“love is a dog from hell”

Siamo stati a Lione, Francia, patria dei fratelli Lumière. Cosa che manco sapevo. E invece c’è un intero quartiere loro dedicato, con una Résidence frères Lumière che somiglia a una scatola di plastica bianca con tante finestrelle, oblò quadrati incorniciati da salvagente quadrati. Dentro ci abitano i più poveri tra i poveri, bandiere brasiliane appiccicate ai vetri. A un tiro di schioppo da lì, superata una batteria di forni che propongono praline (mandorle cotte nello zucchero e colorate di rosso artificiale, un po’ come il volto di Alexia qua sopra) incastonate in brioche, torte e altre pantagrueliche diavolerie, ecco, a un salto di gatto da lì c’è la Rue du premier film. Sede dell’Istituto Lumière, della villa liberty dei fratelli Lumière e della loro ex fabbrichetta di lastre fotografiche, i cui operai in libera uscita funsero da protagonisti corali per il primo tassello della storia del cinema. Lo scheletro dell’officina è ancora visitabile, e delle lastre trasparenti riproducono in loco, in 3D senza occhialini, quella inquadratura piena di gente che esce dal buio del posto di lavoro sciamando fuori campo a destra e a sinistra. Pure un cane. Lungo la stradella c’è il muro dei cineasti regolarmente arricchito da registi in visita (fun fact: Dario Argento e Claude Lelouch ricorrono due volte), ed entrando in un cortile si arriva alla libreria dell’istituto, zeppa di dvd, raggi blu, libri e riviste. Un tesoro che da giovane m’avrebbe divorato mezzo budget del viaggio. Ora, nell’era dell’accesso e non del possesso (cit. Han), quella cornucopia di titoli ben organizzati m’ha lasciato freddo, anzi, mi son chiesto ma perché non è una biblioteca. Tra le cose non prettamente filmiche ho scoperto Schnock (“la rivista dei vecchi tra i 27 e gli 87 anni”), tra quelle giustamente cinefile una scaffalata dedicata a Jane Campion (film e ispirazioni letterarie) e una che mette a disposizione i film precedenti degli invitati in concorso a Cannes. In mezzo, giallo canarino assassino, Grave di Julia Ducournau. In centro città davano Titane, per poco non mi son pisciato addosso quando l’ho visto. Compriamo subito quattro biglietti, anche per due amiche, ci andiamo il giorno dopo e nel giro di mezz’ora mi trovo da solo al cinema – con un estraneo alle spalle. Mascherina in mano, tanto a bocca spalanca ferma non sta.

Titanio, l’opera seconda di Ducournau che ha vinto a Cannes (and Spike did the right thing), è ancora una volta un film sulla famiglia. O meglio, sulla perdita e la ricostituzione di una famiglia. Niente spoiler in questa recensione, a parte degli spunti di massima che chiunque s’interessi al film non può evitare. O cose che hanno circolato molto perché il presidente di giuria, amabilmente picchiatello, le ha sparate in conferenza stampa sulla Croisette. La protagonista Alexia (Agathe Rousselle) si fa mettere incinta da una Cadillac laccata leopardo. Succede sul serio, e questo dà la cifra del tipo di sospensione dell’incredulità richiesto dal film, effettuata la quale tutto il resto – ed è molto – scansa il ridicolo involontario e diventa accettabile con la medesima serenità, la divina nonchalance della messinscena di Ducournau. Se si accetta la premessa del film, se ci si entra dentro godendo delle sue regole del gioco, anche noi spettatori ci ritroviamo con una placca di titanio sulla tempia a contatto col cervello. E si parte in quarta. In caso contrario l’esperienza sarà solo dissonante, cacofonica, goffa e pretenziosa. Fragile. Alexia ha un tatuaggio sullo sterno che recita “Love is a dog from hell“.

Anche Grave inizia con un’auto. In quel caso, il veicolo arriva in campo lungo su una strada di campagna e sbanda per non investire una persona che si butta sulla carreggiata uscendo da un cespuglio. In Titane, l’incipit è dentro un’auto, una normale auto familiare con una bimba sul retro (Alexia) e uno scorbutico padre al volante che vuole ascoltare la radio mentre la piccola gli molla dei calci. Che probabilmente merita per motivi che non sappiamo ma possiamo dedurre. La corsa finisce male, la bimba viene ospedalizzata e ne esce con la placca alla tempia. Va alla macchina e bacia il finestrino. Titoli di testa.

