Dr. Fanck

Si chiamava Faucet, e i file che generava s’avviavano tutti con un rumore di Cinquecento dalla batteria scarica. Intorno al 2010, per un paio d’anni è stato possibile usare questo videoregistratore virtuale, che aveva accesso a molti canali generalisti e persino ad Arte. A qualche anno dal trasferimento in Germania, senza alcun cavo televisivo funzionante in casa, potei di nuovo interessarmi alla programmazione di Fuori orario. E una bella settimana, Ghezzi & co. se ne uscirono con una notte “bastarda e giapponese”, sfoggiando un classico di Kurosawa in bianco e nero, un frammento di Kurosawa a colori accecanti preso da Sogni e una prima tv sconcertante: Die Tochter des Samurai (1937) di Arnold Fanck e Itami Mansaku.

La figlia del samurai non rientra nel classico elenco dei film “unter Vorbehalt” come quelli di Riefenstahl o certi melodrammi velenosi di Harlan, per intenderci, ma è in tutto e per tutto un film di propaganda nazista. Segnatamente, il film di propaganda ideato nel 1936 per suggellare il patto tra Germania e Giappone. Goebbels ne finanziò metà budget con 50.000 marchi del Reich (per approfondire, qui e qui) e il dottor Fanck scrisse la sceneggiatura direttamente sull’isola, una volta acclimatatosi. Malgrado la pellicola sia di solito accreditata solo a lui, il regista locale Itami diede una mano nella direzione degli attori e nel colmare le enormi lacune comunicative. Itami, di vedute liberali, fu anche uno dei primi a criticarne gli esiti. Quanto a Fanck, sempre col Doktor davanti per sottolineare il dottorato (enorme discrimine classista in Germania tanto allora quanto adesso), il grande salto nel cuore del Dr. Goebbels fece cilecca, e al contrario di Veit Harlan – e molti altri cocchi del ministro – la sua carriera di regista di lungometraggi sarebbe terminata di lì a poco.

Agli occhi dei cinefili di oggi, Die Tochter des Samurai sconcerta per la presenza di Hara Setsuko, futura musa di Ozu qui diciassettenne intenta a biascicare frasi in tedesco sulla sottomissione femminile. La trama? La trama. Teruo (Kusogi Isamu) torna in patria dopo aver studiato in Mitteleuropa. Con lui viaggia l’arianissima Gerda (Ruth Eweler), di cui è innamorato perso. Peccato che il buon Teruo sia già sposo promesso alla figlia del samurai – cioè di un vecchio riccone – che l’ha adottato a suo tempo per garantirsi continuità familiare. La figlia in questione, Mitusko, ha il volto radioso e innocente di Hara. Che per tutti questi anni, mentre Teruo era in Europa a farsi l’upgrade teutonico, ha imparato a fare la brava moglie (di suo fratello). Il melodramma dovrebbe scattare quando Teruo incontra la famiglia adottiva ma rifiuta il matrimonio impostogli, adducendo come motivazione un concetto subito trattato con sufficienza da Gerda – la libertà individuale. La prima crepa nel dandy Teruo si profila quando l’irraggiungibile donna ariana gli fa pesare il debito nei confronti del samurai, ridicolizza la decadente idea di libertà in stile vecchia Europa e loda un drappello di soldati nipponici che avanzano in perfetta sincronia. “E questi sarebbero individualisti?”

La seconda crepa sa di terra. Teruo va in visita alla famiglia biologica, si mette a lavorare in una risaia, afferra una zolla fradicia e se la porta al volto, annusandola come inebriato. Suo padre annuisce, ma aggiunge che quella terra è vecchia. E qui s’inserisce il tema cruciale del film, ben rispecchiato dal titolo giapponese “Terra nuova” (e dal nome della casa di produzione tedesca, Terra). A poco servono i tentativi di Fanck di offrire al pubblico un centone orientalista della cultura giapponese, azzardando peraltro paragoni con la Germania ancestrale e modernissima, marziale e tutt’uno col Führer. Il vero fulcro geopolitico è dato dal concetto di Lebensraum: ai giapponesi manca l’aria, e quell’aria – insieme a un sacco di terra fertile – si trova là, in Manciuria, regione promessa da conquistare a tutti i costi e da sfruttare con fascistissima efficienza.

