
“Mich hat vom Kaukasus geträumt” annuncia Kaspar Hauser (Bruno S.) al minuto sessantotto del film di Werner Herzog uscito nel 1974 e dedicato a Lotte Eisner, per la quale il regista era andato a Parigi a piedi, “camminando nel ghiaccio”. In sottofondo, da alcuni minuti, risuona l’adagio di Albinoni. Kaspar è stato salvato dal crudele imbonitore che aveva voluto fare di lui un fenomeno da baraccone insieme al re che va rimpicciolendosi (Helmut Döring), al Mozart bambino che fissa i buchi nella terra, al mangiafuoco, all’orso rotolino e all’affabile indiano Hombrecito (Kidlat Tahimik) col suo flauto. Ha sognato il Caucaso, racconta Kaspar con lo sguardo tendente all’infinito – e noi questo sogno lo vediamo: sono immagini sfarfallanti di un panorama indistinguibile tempestato di costruzioni piramidali che sembrano ziggurat. L’anacoluto è poesia.
Kaspar Hauser è l’Uomo elefante della storia tedesca, un mistero ottocentesco che Herzog ebbe il genio di portare sullo schermo ingaggiando Bruno da Friedrichshain, un musicante di strada passato per troppe cliniche psichiatriche. Sul corpo di Bruno, sulla pronuncia scandita e visionaria, su quello sguardo abissale s’imperniano due dei film narrativi più efficaci di Herzog, realizzati nel corso degli anni Settanta. L’altro è Stroszek (1978), film-balade che brancola tra Berlino e l’America profonda, posticcia e aliena già captata da Herzog in How Much Wood Would a Woodchuck Chuck (1976), documentario sui battitori d’asta dei mercati delle vacche che, parlando a mitraglietta, asfaltano qualsiasi rapper del futuro. Si cita sempre Kinski, ma senza Bruno Schleinstein Herzog non sarebbe mai riuscito a imporsi, aura personale compresa, in quella manciata d’anni. E non è un caso che la sua musa di allora, Eva Mattes, compaia in Stroszek tragicamente accanto all’avanzo di galera Bruno e pochi mesi dopo, in Woyzeck, sia la moglie dell’acqua cheta (insidiosa e omicida) impersonata da Kinski. Questi totem attoriali, insieme ad apparizioni fulminanti come Volker Prechtel, Alfred Edel, Clemens Scheitz, lo stesso Herbert Achternbusch, hanno consentito a Herzog di qualificarsi, prima ancora che come documentarista, come regista di sogni a occhi aperti con qualche addentellato narrativo. Un film come Auch Zwerge haben klein angefangen (1970), col suo cast di soli nani, avrebbe rischiato di farlo sprofondare alla svelta dal Nuovo Cinema Tedesco all’exploitation tout court. E il fascino di Herz aus Glas (1975), con gli attori ipnotizzati e la fotografia degna di Caspar David Friedrich, sarebbe risultato semplicemente oscuro e inafferrabile.
Di recente, Herzog ha pubblicato un volume di memorie intitolato come il vecchio film su Kaspar Hauser, Jeder für sich und Gott gegen alle, motto tedesco che ribalta la versione italiana Ognuno per sé e Dio per tutti trasformando la divinità in elemento avverso. Edgar Reitz, di dieci anni precisi più anziano di Herzog (novanta invece di ottanta), è a sua volta uscito con un libro autobiografico, Filmzeit, Lebenszeit. È una coincidenza che fa riflettere, perché malgrado le differenze sostanziali entrambi rappresentano il meglio del cinema tedesco da sessant’anni a questa parte. Reitz, si pensi solo al monumentale progetto Heimat, è da sempre il cineasta organico, locale con le sue profondissime radici nell’Hunsrück, capace di rielaborare interi decenni di storia tedesca fino a giungere, con Die andere Heimat (2013), al Vormärz ottocentesco e all’epoca della migrazione. Per tacere del suo ruolo nell’ideazione del manifesto di Oberhausen. Herzog, pur avendo come prima lingua il bavarese, è il simbolo stesso del regista apolide e vagabondo che porta sullo schermo tutto il pianeta. Ma il suo approccio non è quello di un David Attenborough. Il suo è lo sguardo ossessivo, extraterrestre, estatico di Bruno S.
