Se fossi a una conferenza scientifica e mi apprestassi a illustrare un power point, la prima slide sarebbe quella sul conflitto d’interessi. Quindi dico subito che Paolo Mascheri è un mio amico fraterno. Aggiungo comunque che il parlar bene o il parlar male dei suoi libri non ha alcuna ricaduta sulla mia vita reale. In tasca non me ne viene nulla.
Ricordo ancora l’autunno del 2003 in via Albiroli, nel centro storico di Bologna, quando recuperai dalla cassetta della posta delle edizioni Pendragon una busta marrone contenente una raccolta di racconti battuta a macchina alla meno peggio. S’intitolava Fratelli dei cani e trascorsi l’intera giornata di lavoro leggendola avidamente, sbrigando come un fulmine le mie mansioni di factotum. Ci vidi subito un tipo di narrativa allora di gran moda, che mi piaceva alla follia: Houellebecq, Ellis, persino Palahniuk. Ma oltre allo scarto linguistico e sociale, quasi un riscatto dell’ambito italiano, scoprii un universo a me ignoto. Una Val di Chiana cartolinesca e provinciale, feroce si direbbe oggi. Una raffica di principi attivi e preparati galenici. E soprattutto un che di filmico, quasi un Ulrich Seidl che di punto in bianco avesse cominciato a puntare l’obiettivo su sé stesso. Insistetti con l’editore, e il libro qualche mese più tardi uscì.
Poliuretano, questo il titolo definitivo, si scavò un tunnel tra gli addetti ai lavori. Le influenze di Paolo all’epoca erano autori minimum fax tradotti come Thom Jones o A.M. Homes, stili rigorosi, votati alla sottrazione, con rari momenti di sbraco. Un po’ come lo Houellebecq di Lanzarote che trascorre il san Silvestro del millennio cercando invano di connettersi a internet con un modem 56K. Il secondo singolo estratto dall’album, questa l’idea ormai antiquaria che accompagnò la campagna internettiana di lancio del libro, s’intitolava Racconto di Natale. Lo riporto qui mantenendo la pessima conversione in pdf dei primi anni zero.
Nel 2008 uscì Il gregario per minimum fax. In esergo al romanzo, una citazione dal Coetzee del Maestro di Pietroburgo che valeva come una dichiarazione d’intenti. Meno maledettismo, meno zampate di zapping su tv locali, e un aumentato rigore. Less is more. Il mondo è sempre quello di Poliuretano, “cagnesco” come scrisse Di Consoli su L’Unità, ma l’approccio severo, scientifico verrebbe da dire, prende il sopravvento sull’effetto facile. Il protagonista senza nome del romanzo si muove tra rapporti umani segnati dal binomio comprare-vendere, tentativi svogliati, esangui, estranei al dramma. La svolta arriva con la diagnosi di tumore alla prostata del padre, che mette improvvisamente a fuoco tutto quanto. A tredici anni di distanza, Il gregario è uno dei romanzi italiani più belli che abbia mai letto. A suo tempo ne parlai su corpo12 – un sito che non esiste più – concentrandomi sulla ricostruzione bibliografica del percorso di Mascheri.
Rispetto a “Polly”, col Gregario scompare la scrittura in prima persona e arriva una terza ancorata però al tempo presente, che rinfresca. Alla buona diffusione del testo contribuì la pubblicazione nella collana nichel diretta da Lagioia. Per capirne l’impatto, quella sua modernità hanekiana, riporto la bellissima analisi di Andrea Di Consoli e consiglio la lettura di tre articoli di Gianfranco Franchi, tra cui un’intervista all’autore.
Ora è uscito per Pequod L’albero delle farfalle, secondo romanzo di Mascheri pubblicato ad alcuni anni dalla stesura. Rispetto ai fasti minimum il marchio non aiuta, inutile girarci attorno, ma il testo è forse ancora migliore del Gregario. Più coraggioso, meno sviolinante rispetto ai gusti che circolano.
Intanto, la classicità. “Serva ordinem et ordo servabit te” è la citazione agostiniana di p. 112, cifra del romanzo insieme alla Magda Szabó di Via Katalin che prende il testimone da Coetzee. Resta la terza persona, stavolta persino al passato remoto, tutti i personaggi hanno un nome e i capitoli si avvicendano dichiarando il punto di vista in apertura (“Riccardo”, “Costanza”, “Roberto”, “Eleonora”). Il rigore della prosa, stirata e inamidata, funge quasi da repellente. Nell’Albero non fanno irruzione i porno di Prima Fila, anzi, il televisore serve solo a vedere vecchi fim di Wilder o Mankiewicz. Restano una precisione quasi straniante nel definire la flora (lecci, allori, filliree, carpini, arbusti decidui, lauroceraso, ciuffi di scotano…) e il ricorso a termini medici, che però in questo caso non svolgono una funzione provocatoria, à la Atomico dandy. Il cancro c’è ancora, e stavolta interessa la Madre con la emme maiuscola.
L’Albero è un romanzo figlio-madre. Lui medico generico, sposato, casona immersa nel verde, lei professoressa di greco in pensione. A latere, moglie, padre, figlia piccola. Una struttura classica, apollinea, in camice bianco, confermata dalla fermezza della lingua. Rispetto agli esordi mancano sia le digressioni scollacciate, sia l’ellissi che ad esempio conclude Il gregario. La trama viene portata alle estreme conseguenze.
Ad animare il testo sono i lessici famigliari che legano i diversi componenti della famiglia. Per Costanza, la madre, il tomografo è un “trespolo scribacchino del corpo”. Un gesto impulsivo va sotto il nome di “blitz”. Ma ogni tanto si spalancano delle botole. Riccardo bambino che ride davanti a una foto scomposta del nonno appena morto, suscitando le ire del padre in lacrime e finendo per portarsi appresso una vergogna imperitura. O la bimba che attraversa la strada da sola per la prima volta, in presenza della nonna, e quando la madre lo viene a sapere prova un misto di gelosia e disperazione. Il racconto vive di questi inabissamenti improvvisi che fanno leva sull’empatia, e sferra un attacco impassibile, devastante, nella seconda parte. Un quinto della prima per lunghezza, solo due capitoli, “Uno” ed “Epilogo”. Il titolo è Crikvenica.
Romanzo inattuale, a tratti cinematografico (con la pellicola sgranata), mai compiaciuto o ruffiano, L’albero delle farfalle è un ritorno impossibile in un ambito, quello letterario italiano, dove vale la vecchia regola di Woody Allen: per avere successo bisogna farsi vedere. Paolo non s’è fatto vedere per un bel po’, ma questo libro uscito alla chetichella nasconde un congegno detonante. “‘Signora, finalmente ci conosciamo di persona,’ disse il chirurgo tendendo la mano alla donna. ‘Lei mi sembra tranquilla mentre suo figlio è agitatissimo’. Prendendosi quella confidenza e allargando la bocca in un sorriso che rivelò i denti guasti e ingialliti contornati da una barba bianca e curata, Sensini sembrò a Riccardo un membro della famiglia, un uomo buono, uscito da una parabola per aiutarli”, p. 142.
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