Hayati

Un anno fa, in queste ore del 27 gennaio 2020, ho portato per l’ultima volta Odin dalla veterinaria. C’era Yassien, c’erano i miei genitori appena scesi dall’aereo. Siamo tornati a casa senza cane. Odin è morto quel giorno, Giorno della Memoria, coincidenza casuale che non consente paragoni a parte, forse, una riflessione superficiale sulla tristezza di questi pomeriggi di gennaio. M’è capitato spesso di dire, in preda all’amarezza e alla disperazione, di aver ordito la sua morte insieme alla veterinaria. La verità è che nel 2018, dodicenne, il mio amore ha imboccato una strada discendente, ingiusta e inarrestabile. La vecchiaia. Parlare della morte innesca subito processi irrazionali, e io sempre creduto, irrazionalmente, che il momento di decidere della vita di Odin non sarebbe mai arrivato. Il colpo in piena notte adagiati in un letto a baldacchino è un desiderio legittimo ma ingenuo. Chi lo sa com’è morto, davvero, Kubrick? Qual è la soglia oltre la quale ha senso interrompere la vita insieme alla sofferenza? Qual è la sofferenza di un essere senziente ma muto? Quando smetto di interpretare sulla base di evidenze scientifiche e inizio a proiettare? Nell’estate del 2019 sembrava che Odin non ce la facesse più. Andammo dalla veterinaria per un consulto, e ci disse che non era ancora arrivato il momento. Il giorno dopo, la mattina presto, mi alzai da letto e andai a dormire col cane immerso nei pannolini. Per strada, durante le passeggiate sempre più brevi, cerchi concentrici e centripeti attorno a casa, tutte quelle persone che mi attaccavano bottone invocando l’eutanasia. Le ho trattate una per una a male parole, rischiando infarti. In gennaio il responso della veterinaria è stato diverso. Vedendolo che zampettava senza sosta non riuscendo a tirarsi su, ci ha proposto di addormentarlo seduta stante. Abbiamo rimandato di una settimana. Negli ultimi tempi quando lo posavo nella cuccia ogni tanto mi mordeva, un gesto stizzoso dettato dal dolore. Gli occhi erano sempre più velati di grigio. Eppure, fino all’ultimo giorno, Odin è rimasto bello, di una bellezza assoluta e dignitosa che sembrava incompatibile con la morte. Non riusciva più a scodinzolare. La muscolatura andava atrofizzandosi, portando in rilievo assurde ossa come pomelli in corrispondenza delle giunture. Mangiava sempre di gusto ma non poteva bere troppo, altrimenti la vescica già provata cedeva subito. Sarà sempre l’amore della mia vita.

Alle ore 18 del 27 gennaio 2020 l’abbiamo steso sul tavolo metallico dove ha ricevuto tutti i vaccini di questo mondo, anche per andare in Finlandia e in Ucraina. Brigitte gli ha fatto l’iniezione mentre Yassien lo accarezzava e io gli sussurravo nell’orecchio sinistro sei il mio amore, sei il mio amore. È passato un anno. Lo sogno ancora, bei sogni, e dentro di me spero di incontrarlo quando sarò morto anch’io. Sono pensieri difficili da mettere a tacere. Di recente ho riscoperto per puro caso un video assemblato da Michele nel 2018 dopo la sua consueta visita berlinese per il festival. Le immagini in movimento danno sempre l’illusione della vita, non storicizzano come le foto. Mi piace illudermi, nella certezza che Odin sia.

Krachtland

In una delle ultime pagine di Faserland (1995), il suo romanzo d’esordio, l’io narrante di Christian Kracht sostiene di non essere svizzero. Uno strappo forse indispensabile, oltre che giocoso, per prendere le distanze da una macchina narrativa che nel corso degli anni farà sfracelli in termini di polemiche più o meno fondate. Sfracelli e proseliti, me compreso, reduce dalla rilettura del romanzo di cui sopra e dalla scoperta di 1979 (2001) e Die totale Erinnerung (2006). Sulla seconda metà della sua produzione taccio in questa sede, anche se è col pensiero all’imminente pubblicazione di Eurotrash che ho ripreso a mano i vagabondaggi krachtiani.

