
“E allora mangia la merda“. Chi ha visto Salò non dimentica la frase pronunciata dal personaggio del Presidente, interpretato da Aldo Valletti e doppiato da Marco Bellocchio. È soprattutto l’inflessione piacentina, con le sue vocali slabbrate, a restare in testa. Bellocchio è da sempre il miglior analista di sé stesso, conscio dei propri punti forti e meno forti. Tra i forti, sicuramente, la voce scatenata, prestata a figuri loschi e untuosi. Cominciando dai preti in vena di “ferventini” nei Pugni in tasca (1965) e La Cina è vicina (1967), i film che l’hanno lanciato.
In Marx può aspettare (2021), Bellocchio raduna la famiglia e istruisce un processo. Non è la prima volta che fa entrambe le cose. La sua filmografia ha sempre attinto energie dal Potere, in primis quello familiare, per aggredirlo e smontarlo in chiave molto più sottile rispetto al grottesco irridente di un Tretti. Bellocchio viene da una famiglia borghese, solida e intellettuale. Il suo esordio, dopo corti come Abbasso il zio, avvenne seguendo la medesima logica di Pasolini o Bertolucci, sanamente scollegata da qualsiasi ambizione di mercato. Elitista forse, da cricca dei salotti, ma capace di zittire qualsiasi remora coi risultati. I pugni in tasca, con quella madre cieca e buttata di sotto, portò una zaffata d’aria tagliente in un cinema italiano poco abituato ai traumi. La Cina è vicina segnò la sua consacrazione con un premio della giuria a Venezia (presidente: Moravia) ex aequo con La cinese di Godard, nell’anno della vittoria di Bella di giorno. Qualunque giovanotto di belle speranze avrebbe perso la testa. Bellocchio, che in Marx può aspettare menziona questo suo secondo film limitandosi a ricordarne il “grande successo popolare”, aggiunge che successivamente “si annullò” nei movimenti sessantottini. Forse sincronizzandosi con la partecipazione godardiana al gruppo Dziga Vertov. Ma in quell’anno fatale accadde anche qualcos’altro: suo fratello gemello Camillo si suicidò.
Di questo, a cinquanta e passa anni di distanza, parla uno dei film più belli e strazianti mai girati da Marco Bellocchio. Realizzato a partire dal 2016, con un pranzo in famiglia – davanti all’obiettivo – per stare tutti assieme forse un’ultima volta (il fratello Piergiorgio, fondatore dei Quaderni piacentini, è deceduto nel 2022 a novant’anni), Marx può aspettare è tutto fuorché un home movie indulgente. Documentario autocritico che compie una sintesi perfetta di tutta la filmografia bellocchiana, Kammerspiel spietato con “teste parlanti” che si contraddicono, scavando in un passato tragico e (in)spiegabile, geniale film di finzione perché interpretato da attori. Mai come in questo caso cade infatti, lampante, il filtro messo su nei Pugni in tasca con Lou Castel e compagnia. Bellocchio ha sempre parlato di sé e della sua famiglia. In questo film corale, gli attori compaiono in scena senza alias.
Ovviamente, questo non vale per la sua vena più politica e impegnata. Alcune delle pellicole più valide della sua seconda giovinezza artistica, da Buongiorno notte al Traditore, passando per Vincere, contengono echi di una disamina familiare, ma il nocciolo è altrove. Il filone aureo della filmografia di Bellocchio è però quello che dai Pugni passa per Salto nel vuoto, Gli occhi, la bocca, L’ora di religione, Sangue del mio sangue, perdendosi solo in apparenza in rivoli che non son rivoli: Vacanze in Val Trebbia (1978), Sorelle (2006) e Sorelle mai (2010), dove le sorelle sono proprio le sue sorelle Maria Luisa e Letizia. L’acqua che scorre sotto il ponte di Bobbio si vede in molti di questi spaccati emiliani ricavati da un unico blocco, che è la famiglia Bellocchio. Marx può aspettare è stato girato nella stessa casa dei Pugni in tasca.
Camillo era il fratello bello e gregario. Rispetto ai due intellettuali Piergiorgio e Marco, o al pragmatico sindacalista Alberto, non dava nell’occhio. Anche il “Paolo” urlatore di Salto nel vuoto, rielaborato nell’Ora di religione, lo metteva in ombra. Nessuno, ed è questo il dramma, nessuno capì a suo tempo la sua sofferenza e il suo smarrimento, tanto da scambiare la decisione di fare l’Isef come una strada finalmente trovata. Prima che uscisse I pugni in tasca, Camillo scrisse a Marco una lettera – di fatto una supplica – chiedendogli di entrare nel mondo del cinema. Il suo messaggio prima di appendersi in palestra finì nel tritadocumenti di Piergiorgio, già sotto pressione per questioni politiche (Lotta continua). Nessuno, all’epoca, ha teso l’orecchio. Nessuno ha capito nulla.
