orecchie d’asino

Ręce do góry, 1967/1981.

Scartata l’idea ombelicale di scrivere una recensione del nuovo Crimes of the Future intitolata “la società senza dolore”, magari usando come immagine l’uomo danzante e pluriorecchiuto, ho pensato bene di tornare in Polonia. Quella dell’esilio, della legge marziale, della realtà scartavetrata alla meno peggio che sa di calce. Quella dove pure gli orpelli hanno il peso della fatica. Jerzy Skolimowski.

L’innesco l’ha dato il trailer, pazzesco, di IO (da pronunciare come un raglio, perché quello è), il suo ultimo film passato a Cannes. Una sorta di commistione tra Au hazard Balthazar (1966) ed Essential Killing (2010). Inoltre, la notizia che sta per uscire The Palace di Roman Polański, Kammerspiel velenoso scritto insieme a Skolimowski esattamente come, sessant’anni fa, Nóż w wodzie (Il coltello nell’acqua). Solo che al posto della barca ora ci sono un Grand Hotel elvetico e, tra gli altri, John Cleese. È o non è l’anno del vecchio Jerzy?

Nato a Łódź nel 1938, quindi di cinque anni più giovane di Polański, Skolimowski ha un rapporto molto più intenso col Paese d’origine, lasciato tardi – nel 1967, dopo i problemi di censura con Ręce do góry – e al quale è tornato almeno tre volte: in spirito tra il 1981 e il 1982, per rielaborare il paso doble censura-legge marziale; nel 1991, per adattare (in inglese) il Ferdydurke di Gombrowicz; nel 2008, stavolta stabilmente, per ripartire alla grande dopo un lungo silenzio con Cztery noce z Anną. IO ha tutta l’aria di un cerchio chiuso.

Skolimowski nasce pugile negli anni Cinquanta della Repubblica popolare polacca. Il suo primo ruolo cinematografico, come attore sul ring, è in Niewinni czarodzieje (Ingenui perversi, 1960, di Wajda). Parallelamente inizia a girare piccoli corti sfacciati, come Erotyk (1961). Nel 1964, con la nouvelle vague in testa, parte in quarta dietro la macchina da presa con Rysopis (Segni particolari: nessuno), subito seguito da Walkower (1965, pron. valcòver). Il suo Antoine Doinel, o meglio il suo Michele Apicella, si chiama Andrzej Leszczyc ed è lui stesso a interpretarlo. Un giovanotto spiantato con alle spalle studi di ittiologia, un amore assoluto per gli animali e un presente incerto, vissuto in continuo movimento. Le sue prestazioni per strada sono più efficaci di quelle coi guantoni. In Rysopis salta al volo su un tram a pieno regime, in Walkower – una scena impressionante ancora oggi – salta giù da un treno in corsa, hitting the ground running. Scene spesso riportate da Fuori orario. Ah, This Sporting Life! Jerzy dev’essersi sentito come Richard Harris nel film di Lindsay Anderson (1960) tratto da David Storey.

Con Bariera (1966), le cose cambiano. Skolimowski chiude la sua nouvelle vague polacca in un teatro di posa, accentua il senso di messinscena e punta ancora di più al consenso internazionale. A motivarlo, come ammette nel film documentario di Damien Bertrand Contre la montre (2003), è una foto del 1964 in cui Godard gli stringe la mano dopo aver lodato il suo film di debutto in barba a un critico del NYT che lo aveva accusato di aver portato i dailies al festival. Bariera segna il momento in cui Skolimowski si toglie dalla strada e alza l’asticella, iniziando timidamente a fare critica sociale. Il suo alter ego Leszczyc non c’è (o almeno, compare solo in un cartellone per la donazione di sangue), ma nonostante gli sforzi radicali in stile cinéma d’auteur, la scena più folgorante (anch’essa rimasticatissima nelle vecchie notti di Raitre) è quella del protagonista senza nome (Jan Nowicki), con un sacchetto di carta disegnato in testa e una spada di cartone, che si lancia giù per uno scivolo lunghissimo a cavalcioni di una valigetta, finendo per rotolare a lungo tra i detriti.

Come volendo negare uno dei propri talenti, Skolimowski cerca di arginare sempre più la fisicità da jackass. In Ręce do góry (Mani in alto), l’intellettualismo aumenta insieme alla claustrofobia. I quattro protagonisti, letteralmente ingessati, non escono quasi mai da un teatro di posa cosparso di candele, che si rivelerà un treno per le deportazioni. Non hanno nomi se non marche d’automobili, e il tono scherzoso con cui si paragonano agli alias dei gruppi della resistenza martellò il primo chiodo nella bara del film, che a un certo punto sembra fare di tutto per venire bloccato. Un bravo comunista, si sente dire, è sempre pettinato, la tessera di partito serve a farsi la casetta e l’amante. Il quartetto prende pillole per divertirsi (antesignane delle droghe da party), paròdia un interrogatorio della polizia di regime e a un certo punto viene srotolato un megaposter di Stalin (vedi sopra) che si accompagna a chiacchiere disfattiste sugli ultimi anni. La lavorazione di Mani in alto si fermò quando il film aveva cinquanta minuti di materiale montabile – e, come al solito, la musica di Komeda.