Quando lo lessi per la prima volta nove anni fa, Faserland mi colpì per la prosa fluida, “orale”, la capacità di sintesi e la visione del mondo riconducibile, anche se non sovrapponibile, alla solita scuola cool dei dandy Ellis, Beigbeder, Houellebecq. Assetato com’ero di Wenderomane, lo scambiai per un Wenderoman festajolo e sghembo, quando in realtà la traiettoria del libro parte da Sylt e approda in mezzo a un lago della svizzera tedesca passando per Amburgo, Francoforte, Heidelberg, Monaco, persino Mykonos. Niente Est crucco. L’ottica è robustamente occidentale, così come il narratore s’immagina il Medioevo in termini occidentali, l’occidente depravato del Giardino delle delizie di Bosch. Famoso per i suoi reportage, Kracht si guarda bene dal far bighellonare il suo protagonista nei “nuovi Bundesländer”, anche se la sua mobilità da giovane Fitzgerald condannato al Crack-Up, di club in club, di party in party, non può a posteriori che confermare alcuni stereotipi sulla Germania neoriunificata. Un immaginario berlinese senza Berlino. Il romanzo dura quelle 150 perfette, senza un filo di grasso, e le stoccate astiose contro l’SPD sono tuttora esilaranti.

1979 è un altro pianeta. Malgrado il gusto per il namedropping musicale e camp, il libro non c’entra nulla con Billy Corgan e si rifà alla rivoluzione iraniana del medesimo anno. Le prime pagine sembrano un proseguimento persiano di Faserland, con due protagonisti gay, peraltro antipatici, oziosamente in giro per Teheran e patentemente senza problemi di soldi – un po’ come l’io narrante di Faserland (etero come può esserlo un dandy). Poi si spalanca l’abisso. Niente spoiler, ma basti dire che l’arma segreta del romanzo – tradotto da Roberta Zuppet nel 2002 per Rizzoli – sta, usando il lessico lynchiano, nell’astrazione. Teheran diventa uno scenario fiabesco, cioè brutale, l’allucinazione collima con la realtà e lo sgangheramento di ogni logica nel prosieguo tibetano della trama va di pari passo con un senso autentico di orrore. Kracht non consola mai e sa ragionare per difetto (leggi: ellissi) come pochi, riuscendo a togliere senza essere tacciabile di codardia. My Prayer dei Platters funziona come un carillon diabolico in due capitoli lontanissimi tra loro, e chi ha visto l’ultima stagione di Twin Peaks non può che restare senza fiato.

La trouvaille di modernariato Die totale Erinnerung è un libro fotografico di Eva Munz e Lukas Nicol, impreziosito da una bella introduzione di Kracht. Il tema, allora in fase di hype ascendente (ora forse calante, causa scorpacciata), è la Corea del Nord il cui “caro leader” Kim Jong Il era ancora vivo e imperversava nella cultura pop occidentale, a cominciare da South Park. Il cartonato edito da Rogner & Bernhard è diventato un’autentica rarità, anche perché rispetto a Pyongyang di Guy Delisle non ha beneficiato di numerose ristampe (tutte meritate, visto che la graphic novel è un piccolo capolavoro). Le immagini in sé non sono più choccanti, con l’eccezione forse di una parete ricoperta da placche in marmo – o similmarmo – provenienti da ogni dove, donate al regime da circoli e comitati di fan dell’ideologia Juche. Il comitato portoghese di studio del kimilsunismo balza agli occhi con quattro mattonelle consecutive in un enorme mosaico che raccoglie omaggi in arabo, persiano, cinese, giapponese, francese, inglese (Long Live Kimilsungism), pure italiano (Circolo italiano per lo studio della Djouthé idea, fondato 7 X 1980 a Roma) con font mussoliniana. La shock value del libro è garantita dalle didascalie che tuttavia non spiegano cosa si vede in foto. Sono frasi prese dall’opera di riferimento della cinematografia nordcoreana, tradotta negli anni Settanta in numerose lingue: On the Art of the Cinema di Kim Jong Il. Le nove paginette a firma Kracht costituiscono un minireportage, forse invecchiato come le foto quanto a impatto pionieristico, ma il sarcasmo dell’autore resta affilatissimo – soprattutto quando se la prende non col regime e la mise en abîme delle sue messinscene, bensì con chi, in Germania, ne ha preso le difese, come la politica verde Luise Rinser quarant’anni fa. Die totale Erinnerung conferma la fascinazione di Kracht per i regimi totalitari e per l’assurdo che ne scaturisce.