Marx può aspettare è quindi, prima di tutto, la testimonianza diretta di un fallimento umano. Al quale nessuno degli interpellati si sottrae, malgrado alcune differenze di valutazione e gli inevitabili non ricordo. A parlare non è solo la famiglia Bellocchio al gran completo, ma anche la sorella dell’ex fidanzata di Camillo, a suo tempo pressoché ignorata, lo psichiatra Luigi Cancrini e, spiazzante e perfetto, il gesuita Virgilio Fantuzzi, che attesta a un Marco divertito (ma soddisfatto) il ruolo di apologeta della fede. Il montaggio unisce l’osservazione di Fantuzzi, secondo cui la doppia bestemmia urlata dell’Ora di religione equivale al grido di Cristo sulla croce, alla clip del film – con una dissolvenza al nero come intercapedine. Nulla di nuovo per chi conosce il percorso di Bellocchio, ma ancora una volta Marx può aspettare riesce in un lavoro di sintesi, baluginante e non didascalica, che colpisce per l’ampiezza dello sguardo e il coraggio.
La frase eponima del film, pronunciata davvero da Camillo in una conversazione con Marco, compare per la prima volta in Gli occhi, la bocca. È Lou Castel a riferirla a Michel Piccoli parlando del fratello “Pippo”, morto suicida. Due anni prima, in Salto nel vuoto, era riemersa l’infanzia dei fratelli diversi, con la madre mansueta che cercava di tenere a bada Paolo, quello meno stabile psicologicamente. La stessa madre che ritornerà, vittima anche da morta (stavolta di un cinico processo di beatificazione) nel film-spartiacque della carriera di Bellocchio, L’ora di religione. Liberatosi dall’influenza di Fagioli e dalla tendenza ad adattare i classici, il regista celebre per la sua precocità dimostra di saper dare il meglio da anziano. Un periodo che prosegue tuttora, zigzagando tra carotaggi familiari, incursioni politiche e colpacci kafkiani come Il regista di matrimoni, col suo dialogo stranente tra il protagonista Franco Elica (Castellitto) e Orazio Smamma (Gianni Cavina). Il prossimo film, La conversione, ispirato al caso Mortara, promette faville.
Perfetto dall’inizio alla fine, complici le musiche di Ezio Bosso, dai filmati di repertorio degli anni Cinquanta, con un papa camp che vale più di mille parole anticlericali, fino alla scelta nei titoli di coda di alternare le foto di Marco e Camillo sottolineando il paradosso di due gemelli tra i quali solo uno invecchia, Marx può aspettare mette in campo l’autocritica più aspra e sincera da parte del gemello sopravvissuto. Il Marx del titolo è il Godot in cui credettero moltissimi ai tempi dei movimenti giovanili, quello che spinse Marco a un autoannullamento ideologico e a una rimozione, o a un’abiura pasoliniana, della sua identità borghese. È il Godot dell’aspettarsi tutte le risposte dall’esterno, in questo caso dall’ideologia, quando accanto a te c’è un gemello fragile, con un piede nella fossa, da cui ti separano pochi minuti. Il finale di Inseparabili è finzione.
Marx può aspettare contiene un mistero e un’omissione. Il mistero è chi ha girato i tanti filmini amatoriali muti con Camillo sparpagliati nel montaggio. L’omissione, non da poco, riguarda La Cina è vicina. Girato a Imola, Dozza e dintorni nel 1966, il film parla di una famiglia aristocratica capeggiata dal marchese Vittorio Gordini (Glauco Mauri) che decide, per sua sfortuna, di candidarsi coi socialisti. Suo fratello minore si chiama Camillo ed è interpretato dall’esordiente Pierluigi Aprà, morto suicida nel 1981 a 36 anni. Camillo, ventenne, è un chierichetto maoista che ama fare scherzi da prete insieme agli amici, tra cui un giovanissimo Alessandro Haber (Rospo). È talmente maoista, Camillo, che applica le massime del libretto rosso anche al sesso. La scelta del nome, escoriante, non può essere un caso. Il momento migliore del film è quando i ragazzi mettono una bomba nella sede dei socialisti, al che Vittorio chiama Camillo al telefono e gli spiega che quella mossa è assurda, perché avrebbero dovuto metterla alla cellula comunista in modo da far fuori l’opposizione farlocca e restare gli unici tesorieri del Verbo. Dov’è la bomba, lo incalza Vittorio, dov’è? “È nel cesso”.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.