Questo accadde nel 1967, quando Skolimowski aveva già realizzato in Belgio Le départ, vincendo la Berlinale appena un anno dopo il Cul de sac di Polański con questo film dichiaratamente godardiano (delle origini) in cui Jean-Pierre Léaud si stende sulle rotaie del tram e viene evitato per un soffio grazie a un cambio. Un film che si conclude, letteralmente, bruciando la celluloide. Solo nel 1981 il regista ebbe l’occasione di rimettere mano a Ręce do góry, e lo fece colorizzando le sequenze dell’originale (in verde, giallo, rosso monocromi) e girando venti minuti di nuovo materiale, forse il frammento sperimentale più riuscito nella carriera di Skolimowski. Si vedono rovine con in sottofondo Kosmogonia di Penderecki, combattenti a Beirut, il regista stesso in versione “profeta maledettista” su un vagone che avanza in uno scenario apocalittico. E Skolimowski, sempre lui, attore per il pane sul set di Die Fälschung (1981) di Volker Schlöndorff. Non è un caso che a una delle sue comparsate più memorabili, il ruolo di zio Stepan in Eastern Promises (2007), sia seguita la lavorazione di Cztery noce z Anną.

Molti dei film vagabondi di Skolimowski sono adattamenti. Nel succitato documentario-intervista di Bertrand, l’autore ne parla in termini dolenti: esperienze fallimentari nate cercando testi il più possibile lontani dalla propria sensibilità, mentre i due romanzi che avrebbe davvero voluto portare sullo schermo (Victory di Conrad, Under the Volcano di Lowry) gli sono stati soffiati da altri. In questo quadro, due eccezioni. La prima è sicuramente The Shout (1978), produzione britannica tratta dal racconto di Robert Graves, un film misterioso e viscerale. La seconda, da prendere con le pinze, è di nuovo Ferdydurke, o almeno il finale di Ferdyrdurke, in cui la marcetta spensierata composta da Stanislas Syrewicz va a sovrapporsi alle immagini dei bombardamenti della seconda guerra mondiale virate al rosso, e a cavalieri bardati in stile Ku Klux Klan su candidi destrieri. Una delle grandi zampate finali à la Skolimowski, tra l’altro da sempre ossessionato dai cavalli bianchi quali cattivi presagi.

Un discorso a parte merita Moonlighting (1982), capolavoro girato a Londra nel 1982 con Jeremy Irons a capo di tre operai polacchi spediti in Gran Bretagna per ristrutturare l’appartamento del datore di lavoro. Scritto sull’onda emotiva dell’introduzione della legge marziale nel dicembre del 1981, il film racconta il bizzarro esilio di un mese di questi alieni – nel senso extraterrestre del termine – serrati tra quattro mura a martellare e picconare mentre il loro Paese si chiude in sé stesso. L’unico a sapere cosa sta succedendo, sapendo l’inglese, è il loro leader Nowak (Irons stratosferico, anche se improbabile come parlante polacco) che taccheggiando e truffando per sopravvivere trasforma questo incubo di sfruttamento in un paradiso inconscio, lontano dal dramma della patria schiacciata dal generale Jaruzelski. Con tutto che lui, Nowak, quando vede per strada i poster di Solidarność li strappa. Zero orpelli, un polso narrativo degno di Ken Loach (ma senza ideologia), il commento musicale nervoso ed elettronico di Hans Zimmer e una scena che ricorda Videodrome prima di Videodrome. Moonlighting è il perno attorno al quale ruota il cosmo tutto tendini e sudore di Jerzy.

In Rysopis, Andrzej Leszczyc porta il proprio cagnolino dal veterinario. Si scopre che ha la rabbia (la stessa che campeggia, allarmante, sui poster di Heathrow in Moonlighting) e il dottore, senza discuterne, prapara l’iniezione e scaccia il proprietario in stato confusionale. Stacco. Andrzej cammina per strada e si ode un solo rumore, sempre più forte: l’attrito zigrinato della siringa letale in preparazione. In Ręce do góry si scopre che lo stesso Andrzej (sempre interpretato dal regista) è diventato veterinario, perché alla domanda su cosa faccia nella vita risponde: “Curo gli animali. Non sono sposato. È tutto”. In Contre la montre, dove peraltro emerge la balbuzie di Skolimowski, uno degli aneddoti più illuminanti riguarda le riprese di Torrents of Spring (1989), uno dei suoi fallimenti più netti. Sul set della pellicola in costume, Jerzy aveva tutti contro. Con un’eccezione. Un asino, il suo unico amico, come ogni tanto gli confidava accarezzandogli le lunghe orecchie. Balthazar, boa nel gorgo dell’umanità indifferente. In questo mondo di azzardi.