Trovo sia imperdonabile che Faserland non abbia ancora trovato un editore italiano. L’eventuale recupero dipenderà anche dalle 224 pagine di Eurotrash, in uscita il 4 marzo – in tempo per una fiera di Lipsia che non si terrà. Il mio augurio di lettore è che Kracht non si limiti ad alzare di livello le riflessioni sulla Germania, applicandole acriticamente all'”Europa tedesca”. Se la Germania unita nel 1995 gli pareva una “grande macchina che si costruisce da sola”, l’Europa di un quarto di secolo più tardi merita, se proprio, una rappresentazione letteraria degna della sua complessità e delle sue crisi. Che Menasse sia in questo senso il minimo sindacale. Anche se, se di sequel vero si tratterà e se il titolo ha un’accezione più culturale che politica, non sarebbe male rimettersi alle calcagna del protagonista riccastro e viziato del primo romanzo, stavolta immerso nella vita notturna di Łódź a suon di disco polo. Brividi assicurati per tutte le scene di assembramento, poco importa se in club esclusivi o rave con le pezze al culo. E cappello a Kracht per la trovata pubblicitaria, slittata di un anno per i motivi ben noti. Quale? Questa:

[aggiornamento del 31 agosto: ho letto Eurotrash, non c’entra un’acca con Faserland ed è, più che brutto, superfluo]

Fliegender Zirkus

Non avevo mai guardato integralmente il Circo volante dei Monty Python (1969-1974). Grazie allo shutdown, e come antidoto alla follia, l’ho fatto. Ben fatto. Parlare dei Python a sette anni dal loro ufficiale, definitivo scioglimento, a uno dalla morte di Terry Jones, a ventuno da quella di Graham Chapman e dopo le intere enciclopedie loro dedicate è una Olimpiade per deficienti come quella da loro realizzata per la televisione bavarese. Quindi procedo a passo – ministeriale – dell’oca.

Gli episodi sono in tutto quarantasette e mezzo. Ai quarantacinque della serie regolare prodotta dalla BBC (13 + 13 + 13 + 6) vanno infatti aggiunti i due strepitosi speciali girati nei pressi di Monaco di Baviera nel 1971 e nel 1972, il Fliegender Zirkus. Peraltro qualitativamente superiori grazie all’impiego della pellicola. Risale al 1971 un’altra chicca, anch’essa in pellicola, girata in occasione dell’Euroshow. Lo speciale sul Mayday. Non è interamente originale ma contiene la leggendaria Flish Slapping Dance, i cui trenta secondi killer saranno riproposti anche nel corso della terza serie. Il pezzo forte dei due episodi “tedeschi” sono gli sketch sportivi, ideati sull’onda delle Olimpiadi. Non è un caso che questi spezzoni ritornino in quasi tutte le successive antologie e come intervalli negli spettacoli live (dall’Hollywood Bowl all’O2). Nella forma letterale di una videocassetta pescata nell’immondizia, il corto sul Mayday viene recuperato durante lo speciale di due ore andato in onda su BBC2 nell’ottobre del 1999. Prima dimostrazione di come i Python, seppur monchi (Graham morto, Idle fisso negli USA), avessero ancora delle cartucce originali da sparare.

