Ballardautopia

È passato un quarto di secolo dalla presentazione a Cannes del film di Cronenberg tratto da Crash (1973) di James Graham Ballard. Ne è trascorsa la metà, di un secolo, da Crash! (1971), diciassette minuti prodotti dalla BBC e diretti da Harley Cokeliss. Per un’analisi approfondita del corto rimando a Simon Sellars, sublime esegeta dello scrittore di Shepperton nonché autore nel medesimo alveo, pubblicato in Italia da Nero nella traduzione di Luciano Funetta.

Chi ama Ballard sa che la fine degli anni Sessanta ha segnato un cambio di rotta letterario di enorme importanza. Sfoderando un terzo occhio degno di Pasolini nello scandagliare le faglie delle comunità umane (in Occidente), Ballard ha dimostrato prima di tutto di essere un autore impossibile da ignorare. Fino a quel momento era noto principalmente in ambito fantascientifico, grazie a sette romanzi e numerosi racconti pubblicati ad esempio su “New Worlds”. Le cicatrici del passato bellico in Cina, insieme alla famiglia, avrebbero trovato sfogo solo negli anni Ottanta, fuoriuscendo persino dal megafono di Spielberg. Ma per Ballard, allo scoccare del luglio 1969, la fantascienza muore. O meglio, non può che spostarsi dal cosmo al vicinato, dal futuro al presente. Questo radicale cambio di prospettiva si accompagnò a numerose provocazioni, ben raccolte nel volume The Atrocity Exhibition (1970). Tra di esse, il testullo Why I Want to Fuck Ronald Reagan (1968). Tra di esse, l’abbozzo intitolato Crash! (1969) che indaga l’aspetto pornografico degli incidenti stradali. Lamiere e succhi, stardom e death wish, suggestioni destinate a sfociare nel futuro cyberpunk.

Molte di queste suggestioni sono invecchiate male. C’è prima di tutto un occhio maschile imbarazzante, lo stesso che organizzando una mostra di catorci incidentati volle infilarci una giovane donna nuda (che accettò, limitandosi al topless). Lo stesso sguardo che percorre il corto di Cokeliss: è lo sguardo di Ballard, alle calcagna di una donna destinata a non uscire viva dall’abitacolo. Il raffreddamento dell’immaginario di Crash operato da Cronenberg nel 1996 argina solo in parte questo approccio sessantottino nel senso più goliardico e trascurabile del termine.

Ma nel percorso che ha portato a Crash c’è dell’altro. Lo osserva Zadie Smith in un articolo del 2014 che ora accompagna le edizioni originali del romanzo. Scrive Smith:

«Think of that famous shot in David Lynch’s Blue Velvet, when the camera burrows below the manicured suburban lawn to reveal the swarming, dystopian scene underneath. Ballard’s intention is similar, but more challenging. In Ballard the dystopia is not hidden under anything. Nor is it (as with so many fictional dystopias) a vision of the future. It is not the subtext. It is the text. “After this sort of thing,” asks the car-crash survivor Dr Helen Remington, “How do people manage to look at a car, let alone drive one?” But drive she does, as we all do, slowing down on motorways to ogle an accident. Like the characters in Crash we are willing participants in what Ballard called “a pandemic cataclysm that kills hundreds of thousands of people each year and injures millions.” The death-drive, Thanatos, is not what drivers secretly feel, it’s what driving explicitly is. […] It’s almost as if the stalker-sadist Vaughan looks at humans as walking talking examples of that Wittgensteinian proposal: “Don’t ask for the meaning; ask for the use.” When Ballard called Crash the first “pornographic novel about technology”, he referred not only to a certain kind of content but to pornography as an organising principle, perhaps the purest example of humans “asking for the use”. In Crash, though, the distinction between humans and things has become too small to be meaningful. In effect things are using things.»

Il testo recitato dalla voice over di Crash! è uno dei più belli di Ballard. Precorre la poesia auratica e concretissima di What I Believe (1984), e soprattutto si aggrappa alle cose per capire cosa stiamo diventando. La funzionalità sostituisce il significato. Che io sappia, non è mai stato pubblicato. Alcune frasi trovarono spazio in un articolo scritto per la rivista Drive, Autopia (1971), anch’esso recuperato tra le appendici delle moderne edizioni di Crash. Ecco alcuni brani salienti, trascrizione di Sellars.