Titane procede con un metodo additivo che riesce a far dimenticare regolarmente l’evento citato poc’anzi, cioè la gravidanza della protagonista. Ripeto: il film riesce a farci dimenticare che la protagonista, col pancione sempre più in vista, è stata messa incinta da una Cadillac. La suspense non si siede sull’idea forte e perturbante del primo quarto d’ora, anzi suscita stupori sempre nuovi, alza la posta della fede in quello che stiamo vedendo. Il corpo di Alexia non cambia solo per via della dolce attesa in salsa d’olio motore. Quando in scena arriva il pompiere anabolizzato Vincent (Lindon), cinquantenne massiccio fuori e spappolato dentro, Titane cambia binario per la terza volta: non è un body horror in zona Crash e nemmeno un torture porn con un’assassina seriale lesbica. Perché sono queste le impressioni, mai confermate fino in fondo, della prima mezz’ora che vede peraltro il ritorno davanti alla macchina da presa della fenomenale attrice di Grave Garance Marillier nei panni di Justine. Niente più Cadillac infoiate, niente più carnai accompagnati da musica popolare italiana (vedere per credere, anche se Gianni Morandi in Parasite funziona molto meglio). Dall’incontro struggente, assurdo, bellissimo tra Alexia e Vincent sboccia il film vero, quello che arraffa i fili della mascolinità problematica intuita dalle prime scene e la cambia di segno. Titane abbandona il metallo, quello laccato, quello dello spunzone che Alexia s’infila tra i capelli e pianta nelle teste delle sue vittime, e si butta nel fuoco. Sequenze astratte, strazianti, vedono la squadra di Vincent al lavoro tra le fiamme, ma è il dopo a colpire. I pompieri tornano in caserma e ballano. Sì, di balli dei pompieri ce ne sono due nel film, manco Miloš Forman. È vedendo l’estasi contagiosa del ballo di Vincent che si capisce dove stia andando a parare Titane. Basta ascoltare Light House dei Future Islands per comprenderne lo spirito, che ben poco ha a che spartire con certo maledettismo di genere. Ducournau batte una strada tortuosa, mai consolatoria – come quella del cinema di Bellocchio che dall’omicidio della madre nei Pugni in tasca finisce per parlare solo di famiglie, di famiglia, la propria, colpe ed esorcismi, Marx può aspettare.

Con Titane, Julia Ducournau fa maturare gli spunti clou di Grave. Lo fa ribadendo un genio per la composizione del quadro, una pulizia anche nel massacro, rese sublimi dalla fotografia di Ruben Impens. Idem per le scelte musicali (il pezzo del trailer è del 1964, la band si chiama The Zombies: ci credereste?) ben amalgamate con la colonna sonora di Jim Williams e Séverin Favriau. Lo fa, soprattutto, con due armi segrete. La prima, be’, è il gender. Un approccio di petto, da crash test dummy nei confronti della nostra fluidità e degli stereotipi classici, da non temere, anzi: da riprodurre, pompare, lasciar sgonfiare davanti all’obiettivo senza tracciare a matita inutili teorie accademiche. In questo, ogni film di Ducournau è una dichiarazione d’amore ai corpi, lontana anni luce da un horror fondato sulla paura della metamorfosi o della diversità. Brividi da M. Butterfly. La seconda, molto più sottile, è la capacità di lasciar perdere. La trama perde pezzi, o li accenna appena, e questo riesce a potenziare il film invece di azzopparlo. L’inquadratura che ritrae un pompiere sfregiato da un incidente che forse non è un incidente dura pochi millesimi di secondo, tanto da farci dubitare che sia davvero ancora vivo. Una donna sottoposta a catcalling in autobus viene lasciata, o forse no, al suo destino, perché vediamo solo Alexia scendere dalla vettura e fare ritorno da Vincent. Per tacer della Cadillac, tanto intraprendente da bussare alla porta e far tremare gli specchi. Persa nei meandri del nostro cervello, o forse perpetuata e completata dalle stesse sinapsi che ci fanno immaginare il demonio vedendo la scena della culla di Rosemary’s Baby. E dire che gli effettacci ci sono. C’è una scena, all’inizio, di violenza impossibile, con tanto di schiuma e occhi bianchi à la Evil Dead. Ma Titane, pur stupendo e mordendo capezzoli, non vuole urtare bensì commuovere raccontando la storia di una famiglia che si rigenera fuori da ogni plausibile schema. Deleuze, se non si fosse buttato dalla finestra, potrebbe parlare di nuova immagine-pulsione.

