Rutland

Ancora sui Python, anzi sul Pyhton dalla biografia più travagliata, Eric Idle. L’unico ad aver proseguito quasi immediatamente l’esperienza del Circo volante con un altro programma televisivo dal taglio anarchico prodotto dalla BBC, Rutland Weekend Television. Quattordici episodi mai editati in DVD – bootleg e piraterie a parte – e soprattutto poco visti e citati. Ben noto, invece, lo spin-off della RWT prodotto in America nel 1978: The Rutles, parodia bonaria dei Beatles nonché uno dei primi esempi di mockumentary. A suo tempo accompagnato da una causa legale sorda al concetto stesso di mockumentary. Ma partiamo dal 1975.

O dal 2018, andando a ritroso. Come quasi tutti i Python, Idle non s’è fatto mancare la transmedialità e ha dimostrato di saper funzionare anche come scrittore puro. Tre anni fa, quasi in risposta al primo volume del memoir di Cleese, ha pubblicato la “Sortabiography” Always Look on the Bright Side of Life, usando come titolo la sua composizione più famosa tratta da Life of Brian. Nel 2015 è uscita, solo in ebook, la buffa satira hollywoodiana The Writer’s Cut, e dieci anni prima il Greedy Bastard Diary, resoconto di una sua tournée. Confesso di aver riso sguaiatamente in più di un’occasione leggendo questo libro che, come ogni cosa che tocca Idle, ha lo slancio della barzelletta sporca e impenitente. Nel 1998 ha addirittura pubblicato un romanzo idiota di fantascienza, The Road to Mars, mentre risale al 1975 il suo debutto narrativo, Hello Sailor, nella mia lista dei desiderata difficilmente reperibili da circa 25 anni. Fin dai tempi di Do Not Adjust Your Set o dello sketch Nudge Nudge, Idle ha sempre portato avanti una scrittura molto personale, individuale nella stesura (contrariamente alle coppie fisse Chapman-Cleese o Jones-Palin) ed efficacissima quando scruta gli abissi dei giochi di parole più astrusi. Idle non era solo il Python canterino col sorriso da sabato sera.

Dopo la faticosa chiusura del Circo volante nel 1974, Eric Idle decide di insistere col mezzo televisivo e il format dei trenta minuti di risate a colpi di gag. Lo fa scrivendo di persona, almeno ufficialmente in magnifica solitudine, le due stagioni del programma comico Rutland Weekend Television, reperibili qui. Idle colonizza una delle contee più minuscole d’Inghilterra, una sorta di Molise britannico in odor d’inesistenza, e mette in piedi il proprio teatrino attorniandosi di spalle: David Battley e Henry Woolf, Gwen Taylor dalla seconda stagione, lo stratosferico Terence Bayler in pianta non stabile. Ultimo ma non meno importante, in quanto colonna (non accreditata) della serie, il cosiddetto “settimo Python“: Neil Innes. Idle lascia a lui l’iniziativa musicale, che si rivelerà anche quella più fruttuosa della serie.

Se di Rutland Weekend Television non si parla mai, il motivo è presto detto: per chiunque conosca il Circo volante, il paragone non regge. Nel senso che anche nei suoi momenti meno ispirati (la terza e la quarta stagione, con Cleese in fuga e Innes riempitivo), il Flying Circus è il prodotto di sei menti scatenate. RWT è meno caleidoscopico come spettacolo e più classico nella struttura, malgrado la scarsità di mezzi – persino inferiori al già spartano Circo volante – ogni tanto funga da madre dell’invenzione, riproducendo i celebri salti da uno skit all’altro. Nota di merito, che andrebbe tuttavia verificata con la messa in onda originale: manca la laughing track.

La trasmissione ingrana con lentezza. Col senno di poi, un primo guizzo degno di nota è l’imitazione di John Lennon da parte di Neil Innes nel terzo episodio. Innes parodia Lucy in the Sky with Diamonds, dimostrando una precisione tecnica e un’efficacia nella riscrittura dei testi che sarà confermata dalle sue rese di Bob Dylan, The Who, Elton John e altri. In questo caso specifico è impossibile non pensare a Ron Nasty, incarnazione di Lennon in The Rutles. Innes è davvero un maestro nel rimasticare la musica altrui. Lo è meno come comico tout court, fortunatamente sollevato dal ruolo di spalla ufficiale di Idle dall’ineffabile, inglesissimo David Battley.