«I think the key image of the 20th century is the man in the motor car. It sums up everything: the elements of speed, drama, aggression, the junction of advertising and consumer goods with the technological landscape. The sense of violence and desire, power and energy; the shared experience of moving together through an elaborately signalled landscape.»

[…]

«As an engineering structure, the car is totally uninteresting to me. I’m interested in the exact way in which it brings together the visual codes for expressing our ordinary perceptions about reality – for example, that the future is something with a fin on it – and the whole system of expectations contained in the design of the car, expectations about our freedom to move through time and space, about the identities of our own bodies, our own musculatures, the complex relationships between ourselves and the world of objects around us. These highly potent visual codes can be seen repeatedly in every aspect of the 20th century landscape. What do they mean?»

[…]

«It seems to me that we have to regard everything in the world around us as fiction, as if we were living in an enormous novel, and that the kind of distinction that Freud made about the inner world of the mind, between, say, what dreams appeared to be and what they really meant, now has to be applied to the outer world of reality. All the structures in it, flyovers and motorways, office blocks and factories, are all part of this enormous novel.»

[…]

«Take a structure like a multi-storey car park, one of the most mysterious buildings ever built. Is it a model for some strange psychological state, some kind of vision glimpsed within its bizarre geometry? What effect does using these buildings have on us? Are the real myths of this century being written in terms of these huge unnoticed structures?»

«More exactly, I think that new emotions and new feelings are being created, that modern technology is beginning to reach into our dreams and change our whole way of looking at things, and perceiving reality, that more and more it is drawing us away from contemplating ourselves to contemplating its world.»

Ballard iniziò a scrivere Crash nel 1970. Quello stesso anno ebbe un incidente automobilistico, potenzialmente grave, di cui parla alle pagine 241 e 242 del memoir Miracles of Life (2008), edizione tascabile Harper Perennial. L’autore si chiede come sarebbe stata interpretata una sua morte sulla strada, e aggiunge: «I believe that Crash is less a hymn to death than an attempt to appease death, to buy off the executioner who waits for us all in a quiet garden nearby, like Bacon’s headless figure in his herringbone jacket who sits patiently at a table with a machine gun beside him. Crash is set at a point where sex and death intersect, though the graph is difficult to read and is constantly recalibrating itself».

La svolta ballardiana sta tutta in questa frase. La rinuncia agli apologhi grossomodo consolanti della fantascienza, distopie incluse, porta con sé un’indagine traumatizzante sul qui e ora, colma di domande e drammaticamente spoglia di risposte. O meglio, il cosmo siamo noi e gli oggetti sono virus alieni che c’imbaccellano in quattro e quattr’otto. Lo sa Maitland, prigioniero all’interno della tangenziale londinese in Concrete Island (1974), lo sanno i labili inquilini di High-Rise (1975).

Alla disturbante trilogia degli anni Settanta Ballard ha offerto un seguito coi suoi ultimi quattro romanzi, Cocaine Nights (1996), Super-Cannes (2000), Millennium People (2003) e Kingdom Come (2006). La fascinazione per le auto cede il passo a quella che lo stesso Ballard definisce “cultura aeroportuale diffusa” nel film tratto dal saggio psicogeografico di Iain Sinclair London Orbital. Dagli alieni all’alienazione del consumo, dalle orbite sinuose delle autostrade a non luoghi recintati e rigonfi di violenza latente: centri commerciali, compound, gated communities. Il virus della follia autodistruttiva è dentro di noi ma il romanzo è là fuori, è il mondo degli oggetti di consumo che narra quel che c’è da narrare. La tecnologia è il messaggio.

Zeppo non c’è.

C’erano una volta i sei fratelli Marx, quattro dei quali fecero cinque film poi restarono in tre e ne fecero altri otto. In questo articolo vintage, colpevolmente scritto senza Groucho e i suoi fratelli a portata di mano (e Luca potrà corriggermi se canno), faccio due passi in quel bosco narrativo che è la filmografia marxiana, vecchia di un secolo ormai ma con elementi virulenti che la rendono attualissima.

