due note

Dettaglio della copertina de La più pallida idea, comma22, Bologna 2009.

Trasmetto questi dati dai polpastrelli alla tastiera, in quel di Berlino Est, in lingua italiana, lanciandoli via rete al server del blog con sede fisica nella Silicon Valley. Oggi è il 27 gennaio, giornata di una tristezza abissale nonché anniversario (quest’anno, il quarto) della morte di Odin. Malgrado ciò, prestando fede al color lampone della copertina riportata qui sopra, il tema di questa orecchia di gennaio vuole essere vispo. Un rossastro antico.

All’inizio della mia carriera di traduttore editoriale riuscii a vedermi accettare due proposte. Contando che il colpo gobbo m’è riuscito solo altre tre volte (una delle quali, tamugnissima, vedrà la luce questo autunno), la categoria più adatta è “fortuna del principiante”. In entrambi i casi m’imbattei nei volumetti tra gli scaffali ombrosi di una biblioteca di quartiere sulla Grünberger Str. che non esiste più, chiusa e assorbita per far nascere la Pablo-Neruda-Bibliothek sulla Frankfurter Allee. Il primo era Keine Ahnung (1999) di Karen Duve, suo esordio per Suhrkamp con una raccolta di racconti tra il favolistico e il fantozziano. Il secondo, Söhne und Planeten (2007) di Clemens J. Setz, debutto narrativo di un autore nerd destinato ad agguantare il Nobel (si accettano scommesse).

Alla buona riuscita di queste imprese, purtroppo scarsamente redditizie in termini di vendite, contribuirono da un lato Francesca Guerra per comma22 – che con La più pallida idea aprì alla narrativa classica dopo essersi fatta un nome col fumetto – dall’altro Claudia Crivellaro per gran vía, a sua volta in un periodo di sperimentazioni che esulavano dalla storica impostazione ispanoamericana della casa editrice. Setz, in particolare, venne accolto da una recensione sul domenicale del Sole in cui si faceva a pezzi il mio lavoro, “infedele” e truffaldino. Il recensore, che aveva meticolosamente confrontato originale e traduzione, non poteva sapere che in alcuni punti avevo chiesto e ottenuto dall’autore il permesso di intervenire anche sul piano del contenuto, togliendo un paio di righe e aggiustando un menu in cui il pesce era considerato dieta vegetariana – o forse aveva un prurito da grattare con una bella stroncatura cattedratica. Grattò. Gli scrissi, mi rispose con una mano sola (l’altra teneva su la punta del naso). Acqua passata. Ora con Setz ci sta provando La nave di Teseo, forte dell’ottimo contributo della collega Francesca Gabelli.

I racconti di Duve ebbero miglior fortuna. Riporto qui la recensione di Giuliana Olivero apparsa sull’Indice:

“Tragicomico, grottesco, paradossale: categorie inevitabili, quando si va alla scoperta di Karen Duve (scrittrice ‘nata ad Amburgo nel 1961’ che ‘vive in campagna con un bulldog, due polli e un mulo’, dalla quarta di copertina) e dei suoi racconti, usciti in Germania ben undici anni fa e ora disponibili in italiano grazie alla traduzione di Simone Buttazzi, che nella sua nota a fondo libro definisce l’autrice ‘cane sciolto nell’ambito della letteratura tedesca contemporanea’. Quegli stessi cani da lei molto amati, sia nella vita reale che nelle sue storie, come il ‘grosso collie tremante’ dalle ‘gengive color lombrico’ e dal ‘fiato fetido’ che bussa alla porta in una sera di pioggia e viene fatto accomodare in salotto, intrattiene una conversazione con la protagonista e resta a consolarla quando l’amico la abbandona brutalmente (Un cane alla porta). In effetti sono tante, in questi racconti fulminanti e stralunati, le incursioni nel mondo animale (maschi del genere umano in primo luogo), catalogate nella nota del traduttore tra le ‘magnifiche ossessioni’ di Duve insieme ad ‘Amburgo e dintorni, gli anni Ottanta, l’attrazione-repulsione per la burocrazia’, tutti temi ricorrenti nella raccolta, insieme a rapporti familiari più che disastrati. Il racconto di apertura, Un rifugio tranquillo sotto una coltre di neve, il più lungo dei nove, è un innesto di memorie di infanzia, di adolescenza e di presente, inclusa la rieducazione alla vita dopo la morte della madre e un incendio che le distrugge la casa, di una giovane donna lavorativamente precaria, affettivamente disadattata e mentalmente dissociata; seducente la presenza di una piovra fra le gambe di una vecchia signora, risucchiante archetipo materno che viene però infilzato a morte dalla protagonista, la quale, dopo aver sconfitto tutte le sue madri, trova, rinchiudendosi in una casa sepolta dalla neve, ‘una pancia di balena’, ‘calda e comoda’ che le permette di occultarsi al mondo. Tra spogliarellisti maschi ed esperimenti di prostituzione, stordimenti da psicofarmaci e allucinanti esperienze come telefonista di un giornale e all’ufficio delle imposte, si susseguono schegge di vita di ragazze/donne che sono naturalmente sempre la stessa, colei che non ha ‘la più pallida idea’ di come ha fatto a diplomarsi, e che finisce a fare l’autostop nel deserto americano, ben sapendo che ‘i problemi con i camionisti cominciano quando fa buio’.”

Karen Duve era già stata portata in Italia una prima volta nel 2003 (Romanzo della pioggia, Bompiani), e dopo la pubblicazione de La più pallida idea è stata adottata, per un breve periodo, da Neri Pozza (Taxi, 2010, trad. di Riccardo Cravero; Anständig essen, 2012, trad. di Francesco Porzio). Di quest’ultimo testo, il cui titolo originale recita letteralmente “mangiar perbene”, mi sarei occupato molto volentieri, visto che Duve dà sempre il meglio di sé in situazioni estreme – in questo caso, descrivendo il suo graduale approdo al fruttarismo. Pochi anni più tardi ebbi modo di intervistarla per Vegan Italy, sebbene non fosse più neanche vegana. Io, per la cronaca, non lo sono mai stato. Ora Duve non scrive favole marce, bensì biografie storiche con un bel twist femminista.

A suo tempo, cosa che oggi non farei mai, scrissi due postfazioni per La più pallida idea e Figli e pianeti. Le riporto qui scansionate. Rileggendole, oltre a una voglia di NdT che m’è passata da un pezzo – adesso, se proprio, ringrazio chi m’ha aiutato nel lavoro – c’è un senso di divulgazione pre-internettiana bizzarro forte, perché all’epoca internet non era certo una landa desolata. Un raccogliere i cocci con la scopa, più per radunarli che per pulire il pavimento. Modernariato, ormai. Gli estremi bibliografici del romanzo di Setz sono: Figli e pianeti, gran vía, Narni 2012. Buona lettura incartapecorita.