Pabst. Bunker.

Rarefilmm, The cave of forgotten films, è il contrario di un bunker. Col suo richiamo all’unico documentario di Werner Herzog in 3D è semmai una spelonca sognante, guilty pleasure per noi cinefili a cui non bastano né il content algoritmato al cubo di Netflix, né le curatele ben pettinate di mubi. Jon, artefice del sito e del canale youtube che lo integra, rischia grosso e non teme di appoggiarsi a infidi server russi. Tutto pur di rendere accessibili, visibili, divorabili, film spesso dimenticati persino da chi ne detiene i diritti. Come Der letzte Akt (1955) di Georg Wilhelm Pabst, il primo film tedesco post-bellico con Hitler protagonista.

Premessa, contesto. In questo articolo non si parla del ratto in cantina, come lo definì il cosceneggiatore Erich Maria Remarque. Si parla di immaginario, di cinema e di rappresentazione di fatti storici. L’ultimo atto è un film interessante non solo nella cornice noiosissima degli anni Cinquanta tedesco occidentali, ma anche e soprattutto prendendo in considerazione i film che fino a oggi fanno leva sul baffetto e la frangia. Quello di Pabst è un film che va visto in quanto iniziatore di un genere. Ruppe un ghiaccio clamoroso in ambito germanofono, e sono proprio le sue sbavature a renderlo ancora affascinante. Il regista, austriaco, ottima reputazione durante la Repubblica di Weimar, aveva lavorato anche sotto il nazismo pur non sfornando film di (estrema) propaganda. Nel suo saggio Naziskino (Lindau, 2010), Ugo Casiraghi gli dedica pagine puntuali.

Gli anni Cinquanta della RFT sono stati quelli in cui Veit Harlan si poteva persino permettere di girare un vomitevole pamphlet contro l’omosessualità (Anders als du und ich, 1957, remake velenoso dell’Aufklärungsfilm Anders als die anderen, Richard Oswald, 1919) mentre l’ex rivale Wolfgang Liebeneiner trascinava le folle in sala per vedere Die Trapp-Familie (1956), lezioso Heimatfilm. Le eccezioni alla regola del cosiddetto Papas Kino, contro il quale si scaglieranno i firmatari del manifesto di Oberhausen, furono davvero poche. Il nerissimo Der Verlorene (1950) di Peter Lorre, Jonas (1957) dello psicoterapeuta Ottomar Domnick, sul fiorente fronte bellico Die Brücke (1959) di Bernhard Wicki, noto anche all’estero. L’ingessata cinematografia tedesco-orientale, che a suo tempo prendeva a piene mani dai fratelli Grimm, rischiava di far miglior figura. In ogni caso, nessuno nel 1955 si aspettava un film tedesco sul ratto nel bunker.

Tratto da 10 Days to Die di Michael Musmanno, testo dal taglio giornalistico che racconta “i dieci giorni che sconvolsero il mondo”… a fine aprile 1945, il film di Pabst mette in scena quello che sappiamo già grazie ai meme con Bruno Ganz: le ultime ore dei nazisti nel Führerbunker berlinese mentre i sovietici piombavano sulla città in macerie. In termini di precisione storica, il furbissimo polpettone di Hirschbiegel uscito nel 2004 ha una marcia in più. Così come l’happening delirante di Christoph Schlingensief 100 Jahre Adolf Hitler (1989), con Udo Kier baffettato, si avvicina forse maggiormente alla verità sul piano umorale. Quello di Pabst è il tentativo coraggiosissimo e claudicante di rifilare al pubblico tedesco, a dieci anni dalla capitolazione, una messinscena realistica di quei giorni. Con un attore (l’austriaco Albin Skoda) nei panni del ratto e altri attori, il più possibile somiglianti, a far tutte le parti in commedia. Willy Krause vinse al lotto con la sua faccia dolente da Goebbels, finendo per interpretarlo altre due volte (come nel film su Stauffenberg che Pabst girò subito dopo). Uno strano destino che in tempi più recenti è toccato anche all’attore della DDR Sylvester Groth, ministro della propaganda sia sotto Tarantino, sia sotto Dani Levy (nel tremendo Mein Führer, 2007). Nelle sue sequenze in interni, di bettole e soldati beoni, Inglorious Basterds deve moltissimo a Pabst.