Oltre al classico martelliano – da leggere nonostante l’editore – segnalo come costante nota a piè di pagina anche il Castoro di Andrea Martini, a suo tempo rimediato in edicola con L’unità grazie a una vecchia iniziativa del direttore Veltroni. Con a suo tempo intendo la metà degli anni Novanta, quando si celebrò il centenario del cinema e Vieri Razzini propose su RaiTre, nottetempo, una retrospettiva commentata coi primi sette film dei fratelli. Commenti belli che hanno offerto lo spunto per queste righe. Razzini sostiene che l’inizio della fine, per i Marx, è A Day at the Races (1937). La mia tesi scombiccherata, e in quanto tale marcsiana, è che la fine cominci con la scomparsa di Zeppo.

I tredici film coi Marx sono così suddivisi. I primi cinque furono a marchio Paramount, a cominciare da The Cocoanuts (1929), girato a New York dove i fratelli erano impegnati a Broadway nelle repliche di Animal Crackers, destinato a diventare il loro secondo film. Le pellicole Paramount sono celebri per i loro riferimenti bestiali: dopo l’adattamento cinematografico di “Crackers” (1930) arrivarono infatti Monkey Business (1931), Horse Feathers (1932) e Duck Soup (1933, di Leo McCarey). Un intervallo di due anni segnò il passaggio – autentica promozione hollywoodiana – alla MGM, per la quale realizzarono A Night at the Opera e “Races” (1935, 1937, entrambi di Sam Wood), poi At the Circus (1939), Go West (1940) e The Big Store (1941). Nel 1938 una parentesi RKO per Room Service, peraltro l’unico film coi Marx non scritto pensando ai Marx. Irrilevante. Gli ultimi due titoli, produzioni minori distribuite dalla United Artists, furono A Night in Casablanca (1946) e Love Happy (1949). Per maggiori dettagli nozionistici, cliccare Imbd. Basti dire, nelle parole di Razzini, che la seconda parte della loro produzione è all’insegna di una triste decadenza.

Triste soprattutto se paragonata all’impeto col quale irruppero sul grande schermo sul finire degli anni Venti. Per quanto filmicamente rudimentali, un po’ per budget un po’ per l’evidente origine teatrale, i primi due exploit dei Marx sono tuttora un toccasana. A colpire non è solo il surrealismo incarnato da Harpo, evidente trait d’union tra il muto e il sonoro, ma soprattutto l’aggressione verbale di Groucho (powered by Arthur Sheekman), una mitraglia di calembour e atteggiamenti schizoidi che fanno a pezzi le regole sociali, infrangono la quarta parete, saltellano da un livello metanarrativo all’altro. Un’aggressione feconda diretta alla corteccia cerebrale, ogni tanto tentata dall’alzare bandiera bianca lasciandosi cullare non più dal verbo ma dai sinuosi zigzag corporei dell’uomo col baffone finto. Groucho si lancia nelle scene con stivali da cavallerizzo, sigaro inquisitore e la schiena gobba, come un ariete, si lancia contro tutto e il contrario il tutto, anche contro sé stesso, e gli unici che riescono a far breccia in questo buco nero di nonsense sono proprio i suoi fratelli. Il candore onnivoro e strabuzzato di Harpo, la faciloneria di Chico, nei cui tranelli di strada Groucho cade come una pera cotta (succede in particolare in “Races”, secondo Razzini un errore di scrittura). Zeppo, più giovane, belloccio e inevitabilmente “straight man”, partecipa meno alle gag, eppure è irresistibile quando in “Crackers” Groucho gli detta la lettera – poi rimasticata da Totò e Peppino -, improbabile poi in “Feathers” nei panni di suo figlio tardone che flirta con la vedova del campus.

Con tutto che contiene battute colonialiste non raffinatissime, il che lo banna per sempre da qualsiasi arena estiva, Animal Crackers è ancora oggi un concentrato di anarchia, severamente vietato a chiunque abbia disturbi dell’attenzione. Per una volta, l’esibizione al piano di Chico non è mera bravura riempitiva bensì innesco di una sequenza complessa, dadaista, esilarante nella sua spietata ripetitività. Il finale, poesia pura, spicca tra i titoli Paramount in quanto visivo, cinematografico, non affrettato come gli altri. L’unico spettacolo teatrale dei Marx non trasformato in film è I’ll Say She Is, di cui esiste solo una sequenzina in rima girata per il film promozionale The House That Shadows Built (1931), biglietto da visita dello star system Paramount.