Nel 2022, Werner Herzog ha completato il lavoro su Die innere Glut / The Fire Within, un documentario che in occasione di una serata col regista al cinema Arsenal di Berlino egli stesso ha definito come una delle sue opere più personali. Agevolo il link al film su arte, sperando che sia visibile anche fuori dalla Germania. Si tratta di una pellicola straordinaria e sfacciata, che conclude un percorso filmico iniziato quarantacinque anni fa con La Soufrière e proseguito con Grizzly Man (2005) e Into the Inferno (2016). Nel 1976 Herzog andò a girare sull’isola di Basse-Terre, dove stava per eruttare un vulcano. Uno stunt da Jackass ante litteram che cementò il mito del regista scavezzacollo, pronto sia a cucinarsi una scarpa se Errol Morris fosse riuscito a finire il documentario di debutto Gates of Heaven, sia, come tutti sanno, a far scavallare una collina amazzonica a un barcone mentre Kinski rischiava di farsi ammazzare dagli indios (e da Herzog stesso). Celebre da questo punto di vista anche la pallottola beccata in diretta durante un’intervista.
Ai tempi della Soufrière, Katia e Maurice Krafft erano già all’opera come vulcanologi. La coppia alsaziana, autrice di riprese mai osate prima di fenomeni vulcanici in tutto il mondo, è tra i riferimenti principali di Into the Inferno, documentario sul medesimo tema che Herzog ha realizzato pochi anni fa con l’amichevole collaborazione di Clive Oppenheimer, una sorta di link tra il personaggio Herzog e il britannico aplomb di un Attenborough. Into the Inferno illustra a meraviglia quello che è diventato il cinema di Herzog negli ultimi anni. Passando – e non è una critica – dall’urgenza al completismo, il regista bavarese ha mantenuto alta la produttività affrontando temi à la Herzog senza mai rinunciare alla propria presenza vocale (off) e fisica. Consapevole di essere diventato un aggettivo come pochi altri hanno saputo fare (Hitchcock, Fellini, Lynch, forse Tarantino), Herzog continua a mostrarci il mondo con gli occhi di un alieno dandoci anche quello che ci aspettiamo da lui, cioè un moderato gigioneggiamento. Lo si vede, ad esempio, nel film in 3D sulle grotte di Chauvet, quando gioca letteralmente con la nuova tecnologia. I dieci minuti dedicati ai Krafft nel documentario sui vulcani non si dimenticano. E contengono solo materiale girato da loro. Qui si spiega come mai, nella genesi di The Fire Within, ci sia tanto Grizzly Man, il film herzoghiano forse più visto degli ultimi anni. In Grizzly Man si ricostruisce la storia folle di Timothy Treadwell, wannabe stella del piccolo schermo appassionata a tal punto di orsi da andare a vivere con loro, isolato come Christopher McCandless ma con la videocamera sempre accesa in modalità diario. Oggi diremmo: selfie. La fine di Treadwell è nota, e a colpire nel lavoro di Herzog è la preponderanza del materiale girato dal defunto rispetto ai contributi originali, che di fatto si limitano a poche scene in cui il regista parla con l’ex fidanzata e ascolta, via cuffie, la registrazione della morte in diretta. La voce off fa il resto. Ecco, in The Fire Within c’è solo quella. Herzog non ha girato un singolo fotogramma.
I Krafft sono morti nel 1991 a causa di uno zoom rotto. Recatisi sull’isola di Kyushu per filmare l’eruzione del monte Unzen insieme a una troupe giornalistica, sul posto si accorsero che lo zoom della macchina da presa non funzionava più. Al che Maurice propose di avvicinarsi alla bocca ignorando qualsiasi precauzione. Sulla collinetta che scelsero come avamposto finiranno inceneriti dal mostruoso flusso piroclastico emesso dal vulcano, cioè una rapidissima ondata di ceneri roventi. Questo l’antefatto che non vale come spoiler, perché a Herzog non interessa la loro storia in chiave sensazionalistica. Il discorso che costruisce nel suo, di documentario, è squisitamente cinematografico. Il sottotitolo è Requiem per Katia e Maurice Krafft, e nella colonna sonora, oltre agli immancabili Popol Vuh, c’è proprio Mozart. Ma anche questo depista, perché più che omaggiare degli scienziati pronti a tutto, Herzog intende celebrarne le doti filmiche. The Fire Within è un saggio su una coppia di registi mai nati, perché oltre a girare immagini inimmaginabili non hanno mai montato nulla. E Herzog questo fa: piomba sull’archivio a trent’anni dalla morte e compone il film che loro non hanno mai avuto l’intenzione di fare. I corti didattici imbastiti dal solo Maurice contano il giusto.