Le quattro stagioni “classiche” sono molto diverse tra loro. La prima è un miracolo di scrittura, e non a caso contiene dei classici riproposti (e imitati) senza sostanziali modifiche per cinquant’anni di fila. I gruppi creativi attorno al tavolo di casa Jones sono ben definiti: Cleese e Chapman scrivono assieme (dialoghi serrati, dialettica urticante), idem per Palin e Jones (esplosioni surreali, goliardate visive), Idle scrive da solo (giochi di parole, canzoncine, punchline degne di Tyson), Gilliam sta per conto suo, disegna, anima, crea l’immaginario che renderà unica la comicità dei Python, preparandola al salto cinematografico. Inutile fare elenchi, liste, sciocchezze da pinterest. Personalmente trovo solo scandaloso che lo sketch It’s a Tree (dal decimo episodio, “Untitled”) non si trovi su youtube. La seconda stagione contiene alcuni degli episodi migliori in quanto episodi – The Spanish Inquisition, Spam – e rappresenta un’ottima via di mezzo tra il lavoro di scrittura dello sketch e quello di messa in scena, volto sempre di più a creare un flusso, un racconto d’immagini con elementi che riaffiorano di continuo. L’isolamento dello Science Fiction Sketch (settimo episodio della prima serie), coi suoi ventitré minuti compatti e un po’ brodosi, non si ripeterà mai più. La terza stagione arriva dopo il film And Now for Something Completely Different, che offre alla platea britannica un primo best of di gag rigirate appositamente in pellicola e lievemente imbellettate quanto a resa visiva. Arriva anche con un John Cleese stanco del format e stufo dell’alcolismo di Chapman. L’argomento è delicato e vanta teorie e testimonianze varie come quelle sulla fine dei Beatles. Basti dire che Cleese era già molto famoso prima dell’avvio del Circo volante, scalpitava per realizzare dei progetti in solitaria (e ci riuscirà alla grande con Fawlty Towers) e Chapman, be’, in alcuni sketch della terza serie si vede che legge da un pannello. Una fragilità che spezza il cuore e si riallaccia a quella di Terry Jones nei live all’O2 del 2014. Detto questo, anche la terza serie ha degli episodi d’oro – soprattutto nella prima metà, culmine con l’All-England Summarize Proust Competition – ma risulta un po’ appesantita da un livello eccessivo di sofisticazione: la sigla parte nei momenti più imprevisti, si gioca molto sui falsi finali, lo squalo da saltare è all’orizzonte. La quarta stagione è indubbiamente la più fiacca. Cleese non c’è, l’equilibrio del gruppo collassa. Si salva il segmento iniziale dell’ultimo episodio, Most Awful Family in Britain, mentre l’acconciatura di Chapman nel quinto (Mr Neutron) apparirà come il feto di 2001 nei primi minuti del live anno 2014.

La conclusione del Circo volante segna solo l’inizio di sei carriere tentacolari, al loro meglio quando sono tornate a compattarsi in un’unica, creosotiana creatura. Ovviamente nei film a sé stanti, tutti diretti da Terry Jones, tra i Python quello più attento all’unità del gruppo, capace di trovare il giusto compromesso al momento giusto. Holy Grail e The Meaning of Life recano una chiara impronta Palin-Jones-Gilliam, il primo con l’attenzione al Medioevo, il secondo per il ritorno allo sketch, allo “ripping yarn”, meglio se pirotecnico come Every Sperm Is Sacred. Life of Brian è universalmente considerato il loro capolavoro, e i sei diretti interessati confermano anche perché l’hanno scritto su un’isola da sogno e l’hanno girato in Tunisia invece che in Scozia sotto 16 tonnellate di pioggia al giorno. Mi permetto di dissentire. Il film del 1979 realizzato coi soldi di George Harrison è un classico vero, ma gli manca l’anarchia caotica e pezzente di Holy Grail. Quanto a The Meaning of Life, che rischiò di vincere a Cannes, contiene dei momenti apicali anche in termini cinematografici e lisergici. Il cortometraggio introduttivo, con un Gilliam regista pronto a sfornare Brazil, l’intervallo (The Middle of the Film) e naturalmente lo sketch al ristorante. La mentina è farina del sacco di Cleese.