Monkey Business, il primo film-film del quartetto, è insolitamente fiacco e troppo infantile nel mettere in scena Harpo. Di buono c’è il ricorso a un’unica canzone come filo rosso, in questo caso la parodia di You Brought a New Kind of Love to Me di Maurice Chevalier. Escamotage che trova la sua migliore realizzazione in “Feathers” mediante Everyone Says I Love You eseguita da tutti, a turno, cominciando da Zeppo. “Tutti dicono che ti amo” è stata poi ripresa da Woody Allen nell’omonimo film del 1996, suo ennesimo omaggio al quartetto e soprattutto a Groucho, dal quale Allen come attore ha copiato spessissimo mosse e birignao – in particolare dal Groucho gigione dei film MGM.

In tema di canzoni, impossibile non citare i due inni di Groucho, Hello, I Must Be Going (da “Crackers”) e Whatever It Is, I’m Against It (da “Feathers”), mai più eguagliati nelle produzioni MGM sempre più improntate al musicarello puro. E parlando del periodo 1932-1933 va citato anche il radiodramma (per modo di dire) Flywheel, Shyster and Flywheel, con Groucho e Chico, pubblicato da Bompiani come Legali da legare.

La guerra lampo dei fratelli Marx, questo il titolo adattato in Italia nei primi anni Settanta, merita in pieno il suo status leggendario per il semplice fatto che finalmente sceneggiatura, corpi e macchina da presa si sincronizzano in maniera esplosiva. Sono settanta minuti scarsi senza pause né pietà, niente Harpo all’arpa, niente Chico che cala l’indice sull’ultimo tasto del piano. La musica c’è ma è corale, un sabba quasi, coi quattro fratelli impegnati in contemporanea al banjo.

Dopodiché, Zeppo scompare. Con “Opera”, pellicola citatissima per via della sequenza della cabina strapiena, i Marx ridotti all’essenziale s’inseriscono in un ingranaggio spettacolare più grande – e meno divertente – di loro. Certo, restano i caratteri, resta la lingua di Groucho non sempre servita al meglio dallo sceneggiatore di turno, resta la sua spalla più importante, Margaret Dumont (l’ineffabile, dice Razzini), che a detta di Groucho non ha mai capito le sue battute – forse la più incompresa tra le sue battute geriatriche. La Metro Goldwyn Mayer infila il trio in una ruota da criceti in cui si ripetono vecchi schemi, si visitano luoghi già ampiamente visitati – ma la sequenza in nave è almeno migliore di quella in “Business” – e si va incontro, questa una novità, a un gran finale produttivamente ambizioso. Sia esso all’opera, all’ippodromo, su un treno del West o in un enorme grande magazzino che sembra una casa delle bambole. La comicità dei protagonisti si cartunizza sempre di più. Al posto di Zeppo, in “Opera” e “Races”, tale Allan Jones dalla voce tenorile che con la sua presenza guasta ogni singolo fotogramma. Un dramma.

Rispetto alla solidità di A Night at the Opera, A Day at the Races contiene ancora un pizzico dell’antica anarchia. Lo si vede nella brutale sequenza medica con la povera Dumont sballottata sul lettino, o perfino nell’incontro fiabesco tra Harpo e la comunità nera degli slum. Anche in questo caso ti saluto arene estive, dato che Harpo funge da pifferaio (ed è facile completare la metafora) e la lunghissima sequenza musicale si conclude con un triplice blackface carpiato. Harpo perde la corsa ma vince a causa di uno scambio di cavalli, da sempre oggetto di suo incondizionato amore, e questa vittoria sporca assomiglia al finale di “Feathers” coi buoni che vincono a football americano infrangendo qualsiasi regola o fair play. “Opera” resiste di più nell’immaginario collettivo grazie alla potenza di alcune gag, prima fra tutte il contratto stracciato, forse lo zenit della carriera di Chico.

A partire da At the Circus, la discesa è ripida, la ripetizione pedante. Si salva la sequenza in treno con la visita al vagone del nano, nel finale tornano i trapezi già visti in “Opera”, ma è evidente che la benzina è agli sgoccioli. Go West rasenta l’inguardabile, con l’eccezione forse dell’arpa ricavata dal piano rotto. L’esibizione musicale in sé si salta a piè pari. The Big Store, che sembra precorrere Jerry Lewis, spadella una lunga sequenza con una famiglia italiana – e altri nuclei “etnici” – antiquata e offensiva, bruciando peraltro la carta a lungo rimasta nel mazzo dell’incontro tra Chico e i suoi compaesani. Groucho, in vena di nostalgie radiofoniche, si chiama Flywheel.