Ed è proprio l’accoppiata Idle-Battley, nel quinto episodio (da 21:32), a sfornare una prima gag degna di nota che spezza il tedio di venti minuti dedicati alle reazioni internazionali a un rovescio di pioggia a Hendon. Semplice come il costume da diavolo indossato da Battley negoziante, che su pressione di Idle finisce per far scambiare la moglie del malcapitato con una prostituta che si spaccia per Elena di Troia. I dubbi di Idle che si è fregato da solo (Battley sembra non conoscere il mito faustiano) si lasciano sciogliere da un’unica domanda rivolta a “Elena”, cioè come si chiama suo padre. Punchline sotto la cintura in puro stile Idle.

Il settimo e ultimo episodio della prima stagione è uno speciale natalizio con George Harrison. La chimica tra il padrone di casa e il futuro produttore di Life of Brian funziona. Il solito presentatore untuoso interpretato da Idle annuncia la performance finale dell’ex Beatle, che in realtà si fa vedere regolarmente nel corso dell’episodio sotto i panni pulciosi del “pirata Bob”. E quando arriva il momento fatidico, Harrison finge di suonare My Sweet Lord e irrompe con un’inedita Pirate Song, due minuti di grog puro. Questa collaborazione ha gettato le basi sia per le successive riprese di The Rutles – dalle quali Idle uscirà trionfatore – sia per il film dei Python di maggior successo.

I primi due episodi della seconda stagione sono i migliori. Nel frattempo, la BBC aveva già mandato in onda anche la prima infornata della classicissima sitcom di Cleese & Booth Fawlty Towers, campionessa di repliche e di imitazioni fallite. Col rilancio di RWT, Idle vuole dimostrare di non essere da meno, e per certi versi ci riesce. Riesce cioè a non far rimpiangere i tempi del Circo volante, con una doppietta di episodi scritti in maniera fluida e irresistibile: Superman-Innes canta The Age of Desperation in paradiso, gli angeli si lamentano come moderni operai, si azzarda una Storia dell’intero universo e in coda al lungo sketch della clinica che cura chi s’innamora compare un clippino musicale, I Must Be in Love. Esordio ufficiale dei Rutles. Per l’esattezza, questa parodia di A Hard Day’s Night manca nel video dell’episodio reperibile su youtube per questioni di diritti (altrove ignorati, ma tant’è). La forma ritorna nel finale del sesto episodio (da 24:50), con la poesiola “Recitation” cantilenata da Idle e un quiz dopo i titoli di coda intitolato “Nixon Is Innocent”. Il settimo e ultimo in assoluto, che purtroppo termina con una canzoncina omofoba, contiene almeno una blitz-chicca (a 11:33), cioè il Pink Panzer con Terence Bayler. Ovviamente non ha senso leggere queste produzioni televisive degli anni Settanta con la lente attuale del politicamente corretto. Di sessismo e battute dubbie traboccano anche il Circo volante e Fawlty Towers, ma ha ragione da vendere Cleese, dopo ormai sessant’anni di carriera, nel contrastare certi attacchi rimandando al contesto e all’intelligenza di chi guarda. Ora come allora, certe cose fanno ridere e altre no. Il rispetto non è nato col nuovo millennio.

Rutland Weekend Television è un contenitore pieno zeppo di meta-umorismo non sempre brillante, e parzialmente invecchiato. Proprio come il Circo volante. L’invito a presentare una puntata di Saturday Night Live offrì tuttavia a Idle la possibilità di riciclarlo nella sua componente musicale, in un periodo in cui lo psicodramma per la fine dei Beatles stava raggiungendo nuove vette. SNL ripropose il clippino in bianco e nero che prende per i fondelli sia la scrittura di Lennon-McCartney, sia le trovate infantili dei loro film. In questo modo si materializzò il budget per realizzare un finto documentario di un’oretta e passa, che Idle aveva inizialmente immaginato come condotto da un giornalista così noioso che il cameraman scappa e lui è costretto a corrergli dietro.