Nel 1983, i Python erano bell’e finiti come gruppo. Eppure era iniziata una fase nuova, che tutto sommato prosegue ancora oggi. In questa fase il leader indiscusso si chiama Eric Idle, ed è una fase di rimasticamento e adattamento transmediale. Già nel corso degli anni Settanta i Python hanno pubblicato degli album con contenuti originali (Eric the Half-a-Bee, Sit on My Face) riproponendoli con gusto dal vivo. Il Live all’Hollywood Bowl del 1982 è sintomatico di questa propensione al riciclo intelligente, che mischia antiche pepite catodiche con recuperi filologici (sketch pre-Python di Cleese e Chapman, come i quattro gentlemen dello Yorskhire o il wrestler solitario) e soprattutto tanta, tanta musica. Al momento, le quattro stagioni del Circo sono disponibili su Netflix. Ma se dovessi consigliare una mentina propedeutica, allora che sia lo show del 2014 andato in scena con dieci repliche all’O2 londinese. Sì, ci sono cinque maschi bianchi settantenni, quattro dei quali timbrati Oxbridge, determinati più che mai a battere cassa. E c’è l’unica donna della serie originale, Carol Cleveland, riproposta come allora – allegramente troia e senza battute memorabili. Ma il pythonesco è sempre stato così, anapologetically cheeky, maschilista, discontinuo e incline al nudo frontale anche se si tratta di uno pseudomessia. Il live del 2014 è merito del fiuto di Idle, che negli anni precedenti ha saputo mietere successi clamorosi come Spamalot o il rilancio in classifica di Always Look on the Bright Side of Life. Non solo musica e balletti, però: anche una selezione impeccabile di sketch (dal vivo, o riproposti su schermo gigante come le animazioni di Gilliam e qualche carotaggio chapmaniano) e soprattutto il coraggio di osare il ritocco, l’ammodernamento, la strizzata d’occhio dell’ultim’ora. Ecco allora che Cleveland propone a Palin un “blowjob” come alternativa ai cinque minuti di alterco a pagamento, ecco Cleese & Palin che si prendono ampie licenze (ed excursus contro i tabloid) nel rifare il Pappagallo morto. Ed ecco, soprattutto, un Terry Gilliam scatenato e scatologico più che mai, unico Gumby superstite, e un Terry Jones già malato, con deficit cognitivi, che sale sul palco e fa il possibile, abbracciato metaforicamente dai colleghi. In Crunchy Frog, Cleese gli strappa di mano il cartoncino da cui sta leggendo – ed è come il fuck pronunciato al funerale di Chapman. Dolce, esilarante, liberatorio. Prima dell’ultimo rito collettivo, i Python si erano riuniti in occasione dello speciale anno 1999 e, anche se sparpagliati, nel film per ragazzi girato nel 1996 da Jones, The Wind in the Willows. L’ultima occasione che li vede di nuovo insieme, tutti e sei, risale al 1989 ed è in qualità video pessima. Si tratta dell’antologia in VHS Parrot Sketch not Included, aperta e chiusa da uno Steve Martin in stato di grazia. Il quale, alla fine, apre e chiude in un battibaleno un armadio dove sono chiusi i Python, tra cui Graham malato terminale di cancro. Sarebbe morto di lì a poco. La testa di Jones si è spenta del tutto il 21 gennaio scorso. Two Down, Four To Go.