Approfondimenti titanici: 1) recensione di Michele Faggi su indie-eye 2) seconda visione, con un tocco di Bach.

la corrente

Il palo della luce come si vede nella Part 6 di Twin Peaks: The Return (2017, immagine fotoscioppata)

Il cinema in Piazza Maggiore a Bologna. Lo scorso giugno ho zigato per dieci minuti di fila rivedendo In the Mood for Love dopo quasi vent’anni, e tra i restaurati c’era anche La strada. Che mi ha colpito meno rispetto al passato, soprattutto certe lungaggini, certe ellissi nel rapporto tra Gelsomina e Zampanò, delle dissolvenze al nero poco oneste. Ma a una scena penso ancora oggi. Dura un minuto secco, tra 24’50” e 25’50” (purtroppo niente link, il film intero su youtube non c’è più). Gelsomina ritrova Zampanò addormentato come un sasso presso il suo motocatorcio e fa due passi negli immediati dintorni avvolta in scialle e cappottino. Il paesaggio è brullo, quasi postbellico. La periferia di un piccolo centro laziale. In sequenza, 1) incontra una bimba e la fa ridere imitando col corpo la sagoma di un alberello spoglio in mezzo al campo, nient’altro che un tronco con un ramo che sporge a destra 2) incontra un bimbo seduto tra le zolle che le dice “Lì dentro è morto il cane” 3) va alla staccionata del posto dove sarebbe morto il cane, non vede nulla (o almeno noi non vediamo nulla) e in compenso sente il brusio dell’elettricità proveniente dal vicino palo della luce. Gelsomina appoggia l’orecchio al palo: prima il destro, poi – dandoci la nuca – il sinistro. Dissolvenza incrociata con Zampanò che si sveglia.

Fellini e Lynch sono nati lo stesso giorno, e numerologia a parte si sa quanto l’influenza del regista riminese si senta nell’universo lynchiano. Basta quella scena di flânerie rurale per farci passare davanti agli occhi tutti gli alberi rinsecchiti dipinti da Lynch, compresa l'”evoluzione del braccio” di Twin Peaks: The Return, cioè la trasformazione in CGI del Man from Another Place resasi necessaria dopo il mancato accordo con Michael J. Anderson. Necessity is the mother of invention. Dopo l’albero, il cane (The Angriest Dog in the World, protagonista in rigor mortis di una striscia a fumetti), e dopo il cane l’elettricità. La corrente elettrica attraversa l’intera filmografia lynchiana come una linfa mitopoietica, esplicitata in Fire Walk with Me. Non spiegata, va da sé. Esplicitata in una sequenza ridotta ai minimi nella versione del 1992 e ripescata per l’edizione dvd dotata dei “Missing Pieces”. In questi quattro minuti di ipnosi sono racchiuse tutte le sinapsi di Twin Peaks, destinate a trovare una forma definitiva nella terza stagione e nei libri tie-in di Mark Frost. A cominciare dal ruolo dei “Woodsmen”, che in sé fondono la potenza distruttiva della radioattività e quella misteriosa e feconda dell’elettricità. Non solo. Nella Part 15, Cooper si risveglia nel corpo di Dougie Jones quando questi, guardando Sunset Blvd. e udendo il nome di Gordon Cole, smette di mangiare un dolce e infila la forchetta nella presa della luce. Pali inquietanti, prese che fungono da teletrasporto tra una dimensione e l’altra, leve che azionano macchine arcane. È tutto elettrico, luminoso e sferragliante.

Gelsomina origlia il crepitio della corrente. Prima di lei s’erano già viste le onde elettriche andare su e giù lungo il corpo robotizzato di Brigitte Helm, o la scena ripetuta mille volte del dottor Frankenstein che ricorre ai fulmini per animare la sua creatura. Dopo di lei, riavvolgendo il nastro verso gli anni Ottanta, ecco la saetta che colpendo l’orologio di Hill Valley consente a Marty McFly di tornare nel proprio tempo con la DeLorean; il serial killer di Wes Craven (Shocker, 1989) che sottoposto alla sedia elettrica diventa etere e continua a uccidere sfrigolando; oppure, nomen omen, Le avventure del ragazzo del palo elettrico (1987) di Tsukamoto. L’ultimo ruolo cinematografico importante per David Bowie è quello di Nikola Tesla in The Prestige (2006) di Nolan, un trionfo di fulmini senza fili che teletrasportano cose, animali, cadaveri.

