Non è successo niente?

Dylan Dog 437, … ma con un lamento, p. 14 (disegni di Sergio Gerasi)

Con la cosiddetta trilogia del ritorno (albi 435-437), Dylan Dog si è mozzato un braccio di cento numeri. Anzi, di più: quasi dieci anni di serie regolare, a partire dal numero 325 del 2013 programmaticamente intitolato Una nuova vita. La storia la conosciamo, e il suo andamento zigzagante e un po’ ingannevole mi diede lo spunto, quasi tre anni fa, per cacciare la pelle nella tastiera e rianimare questo blog. Riparto da quelle considerazioni.

Una cosa la dico subito: malgrado tutte le riserve del caso, considero la gestione Recchioni molto valida, e trovo assurdo che la Sergio Bonelli abbia deciso di silurare in questo modo una delle sue collane più importanti. Ci sono, va da sé, delle motivazioni di mercato. Le edicole chiudono e il covid, complice Internet, ha assestato un colpo mortale al reparto dei fumetti classici, seriali, bonelliani. Ricordo ancora, tre anni fa esatti, quando tornai a Bologna ai primi di marzo e andai in bici fino all’edicola Carella sui viali per acquistare Il tramonto rosso, DYD 402, secondo capitolo del discontinuo reboot recchioniano. Strade deserte, un senso di proibito che non avvertivo da decenni collegato all’edicola, e il sospetto che tutta quella storia sarebbe finita male. I sei numeri del rilancio-non-rilancio, usciti nella prima metà del 2020, non li ha letti nessuno. E le vendite, si sa, erano in calo da tempo. Ma già prima di decidere il retrofront radicale, col 407 divenne chiarissimo quanto fragile fosse quella rivoluzione di carta. Col ritorno di Groucho e la scomparsa della barba (per tacer di Gnaghi), il “nuovo” Dylan Dog era pressoché indistinguibile da quello classico. Tant’è che, sono pronto a scommetterci cifre importanti, negli ultimi anni l’OldBoy è andato meglio quanto a fatturato. Infatti il suo curatore non è più Recchioni ma Busatta, la frequenza e il numero di storie sono aumentate, e all’idea ultranostalgica – oltre che cretinetta – di ancorarsi a un eterno 1986 si è accompagnato un tono scanzonato, efficace, reso a meraviglia dalle copertine a cui lavorano Montanari & Bacilieri. Un ossimoro geniale che già Ratigher, con Graphic Horror Novel (DYD 369), aveva intuito alla grande.

Alla “trilogia del ritorno” sarebbero bastati due albi, il 436 e il 437 (Non con fragore… / … ma con un lamento), sceneggiati da Barbara Baraldi per i disegni di Gerasi. Evidentemente, Recchioni ha cercato di non farsi esautorare in toto, inserendo in corsa una sorta di introduzione allo smontaggio senz’appello del suo lavoro decennale. Due minuti a mezzanotte (435) sembra frettoloso a partire dai disegni dell’ottimo Pontrelli, che qui risultano scarabocchiati in preda a una scadenza imminente (si prenda L’uccisore, DYD 405, come pietra di paragone). Per capire l’umore col quale Recchioni ha dovuto affrontare questa nuova fase, basta guardare il video allucinante del keynote dylandoghiano a Lucca 2022. Una umiliazione, la sua, tanto patente quanto fuori luogo. Malgrado ritenga che la rivoluzione 2013-2020 sia stata fatta a metà, forse per pressioni da parte della casa editrice, e che gli ultimi anni abbiano sparpagliato troppe variant, troppi gadget ed effetti speciali, troppi classici subito cartonati ancor prima che fossero i lettori a decretarli tali, non ho dubbi sul fatto che molti “numeri 300” abbiano segnato un ritorno alla forma, e alla leggibilità, di cui si sentiva il bisogno dalla celebre boa del numero 100. A quanto pare, tuttavia, Sclavi si è stufato dell’andazzo e tramite un suo conoscente, Claudio Lanzoni, ha licenziato un soggetto teso a far tabula rasa, ritornando ai bei tempi andati. Bei tempi? Non dimentichiamoci che fino al numero 324, al posto del lei, la formula di cortesia era ancora il voi.