Die innere Glut è allora la storia di due cineasti con un’ossessione, che dai primi filmini quasi vacanzieri a Vulcano sul finire degli anni Sessanta hanno pian piano trovato la loro voce figurativa. La svolta nella qualità delle riprese avviene nel 1973, e negli anni Ottanta, divenuti ormai delle celebrità, i Krafft decidono di sfruttare l’attenzione mediatica in chiave etica, facendosi portavoce della necessità di preallertare la popolazione qualora i sismografi lancino certi segnali. Un aspetto bizzarro e non trascurabile della storia produttiva di questo documentario è la realizzazione in parallelo di un secondo film, Fire of Love, identico per impostazione di base e materiale di repertorio (il medesimo archivio). Diretto da Sara Dosa, il film ha beneficiato di ben altro battage rispetto a quello di Herzog – il quale, sempre all’Arsenal il 20 ottobre, non ha mancato di menzionarlo sostenendo di non esserne stato a conoscenza e aggiungendo, con un filo di acida megalomania herzoghiana, che il fulcro dell’altro lavoro sarebbe unicamente biografico. Una sorta di Lava Love col vulcano come amante di entrambi. Giudizio ingeneroso, malgrado il limite di “Love” stia proprio nel voler erigere un monumento alla coppia in quanto tale. Comunque la si voglia girare: il film di Herzog è già in streaming gratis, mentre quello prodotto da National Geographic è in sala.
Pur con tutto l’amore per il cinema di Herzog, unico per genere e potenza, l’elemento dell’exploitation emerge qui con una certa chiarezza. Soprattutto quando si ha l’impressione che il montaggio sulla base dell’archivio dei Krafft si basi, qui e là, su indubbie somiglianze d’immaginario. Come se Herzog peschi riprese che avrebbe potuto, o voluto, fare in prima persona. La distanza di trent’anni rispetto alla morte dei Krafft, coi quali in vita non ha mai collaborato, crea un cuscinetto salvagente. Questo punto, ovviamente soggettivo, pulsa con insistenza quando vediamo una scena nella giungla con un’automobile che viene trascinata oltre una collina a forza di carrucole. Come dire: ehi, bravi, ma io ho l’ho fatto con una barca. E ho acceso pozzi di petrolio. E ho avuto, e licenziato, Mick Jagger nel ruolo del galoppino di Fitzcarraldo. Il lato positivo di questo processo è sempre l’obiettivo di ricreare, sullo schermo, una grande estasi. Poco importa se questo avvenga con immagini altrui, riappropriate come se gli appartenessero di diritto. Estasi, e sogni.
Il contrasto tra l’impatto di un documentario come Die innere Glut e l’ultimo film narrativo di Herzog, Family Romance LLC (2019), è purtroppo nettissimo. Guardando il film che parla delle agenzie giapponesi che affittano impersonatori di membri della famiglia, il desiderio di passare al genere documentario è forte. Ed è un filo rosso che attraversa la filmografia herzoghiana da quarant’anni, cioè da quel Fitzcarraldo più interessante per la storia produttiva che per la resa in sé. Anche questa non è una critica, semmai la constatazione che il cinema estatico di Herzog non abbia bisogno di una sovrastruttura narrativa. La finzione è superflua: basta il suo sguardo a scaraventarci in un’altra dimensione. E quando non guarda direttamente, introietta i sogni altrui. Gli Spielfilme di Herzog sono pieni di immagini, spesso finali, che salvano impalcature fragili. Dalla lotta di Kinski col barchino in conclusione di Cobra verde alla cima raggiunta in Schrei aus Stein, fino alle riprese delle dune mosse dal vento in Queen of the Desert (2015), o del deserto sudamericano in Salt and Fire (2016). Eccezioni positive sono My Son My Son What Have Ye Done (2010), bizzarria lynchiana girata in quattro e quattr’otto back to back rispetto all’assurdo sequel del Cattivo tenente, presentata a Venezia a sorpresa insieme a quest’ultimo; e soprattutto Invincibile (2001). Non tutto Invincible, che come film storico fluttua tra la fiction televisiva e la forzatura della Storia stessa, tanto da cambiare la vita del suo protagonista Zishe Breitbart. No, a rendere Invincible una vera esperienza herzoghiana è la scelta dell’attore principale, il finnico Jouko Ahola, forzuto come i forzuti a cui il regista dedicò il suo primissimo corto Herakles (1962), insieme a due scene ipnagogiche che salvano l’impianto generale. Queste scene sono state girate sull’isola di Natale, nell’oceano Indiano, l’unica in cui ci sono i granchi giganti rossi.
Un lahar è una valanga di fango, detriti e materiale vulcanico causata da un’eruzione. Inoculandosi film come The Fire Within ci si sente come travolti da immagini inarrestabili che paiono non essere di questo mondo. Invincible si conclude col fratellino di Zishe, Benjamin, che spicca il volo verso il mare lasciandosi alle spalle scogli ricoperti di granchi rossi. Prima di morire, Kaspar Hauser racconta l’unica storia che ha inventato, quella di una carovana di berberi nel Sahara guidata da un cieco che, assaggiando la sabbia, non si lascia ingannare dai miraggi. Ancora immagini sfarfallanti. La favola è tronca: manca la fine. Bruno S. è stato seppellito a Schöneberg, a pochi metri dai fratelli Grimm.

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