The Rutles – All You Need Is Cash, girato nel 1977, non ha bisogno di presentazioni. Si tratta del successo più durevole di Eric Idle in solitaria, divenuto visione (e ascolto) di culto tanto da generare un sequel dopo venticinque anni, Can’t Buy Me Lunch, di infinita inutilità. Il merito del primo film è in realtà collettivo, col regista Gary Weis che assicura un minimo di tenuta nella messinscena, il taciturno Ricky Fataar nei panni di Stig (cioè George) e Neil Innes-Ron Nasty alla massima potenza. Per tacere delle teste parlanti, cioè Mick Jagger, Ron Wood travestito da punk, mezzo SNL dei tempi d’oro e George Harrison camuffato da giornalista biondo e baffuto che intervista Michael Palin in uno dei momenti più riusciti, vale a dire la presa per il culo del venture capital erogato da Apple (Rutle Corps, simbolo una banana sbucciata in stile Velvet Underground). Yoko Ono trasformata nella nazista Chastity che espone alla Pretentious Gallery è roboante ancora oggi, così come la lettura di massima della parabola dei Beatles. The Rutles anticipano quel tipo di interpretazione grezza e ficcante della realtà tipica di South Park. E per i fan dei giochi di parole irriproducibili a marca Idle, la spiegazione della scomparsa di Stig è un gioiello. Anche in questo caso, il video indicato sopra è monco – tutto il Tragical History Tour è muto – ma si può recuperare qui. Il sequel, se così si può chiamare il pasticcio ordito da Idle nel 2002 usando outtakes e intervistando tutti, persino Salman Rushdie, Tom Hanks e David Bowie, non lascia in realtà spazio a nessuno, non inventa nulla di nuovo e non fa ridere. Perché non c’è Neil Innes? Perché Neil Innes non è stato invitato sul palco di Monty Python Live (Mostly) nel 2014?

Il povero Innes, scomparso nel 2019, è stato l’unico a pagare per l’affronto di aver parodiato i Beatles in tempi in cui l’unica autorità mondiale in termini di mockumentary era ancora Orson Welles. Rob Reiner doveva ancora inventarsi gli Spinal Tap, Peter Jackson Colin McKenzie in Forgotten Silver. La parodia aveva solo la forma omaggiante, goliardica, tutto sommato innocua che le aveva impresso Mel Brooks. Gli schizzi d’acido politico di Woody Allen, con The Harvey Wallinger Story, erano roba di nicchia. Sta di fatto che malgrado il sostegno esplicito di due Beatles (Harrison e Lennon), la ATV che gestiva il loro catalogo fece causa a Innes, e Innes soltanto, togliendogli metà dei diritti di sfruttamento economico di 14 pezzi. E lasciandoglieli solo per sei, tra cui paradossalmente Get Up and Go – che come aveva osservato Lennon, sarebbe stato meglio non diffondere perché davvero identica a Get Back. Un colpo non da poco, visto che la leggenda dei Rutles, un po’ come quella dei Monty Python, è radicata in una lunga serie di pubblicazioni musicali. L’astuzia di Eric Idle gli ha consentito di fischiettare illeso fino a oggi, mentre Ron Nasty alias Bonzo Dog alias Raymond Scum, controfigura musicale dei Python, è scomparso dai radar come un extra qualsiasi. How Sweet to Be an Idiot.

Fliegender Zirkus

Non avevo mai guardato integralmente il Circo volante dei Monty Python (1969-1974). Grazie allo shutdown, e come antidoto alla follia, l’ho fatto. Ben fatto. Parlare dei Python a sette anni dal loro ufficiale, definitivo scioglimento, a uno dalla morte di Terry Jones, a ventuno da quella di Graham Chapman e dopo le intere enciclopedie loro dedicate è una Olimpiade per deficienti come quella da loro realizzata per la televisione bavarese. Quindi procedo a passo – ministeriale – dell’oca.