A vestire i panni del buon tedesco è invece il giovane e bello Oskar Werner, in teoria vero protagonista del film e latore del messaggio finale (Restate all’erta – Non dite mai più signorsì!). In teoria, perché in pratica il suo personaggio strafottente è poco credibile. Attorno a lui, i militari riottosi vengono fucilati in qualche budello del bunker, mentre il capitano Wüst ottiene udienza col ratto – remissivo e imbambolato solo in sua presenza – e gli sparano solo quando l’omarino grida aiuto, messo all’angolo. La verità è che Wüst non è il protagonista del film. Grazie a una dissolvenza incrociata, il montaggio gli concede l’ultima parola sullo sfondo del cadavere in fiamme nella vasca di zinco, ma il ratto vince a mani basse, per minuti passati sullo schermo e forza motrice. Qui la pellicola dimostra la sua prima debolezza. Dinanzi al supervillain noto in tutto il globo, la denuncia si annacqua di exploitation e il disprezzo diventa – forse involontariamente – voyeurismo. L’unica lente efficace è quella del grottesco. Esilarante un’improvvisa tirata del ratto contro gli interpreti – Li odio! Chi conosce due lingue è inaffidabile! Sul finale, la pallottola che lo stende risuona dietro una porta chiusa, il cadavere non si vede, ma ecco lo scatto di reni: la prima reazione della cerchia ristretta è grandiosa. Tutti, nelle loro brave uniformi, si accendono una paglia.

In un altro punto il film, insieme alla sua fonte letteraria, fa acqua: l’allagamento di parti dell’U-Bahn berlinese, dove in quei giorni si erano rifugiate ampie fette della popolazione. La certezza storica che la decisione sia stata presa dai nazi allo scopo di ostacolare l’infiltrazione sovietica non c’è. Mentre il film la fa uscire dalle labbra strepitanti dell’omarino, facendo inorridire un ufficiale. Le scene dell’allagamento vero e proprio, girate a Vienna, sono efficaci per l’epoca (oltre che per i ristretti mezzi della Cosmopolitan Film) e servono soprattutto a mo’ di prova provata dell’abiezione hitleriana. Da un’ottica contemporanea, questo nesso spiazza e indigna. Perché è come se il film avesse bisogno di un ulteriore escamotage per denunciare il dittatore, dipinto come un pazzo morfinomane che parla col ritratto di Federico il Grande, urla senza ritegno (molto peggio di Bruno Ganz) e, sì, ogni tanto se la prende in egual misura con quei cani inetti dei suoi militari e con le razze inferiori, soprattutto gli slavi. Che manchi qualcosa di enorme, altro che elefante nella stanza, è adamantino. Forse allora non lo era, o almeno i dibattiti erano centrati su altri temi, e nessuno, dopo lo sveltissimo processo di Norimberga già pungolato dalla guerra fredda, nessuno si sarebbe immaginato un processo Eichmann. Poco importa a che punto fosse la Vergangenheitsbewältigung: questa mossa per spiegare i torti del nazionalsocialismo restando a livello locale silura l’impianto narrativo.

Meglio, molto meglio una sequenza ambientata nella U-Bahn ridotta a lazzaretto dove un vecchio nazista orecchia le lamentele di un soldato ferito e minaccia di denunciarlo, chiedendogli ripetutamente il nome e finendo per essere a sua volta minacciato da una schiera di bonarie casalinghe. Ovvio, il soldato è un modello biondo, il vecchio calvo e rattiforme, le mamme berlinesi simpatiche e aggrappate al dialetto. Stereotipi. Ma almeno si mette in scena la svolta nel popolo profondo, quello che fino a pochi mesi prima aveva ripetuto a pappagallo i motti roboanti di Goebbels. Svolta dettata dalla sopravvivenza.

Der letzte Akt andò malissimo in Austria e Germania, molto meglio negli Stati Uniti. Il resto è genere, ossessione, ruminamenti infiniti dell’immaginario come quelli orditi da Syberberg, o sfacciati e fulminanti come Eine Freundschaft in Deutschland (1985) di Karmakar. Chissà cosa sarebbe successo se Pabst fosse riuscito a fare questo film nel 1948 ingaggiando com’era sua intenzione, invece di Albin Skoda, il Werner Krauß già dottore ipnotizzatore nel Caligari (1919) e rabbino in Jud Süß (1940).