Be Kind Rewind (2008) di Michel Gondry fa razza per conto suo nel trattare l’elettricità come una forza dirompente. Jack Black vive un camper accanto alla centrale elettrica, indossando copricapi improvvisati per schermarsi dalle radiazioni (soprattutto colini o altri scarti di cucina). Un bel giorno decide di sabotare la centrale, una di quelle enormi in cui a Lynch piacerebbe organizzare picnic. L’impresa va storta, si becca una raffica di folgori azzurrine e si magnetizza. Tanto da cancellare il contenuto di tutte le videocassette del negozietto gestito da Mos Def per conto di Danny Glover. Se ne accorgono quando Mia Farrow si lamenta del fatto che Ghostbusters non si vede. Al che i due amici decidono – dopo tredici anni non è più uno spoiler – di girare loro stessi i film che danno a noleggio per un dollaro al giorno, usando una videocamera analogica. Montano in macchina e sfornano gioielli nerd di un quarto d’ora circa.

Li chiamano “sweded films“, con un riferimento alla Svezia dadaista come la trama stessa di Ghostbusters, famosa per non voler dire nulla. Al procedimento fatto in casa si prestano anche Rush Hour 2, The Lion King, Robocop, The Island of Dr. Moreau, Boogie Nights, Driving Miss Daisy (con Mia Farrow al posto di Jessica Tandy e Glover al posto di Freeman), 2001, 2010 (l’anno del contatto, ma fisico-sessuale), Boogie Nights, When We Were Kings, Carrie, King Kong, Men in Black, Les parapluies de Cherbourg. Menzione speciale per Boyz n the Hood e la trovata di simulare le chiazze di sangue attorno alla testa con delle pizze. Ma il migliore di tutti è il clippino che rifà il film stesso fungendo da trailer ufficioso e innescando una mise en abyme da giramento di capo. Gondry scatenato.

Be Kind Rewind non è solo la commedia più riuscita di Gondry, ma anche il film che meglio esibisce la sua estetica empirica – e forse l’ode per eccellenza alla VHS. Meno lugubre di Trash Humpers (2009) di Harmony Korine, girato interamente in videotape ma affossato da una morbosità che non incoraggia una seconda visione. In pratica, videoarte. Così non è per Gondry, sempre contagioso col suo approccio ludico alla finzione. Perché ricorrere agli effetti speciali quando bastano forbici e cartoncino, madri dell’invenzione, per simulare qualsiasi cosa? Le trovate estemporanee di Be Kind Rewind ridicolizzano la CGI usata per la scena della centrale elettrica e soprattutto dimostrano come la creatività sia più potente degli stessi strumenti messi in campo per tutelarla, in questo caso il diritto d’autore sventolato dagli studios che, sguinzagliando Sigourney Weaver, ottengono la distruzione delle cassette pirata mediante rullo compressore.

Ciò che non può essere distrutto è la forza della comunità raccoltasi attorno a questi filmini, assurti a celebrazione della comunità stessa. E allora, filmando in bianco e nero con un ventilatore acceso davanti all’obiettivo a mo’ di effetto anticante, ecco che i residenti di Passaic decidono di raccontare, inventando tutto, la leggenda locale del jazzista Fats Waller, allo scopo di salvare dalla gentrificazione l’angolo di edificio che ospita il negozio di videocassette e in cui, in realtà, Fats Waller non ha mai vissuto. Mitopoiesi pura per rafforzare la tenuta sociale. Il risultato è un home movie commovente come saprà fare solo Likarion Wainaina in Supa Modo (2018). La sera della prima nel negozietto, il televisore da due soldi collegato alla videocamera si fracassa ma l’impiegato del Blockbuster fornisce un beamer. Il film amatoriale viene proiettato su un lenzuolo. Il colpo di scena da lacrimoni è che la pezzuola viene calata davanti alla vetrina, per cui da fuori si vede tutto, invertito e senza suono. Basta questo a radunare una folla che fa cambiare idea agli immobiliaristi pronti con le ruspe. Per galvanizzare basta un film girato dietro l’angolo, tra amici, con materiale di scarto, in bianco e nero artificiale e con un ventilatore acceso davanti all’obiettivo, montato in macchina, con le immagini invertite lungo l’asse verticale – e muto.