Fanck non è uno Spielleiter, un regista d’attori. Considerato l’inventore del genere Bergfilm, il film di montagna, il suo nome ricorre nelle storie del cinema perché ha lanciato Leni Riefenstahl (come attrice) buttandola tra gli iceberg o su un paio di sci, come in Der weiße Rausch (L’ebbrezza bianca, 1931). La sua opera più famosa, Die weiße Hölle vom Piz Palü (1929), funziona perché c’è Pabst a dirigere gli attori (tra cui l’onnipresente Leni). Il finale alterna due primissimi piani, viseità avrebbe detto Deleuze, a una valanga ripresa in campo lunghissimo. Cinematograficamente, bingo.

Die Tochter des Samurai scade nel ridicolo involontario ogni volta che vi sono delle interazioni tra i personaggi, annoia a morte quando tenta la carta del documentario sociologico ma si risveglia d’improvviso a contatto con la natura, meglio se spoglia, arcigna, minacciosa. Un vulcano. Gerda viene a sapere che i giapponesi hanno un temperamento tale che o erutta, o si lancia nella lava. Mitsuko, rifiutata come mogliettina, indossa il kimono di nozze e si avventura sulle pendici del monte Fuji, arrivando al cratere. Imbeccato dalla saggia Gerda (che non vede l’ora di tornare a Berlino anche perché non riesce manco a usare le bacchette), Teruo capisce che sua sorella vuole suicidarsi, si butta in un lago per fare prima e sale a sua volta su per il vulcano in pieno risveglio, tra miasmi e rocce roventi. Di punto in bianco, il montaggio apparentemente distratto e poco ispirato trova una chiave, e per un buon quarto d’ora il film diventa un film.

Così pienissimo di vulcani il cinema, fino agli anni Trenta, non lo è stato di sicuro. Già dopo una decina di anni il tema avrebbe acceso l’epico scazzo tra Rossellini e Magnani, con la “guerra dei vulcani” (Stromboli terra di Dio vs. Vulcano), e al giorno d’oggi, oltre a fior di disaster movies hollywoodiani, vale almeno la pena citare le impagabili escursioni di Werner Herzog in compagnia di Clive Oppenheimer. Fanck individua nel vulcano attivo la forza rocciosa della natura più adatta al proprio sguardo, e la rende teatro di un prefinale decotto nello spirito ma affascinante sul piano prettamente visivo. Il ricongiungimento in cima con Mitsuko che si china ad accudire i piedi piagati del futuro marito è, come dire, un pochetto anticlimatico.

Herzog è da sempre un fan dei Bergfilme di Fanck o Trenker. E come Fanck, la sua forza non sta nella messinscena attoriale. Basta vedere Grido di pietra (1991) per capire che senza dialoghi e senza trama le sue riprese in alta montagna funzionerebbero molto meglio. La grande estasi dell’intagliatore Steiner (1974) è forse il migliore esempio di Bergfilm. Ci sono l’elemento umano, la sfida sportiva, il bianco imperante, e Herzog filma quello che filma da sempre, cioè l’uomo al limite, ricorrendo a una figura retorica non certo nuova della sintassi cinematografica: il ralenti. Solo che rispetto al legnoso Fanck, capace al massimo di stupire, Herzog instilla nello spettatore una condizione estatica: il sublime accessibile, captato e decodificato dal cinema.

La figlia del samurai si conclude in chiave fantascientifica, con Teruo in groppa a un trattore che ara la Manciuria – o meglio il fragile Manciukuò. Si ferma, scende, va incontro a Mitsuko col pupo. Prende il pupo. Lo solleva, poi lo colloca in un profondo solco di terra. Il film uscì in Giappone con un montaggio diverso, che tuttavia non lo salvò da aspre critiche. L’uso della lingua tedesca, sfoderata dai protagonisti come una spada di casta, dovrebbe fungere da apriti sesamo, ma la grotta cui dà accesso si sarebbe rivelata piena di cacca radioattiva.