Quanto alle ultime due fatiche, e devono esserlo state davvero per i poveri Marx, “Casablanca” è un disperato tentativo di piaciucchiare ripescando l’attore “tedesco” di “Opera” e “Races”, Sig Rugman, ma l’esito è piatto eccezion fatta per la prima apparizione di Harpo appoggiato a un edificio… per evitarne il crollo. Love Happy viene giustamente ricordato solo per la presenza lampo di Marilyn Monroe agli esordi. Film, questi, fatti per coprire i debiti di Chico, giocatore d’azzardo incallito. E fa tristezza vedere come il livello della comicità dei Marx finisca per assestarsi proprio sul personaggio di Ravelli/Chicolini/Baravelli, una suburra senz’ironia a cui manca lo sguardo curioso e partecipe di Fellini.

I Marx hanno avuto una lunga carriera televisiva ben testimoniata da questa playlist. Nel 1961, Harpo ha rotto il silenzio senza rompere il personaggio pubblicando con l’aiuto di Rowland Barber un memoir dal titolo Harpo Speaks! I guizzi di Groucho l’hanno accompagnato fino all’Oscar alla carriera. Consola pensare alla costante dei decenni di magra marcsiana, all’assenza che ha contraddistinto il loro passaggio da rivoluzionari a icone stinte. Zeppo non c’è.

[ultime righe di Harpo Speaks!, 1961]

safer love


Leggendo How to Survive a Plague di David France (Picador, 2016) mi sono imbattuto in un documento risalente ai primi anni dell’Aids. Si tratta di How to Have Sex in an Epidemic, libercolo di quaranta pagine spillate a cura degli attivisti Michael Callen e Richard Berkowitz, col contributo scientifico del dottor Joseph Sonnabend. Al link soprastante potete scaricarlo in pdf e leggerlo con gli occhiali di oggi. Spoiler necessario per concentrarsi su tutt’altro: è il primo pamphlet che consiglia l’uso del preservativo per arginare l’epidemia.

A France devo la visione di un documentario candidato agli Oscar quasi dieci anni fa, tra i migliori a raccontare lo scoppio dell’epidemia in America e la reazione politica dei pazienti, che sotto l’egida di Act Up riuscirono a fare egemonia culturale e a ottenere risultati concreti. Ogni volta che lo vedo zigo come un cinno. E nel 2015 ho avuto il privilegio di vederlo a Berlino in un’aula universitaria della HU, in presenza di Peter Staley. A fine proiezione mi alzai, mostrai la mia maglietta da attivista, gli diedi dell’eroe, gli attaccai bottone a fine evento e trascorsi la serata con lui e alcuni amici a zonzo in piena primavera. Staley appartiene a quella generazione di attivisti e PLWHA che ha visto la morte in faccia, ha saputo reagire ben convogliando la rabbia e la paura e che, dopo il 1996, con l’introduzione della terapia efficace, ha resistito anche alla cosiddetta sindrome del resuscitato. Non solo. Senza Staley, il discorso sulla PrEP in America non sarebbe maturato in tempi così rapidi. E ancora oggi è sulle barricate, magari su instagram con un bicchiere di vino mentre conversa di covid insieme a Fauci, o tramite le colonne di un giornale da cui lancia il progetto vaccinale Pepvar. Un vissuto americanissimo il suo, d’oltreoceano anche in senso metaforico per sofferenza accumulata, stress psicofisico e previdenza di lusso.