Gli episodi sono in tutto quarantasette e mezzo. Ai quarantacinque della serie regolare prodotta dalla BBC (13 + 13 + 13 + 6) vanno infatti aggiunti i due strepitosi speciali girati nei pressi di Monaco di Baviera nel 1971 e nel 1972, il Fliegender Zirkus. Peraltro qualitativamente superiori grazie all’impiego della pellicola. Risale al 1971 un’altra chicca, anch’essa in pellicola, girata in occasione dell’Euroshow. Lo speciale sul Mayday. Non è interamente originale ma contiene la leggendaria Flish Slapping Dance, i cui trenta secondi killer saranno riproposti anche nel corso della terza serie. Il pezzo forte dei due episodi “tedeschi” sono gli sketch sportivi, ideati sull’onda delle Olimpiadi. Non è un caso che questi spezzoni ritornino in quasi tutte le successive antologie e come intervalli negli spettacoli live (dall’Hollywood Bowl all’O2). Nella forma letterale di una videocassetta pescata nell’immondizia, il corto sul Mayday viene recuperato durante lo speciale di due ore andato in onda su BBC2 nell’ottobre del 1999. Prima dimostrazione di come i Python, seppur monchi (Graham morto, Idle fisso negli USA), avessero ancora delle cartucce originali da sparare.

Le quattro stagioni “classiche” sono molto diverse tra loro. La prima è un miracolo di scrittura, e non a caso contiene dei classici riproposti (e imitati) senza sostanziali modifiche per cinquant’anni di fila. I gruppi creativi attorno al tavolo di casa Jones sono ben definiti: Cleese e Chapman scrivono assieme (dialoghi serrati, dialettica urticante), idem per Palin e Jones (esplosioni surreali, goliardate visive), Idle scrive da solo (giochi di parole, canzoncine, punchline degne di Tyson), Gilliam sta per conto suo, disegna, anima, crea l’immaginario che renderà unica la comicità dei Python, preparandola al salto cinematografico. Inutile fare elenchi, liste, sciocchezze da pinterest. Personalmente trovo solo scandaloso che lo sketch It’s a Tree (dal decimo episodio, “Untitled”) non si trovi su youtube. La seconda stagione contiene alcuni degli episodi migliori in quanto episodi – The Spanish Inquisition, Spam – e rappresenta un’ottima via di mezzo tra il lavoro di scrittura dello sketch e quello di messa in scena, volto sempre di più a creare un flusso, un racconto d’immagini con elementi che riaffiorano di continuo. L’isolamento dello Science Fiction Sketch (settimo episodio della prima serie), coi suoi ventitré minuti compatti e un po’ brodosi, non si ripeterà mai più. La terza stagione arriva dopo il film And Now for Something Completely Different, che offre alla platea britannica un primo best of di gag rigirate appositamente in pellicola e lievemente imbellettate quanto a resa visiva. Arriva anche con un John Cleese stanco del format e stufo dell’alcolismo di Chapman. L’argomento è delicato e vanta teorie e testimonianze varie come quelle sulla fine dei Beatles. Basti dire che Cleese era già molto famoso prima dell’avvio del Circo volante, scalpitava per realizzare dei progetti in solitaria (e ci riuscirà alla grande con Fawlty Towers) e Chapman, be’, in alcuni sketch della terza serie si vede che legge da un pannello. Una fragilità che spezza il cuore e si riallaccia a quella di Terry Jones nei live all’O2 del 2014. Detto questo, anche la terza serie ha degli episodi d’oro – soprattutto nella prima metà, culmine con l’All-England Summarize Proust Competition – ma risulta un po’ appesantita da un livello eccessivo di sofisticazione: la sigla parte nei momenti più imprevisti, si gioca molto sui falsi finali, lo squalo da saltare è all’orizzonte. La quarta stagione è indubbiamente la più fiacca. Cleese non c’è, l’equilibrio del gruppo collassa. Si salva il segmento iniziale dell’ultimo episodio, Most Awful Family in Britain, mentre l’acconciatura di Chapman nel quinto (Mr Neutron) apparirà come il feto di 2001 nei primi minuti del live anno 2014.

