorme retcon, come quello che un Recchioni spensierato aveva inflitto qualche anno fa all’Alba dei morti viventi per “salvare” razionalmente la custodia esplosiva del clarinetto.
E di retcon perisce, Recchioni, in questa crudelissima trilogia del ritorno. Un retcon che assume la forma di Jesper Kaplan, detto Faccia d’0ssa, un villain tradizionale e brutale che pare uscito da uno slasher anni Ottanta. Kaplan come l’identità equivoca del protagonista di Intrigo internazionale. Jesper che ricorda un jester perché “si scherza”, ma mica tanto. Ebbene, questo retcon in forma di serial killer inarrestabile ha la faccia scarnificata come se avesse attraversato lo spazio profondo – riferimento evidente al numero fondativo della rivoluzione, il 337 – quindi è, in un certo senso, il Dylan Dog moltiplicato a iosa, pluridimensionale e cubista degli ultimi anni. È questa figura [spoiler di quattro righe] a far fuori i tre personaggi-grimaldello della svolta recchioniana, John Ghost, Rania Karim e Tyron Carpenter, uno per albo, finendo però impallinata dal vecchio Dylan. In un’altra sequenza, una delle creature d’ombra che s’impadroniscono del mondo a due minuti da mezzanotte accompagna la regressione nel sonno del soprintendente Bloch a ispettore, immaginiamo ancora a un passo da una pensione irraggiungibile. Long story short: tutta la continuity post-numero 337 viene accantonata. Il “caos” sfoggiato con orgoglio nei titoli degli albi 339 e 387 (A servizio del caos, Che regni il caos!) fa una brutta fine. Si torna all’universo sgangherato e sgangherabile, groviera e passé, assemblato involontariamente da Sclavi più di trent’anni fa. Quindi: restiamo (forse) nella contemporaneità, il parco personaggi è quello classico (con Xabaras stecchito da Barbato nel DYD 242, mentre lord Wells è vivo e vegeto), niente meteora e soprattutto niente reboot, cioè il “rimescolamento di carte” a firma Recchioni, idea bellissima ancorché svogliata. Di recchioniano resta solo la vaghezza, lo scansar spiegoni che non impegna. Così come qualche anno fa nessuno ha spiegato come mai la meteora non abbia contagiato il mondo di Martin Mystère, che pur è lo stesso di Dylan, nessuno ha spiegato cosa è davvero successo alla fine del DYD 399 e via dicendo. Universi inscatolonati e accantonati insieme all’arca dell’alleanza. Chissà, forse un giorno sapremo la storia del brevissimo matrimonio di Dylan con Rania, finito causa tradimento con una terrorista dell’IRA che conosciamo bene. Il peccato di Recchioni è stato quello di scaraventare troppe idee contro il muro credendo che ci restassero appiccicate.
Ma sedicenti eventi e saghe a parte, gli ultimi cento numeri hanno davvero salvato Dylan Dog. L’hanno fatto recuperando Carlo Ambrosini, pur nel suo lento declino come autore a tuttotondo; l’hanno fatto dando carta bianca ad Alessandro Bilotta, Fabrizio Accatino, Ratigher, Fabio Celoni, Luca Vanzella, Giovanni Eccher (che ha reso interessante Carpenter staccandogli un braccio, anche se è durato poco); l’hanno fatto con due annate, il 2019 e il 2021, scritte in maggioranza da donne (Barbato, Baraldi, Contu, Porretto & Mericone). Prima del 325, al massimo si era alzato l’onorario di Dylan inseguendo l’inflazione; Ruju – che insieme a Chiaverotti ha affossato il livello della testata a colpi di riempitivi – aveva tentato un guizzo iniettando sangue di vampira nel corpo dell’indagatore dell’incubo; Medda aveva azzardato un aggiornamento tecnologico inventandosi un personaggino che faceva le ricerche su Internet per conto del protagonista; Gualdoni, curatore per poco, si era barcamenato nel quadro di una tradizione marmorea, che costringeva gli sceneggiatori a orbitare intorno al fragile pianeta sclaviano senza lasciar tracce. Recchioni ha avuto il coraggio di ammazzare il padre e indicare una via, ma chi di retcon ferisce…
La trilogia del ritorno è un calice amaro anche per noi lettori. Si può sorvolare sull’orrido effetto “glitch” che dovrebbe segnalare l’interferenza tra le varie dimensioni, ma non sull’assurdo “sceicco con consorte” che appare ai funerali di Rania, piazzato lì per ricordarci che l’ispettrice era musulmana. Nel complesso, la sceneggiatura fa capire benissimo il nuovo status quo, non lontano dalla doccia di Bobby Ewing in Dallas, ma il primo segmento in cui Recchioni cerca disperatamente di attestarsi parte dell’autorialità riallacciandosi al 400 e al proprio idiosincratico universo s’incastra male con i due albi di Baraldi, più incisivi – soprattutto il secondo: cappello – che pongono l’accento su temi più cari all’autrice, come la paralisi del sonno e più in generale un orrore atavico e infantile. La morte di Rania mi ha tolto il fiato come quella di Gnaghi. E mi ha irritato nella sua evidente strumentalità. Unico lacerto recchioniano ancora in circolazione, davvero una stramberia: la regina Elisabetta in versione mostro (speriamo ancora con fior di tentacoli sotto il sottanone). She lives.
Quindi, come direbbe Tiziano, Non è successo niente? È successo qualcosa di tristissimo. La Sergio Bonelli ha fatto una scelta industriale chiara, forse priva di alternative, in un panorama di edicole morenti e lettori abitudinari – oltre che senza memoria. Negli ultimi anni sta puntando tutto su Tex, su impalcature immarcescibili e intoccabili. Probabile che anche Dylan Dog veleggi verso una nuova ristrutturazione per difetto, che riduca le uscite all’essenziale e non rischi nulla. Probabile quindi che l’OlbBoy, ex Maxi-spazzatura, si pappi la serie ammiraglia ormai massacrata dall’andirivieni delle rivoluzioni farlocche. Si va verso una serialità immobile e senza fantasia, che poi è la solidità di Tex. Pensiamoci un attimo. Sclavi ha scritto Zagor, Mister No (pure un Mister No western), Kerry il trapper, Ken Parker e altre testate classiche della Daim Press / Cepim. Si è pure sforzato di scrivere un albo di Dylan, Nel mistero (n. 375), in cui Rania e Tyron compaiono a comando, attaccati con lo scotch. Ora, con la trilogia del ritorno, si aprono praterie conservatrici. Ma Tiziano Sclavi non ha mai scritto Tex. Tiziano, se ci sei, batti un colpo vero.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.