E tutto americano è anche il tomo di France, uscito a quattro anni dal documentario e con lo stesso titolo. Ma con respiro storico e scientifico – pur in un’ottica divulgativa – molto più ampio. Sono seicento e passa pagine in carattere mignon, novanta delle quali di note. Dentro c’è tanta narrazione, come si suol dire, ritorna l’agiografia di Staley dai toni feuilletoneschi, ma soprattutto emergono sfumature, e sbavature, inevitabilmente restate sul pavimento della sala di montaggio del film. L’autore ha vissuto quegli anni da giornalista e da giovane gay in una New York devastata dall’insorgere dei casi di sarcoma di Kaposi e rare polmoniti. E come giornalista con grande attenzione alle fonti, e mirabile tenacia nel ricostruire gli eventi incrociandoli col proprio diario, France offre ritratti cubisti delle persone che hanno fatto la storia dell’Aids in America. Larry Kramer, carismatico, strillante e umorale, Staley broker “nell’armadio”, la gelida ambizione del dottor Fauci e le sue iniziali cantonate in tema di prevenzione, le piccinerie del dottor Gallo in lizza sia con Montagnier, sia con l’onestà intellettuale. Per chi non ha vissuto quegli anni sulla propria pelle è importante sapere che il test hiv, introdotto nel 1985, era tutt’altro che preciso (colpa di Gallo, che resta tuttavia un genio della ricerca), veniva evitato come la peste e che per orgoglio nazionale le autorità statunitensi fecero di tutto per ritardare l’approvazione di quello sviluppato dall’istituto Pasteur. Ce n’è per tutti, anche per gli eroi di questa nerissima fiaba proppiana. Basti dire che Act Up, con le migliori intenzioni, si spese per accelerare l’approvazione di farmaci come l’Azt, nocivi nei dosaggi previsti all’epoca. Oltre che insufficienti da soli. Ma questo lo si sarebbe capito, coi tempi della scienza, solo anni dopo, con la scoperta di una nuova classe di antiretrovirali e il lancio della teoria di combinazione che tuttora salva vite e restringe sempre più lo spread tra sieropositività e sieronegatività.

Con gli occhi di oggi è sempre dietro l’angolo la tentazione di confrontare le due pandemie in cerca di analogie e lezioni utili. In termini scientifici non mancano i punti di contatto, ma sul piano sociale e attivistico sono due pianeti di galassie diverse. Fino al 1982 quella che oggi è nota come Aids andava sotto il nome di Grid (Gay-Related Immune Deficiency) e in quanto tale si è fatto di tutto per spazzarla sotto il tappeto. A peggiorare la cosa era la misteriosità della nuova sindrome, tant’è per anni circolarono ipotesi diverse sulla sua origine. Prima di isolarne il virus e di studiarlo, una teoria sosteneva persino che lo stato immunodepresso derivasse da un’eccessiva esposizione allo sperma. In altre parole: che l’orgione degli anni Settanta avesse davvero generato una sorta di contrappasso bigotto. E in questo preciso contesto diventa interessante leggere How to Have Sex in an Epidemic. Partendo dalla fine.

La festa che sono stati gli anni Settanta è finita. Queste due pagine sull’amore arrivano in coda, addirittura interpolate all’ultimo momento. Il libello si apre con due citazioni in esergo (Susan Sontag, Hal David), prosegue con una prefazione disarmata del dottor Sonnabend e si lancia in un lungo elenco di attività sessuali proponendo metodi di riduzione del rischio. Ingenuamente, si raccomanda un “medically safe sex” oggi relativizzato dall’aggiunta della “r”. A pagina 15 compare per la prima volta la parola “rubber”, goldone, destinata a ripetersi a iosa – e a riscuotere un immediato successo, trattandosi di un sistema di prevenzione a basso costo. Al quale nessuno aveva pensato prima. Per frenare cosa, non si sapeva esattamente. Tant’è che il libricino di Callen e Berkowitz prende ossessivamente di mira il citomegalovirus, riscontrato in moltissimi casi.

Stampato a spese degli autori (e grazie a una colletta tra i pazienti di Sonnabend), il testo era stato concepito senza quest’ultimo capitoletto incentrato sulle emozioni. Le prime righe dei “pensieri conclusivi” ricordano il mottetto abrasivo che chiude Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971, occhio a 9’30”) di Rosa von Praunheim, quel “fuori dai cessi pubblici, tutti in strada!” che dieci anni prima aveva suonato il gong per il movimento LGBT tedesco occidentale. E al di là di alcune forse inevitabili cantonate giudicanti, il tentativo di introdurre (o riscoprire) l’etica nel sesso tra maschi è l’unico elemento concettuale che rende il libretto leggibile ancora oggi. Non come un monito, bensì come un appello accorato all’I Care, alla filosofia della cura. Verso sé stessi e gli altri. “Maybe affection is our best protection”.

Voltando pagina, si arriva all’ultimo capoverso che riporto di seguito. Quale che sia l’epidemia o la pandemia, la risposta sociale sull’onda di decisioni informate e di una limpida assunzione di responsabilità rimane la via maestra per uscirne insieme.