La conclusione del Circo volante segna solo l’inizio di sei carriere tentacolari, al loro meglio quando sono tornate a compattarsi in un’unica, creosotiana creatura. Ovviamente nei film a sé stanti, tutti diretti da Terry Jones, tra i Python quello più attento all’unità del gruppo, capace di trovare il giusto compromesso al momento giusto. Holy Grail e The Meaning of Life recano una chiara impronta Palin-Jones-Gilliam, il primo con l’attenzione al Medioevo, il secondo per il ritorno allo sketch, allo “ripping yarn”, meglio se pirotecnico come Every Sperm Is Sacred. Life of Brian è universalmente considerato il loro capolavoro, e i sei diretti interessati confermano anche perché l’hanno scritto su un’isola da sogno e l’hanno girato in Tunisia invece che in Scozia sotto 16 tonnellate di pioggia al giorno. Mi permetto di dissentire. Il film del 1979 realizzato coi soldi di George Harrison è un classico vero, ma gli manca l’anarchia caotica e pezzente di Holy Grail. Quanto a The Meaning of Life, che rischiò di vincere a Cannes, contiene dei momenti apicali anche in termini cinematografici e lisergici. Il cortometraggio introduttivo, con un Gilliam regista pronto a sfornare Brazil, l’intervallo (The Middle of the Film) e naturalmente lo sketch al ristorante. La mentina è farina del sacco di Cleese.

Nel 1983, i Python erano bell’e finiti come gruppo. Eppure era iniziata una fase nuova, che tutto sommato prosegue ancora oggi. In questa fase il leader indiscusso si chiama Eric Idle, ed è una fase di rimasticamento e adattamento transmediale. Già nel corso degli anni Settanta i Python hanno pubblicato degli album con contenuti originali (Eric the Half-a-Bee, Sit on My Face) riproponendoli con gusto dal vivo. Il Live all’Hollywood Bowl del 1982 è sintomatico di questa propensione al riciclo intelligente, che mischia antiche pepite catodiche con recuperi filologici (sketch pre-Python di Cleese e Chapman, come i quattro gentlemen dello Yorskhire o il wrestler solitario) e soprattutto tanta, tanta musica. Al momento, le quattro stagioni del Circo sono disponibili su Netflix. Ma se dovessi consigliare una mentina propedeutica, allora che sia lo show del 2014 andato in scena con dieci repliche all’O2 londinese. Sì, ci sono cinque maschi bianchi settantenni, quattro dei quali timbrati Oxbridge, determinati più che mai a battere cassa. E c’è l’unica donna della serie originale, Carol Cleveland, riproposta come allora – allegramente troia e senza battute memorabili. Ma il pythonesco è sempre stato così, anapologetically cheeky, maschilista, discontinuo e incline al nudo frontale anche se si tratta di uno pseudomessia. Il live del 2014 è merito del fiuto di Idle, che negli anni precedenti ha saputo mietere successi clamorosi come Spamalot o il rilancio in classifica di Always Look on the Bright Side of Life. Non solo musica e balletti, però: anche una selezione impeccabile di sketch (dal vivo, o riproposti su schermo gigante come le animazioni di Gilliam e qualche carotaggio chapmaniano) e soprattutto il coraggio di osare il ritocco, l’ammodernamento, la strizzata d’occhio dell’ultim’ora. Ecco allora che Cleveland propone a Palin un “blowjob” come alternativa ai cinque minuti di alterco a pagamento, ecco Cleese & Palin che si prendono ampie licenze (ed excursus contro i tabloid) nel rifare il Pappagallo morto. Ed ecco, soprattutto, un Terry Gilliam scatenato e scatologico più che mai, unico Gumby superstite, e un Terry Jones già malato, con deficit cognitivi, che sale sul palco e fa il possibile, abbracciato metaforicamente dai colleghi. In Crunchy Frog, Cleese gli strappa di mano il cartoncino da cui sta leggendo – ed è come il fuck pronunciato al funerale di Chapman. Dolce, esilarante, liberatorio. Prima dell’ultimo rito collettivo, i Python si erano riuniti in occasione dello speciale anno 1999 e, anche se sparpagliati, nel film per ragazzi girato nel 1996 da Jones, The Wind in the Willows. L’ultima occasione che li vede di nuovo insieme, tutti e sei, risale al 1989 ed è in qualità video pessima. Si tratta dell’antologia in VHS Parrot Sketch not Included, aperta e chiusa da uno Steve Martin in stato di grazia. Il quale, alla fine, apre e chiude in un battibaleno un armadio dove sono chiusi i Python, tra cui Graham malato terminale di cancro. Sarebbe morto di lì a poco. La testa di Jones si è spenta del tutto il 21 gennaio scorso. Two Down, Four To Go.