Recchioni non ha solo ristrutturato tutto l’ambaradan di testate afferenti a Dylan Dog, facendo ad esempio collimare lo speciale con la saga del Pianeta dei morti a marchio Bilotta, ma ha oggettivamente svecchiato il personaggio. Nella tecnologia come nella psicologia. Certo, ogni tanto s’è fatto prendere la mano dal marketing puro, e soprattutto si è dimenticato di scrivere. La gestione Recchioni sembra dettata da dei post-it buttati lì nella speranza che gli sceneggiatori cogliessero lo spirito del Nuovo e ci mettessero del loro. L’unico a farlo davvero è stato forse Gigi Simeoni, con storie (spesso realizzate in toto, testo e disegni) pregevolissime e mitopoietiche, come dimostra il dittico “degli umarells” post-numero 407, Scrutando nell’abisso (408) e Gli infernauti (434). Dopo il reboot in sei numeri (401-406) e soprattutto dopo la fantasia coppoliana del 400, in cui Dylan-Willard stacca la testa col machete a Sclavi-Kurtz, la vendetta è arrivata. Nella forma di un enorme retcon, come quello che un Recchioni spensierato aveva inflitto qualche anno fa all’Alba dei morti viventi per “salvare” razionalmente la custodia esplosiva del clarinetto.

E di retcon perisce, Recchioni, in questa crudelissima trilogia del ritorno. Un retcon che assume la forma di Jesper Kaplan, detto Faccia d’0ssa, un villain tradizionale e brutale che pare uscito da uno slasher anni Ottanta. Kaplan come l’identità equivoca del protagonista di Intrigo internazionale. Jesper che ricorda un jester perché “si scherza”, ma mica tanto. Ebbene, questo retcon in forma di serial killer inarrestabile ha la faccia scarnificata come se avesse attraversato lo spazio profondo – riferimento evidente al numero fondativo della rivoluzione, il 337 – quindi è, in un certo senso, il Dylan Dog moltiplicato a iosa, pluridimensionale e cubista degli ultimi anni. È questa figura [spoiler di quattro righe] a far fuori i tre personaggi-grimaldello della svolta recchioniana, John Ghost, Rania Karim e Tyron Carpenter, uno per albo, finendo però impallinata dal vecchio Dylan. In un’altra sequenza, una delle creature d’ombra che s’impadroniscono del mondo a due minuti da mezzanotte accompagna la regressione nel sonno del soprintendente Bloch a ispettore, immaginiamo ancora a un passo da una pensione irraggiungibile. Long story short: tutta la continuity post-numero 337 viene accantonata. Il “caos” sfoggiato con orgoglio nei titoli degli albi 339 e 387 (A servizio del caos, Che regni il caos!) fa una brutta fine. Si torna all’universo sgangherato e sgangherabile, groviera e passé, assemblato involontariamente da Sclavi più di trent’anni fa. Quindi: restiamo (forse) nella contemporaneità, il parco personaggi è quello classico (con Xabaras stecchito da Barbato nel DYD 242, mentre lord Wells è vivo e vegeto), niente meteora e soprattutto niente reboot, cioè il “rimescolamento di carte” a firma Recchioni, idea bellissima ancorché svogliata. Di recchioniano resta solo la vaghezza, lo scansar spiegoni che non impegna. Così come qualche anno fa nessuno ha spiegato come mai la meteora non abbia contagiato il mondo di Martin Mystère, che pur è lo stesso di Dylan, nessuno ha spiegato cosa è davvero successo alla fine del DYD 399 e via dicendo. Universi inscatolonati e accantonati insieme all’arca dell’alleanza. Chissà, forse un giorno sapremo la storia del brevissimo matrimonio di Dylan con Rania, finito causa tradimento con una terrorista dell’IRA che conosciamo bene. Il peccato di Recchioni è stato quello di scaraventare troppe idee contro il muro credendo che ci restassero appiccicate.

Ma sedicenti eventi e saghe a parte, gli ultimi cento numeri hanno davvero salvato Dylan Dog. L’hanno fatto recuperando Carlo Ambrosini, pur nel suo lento declino come autore a tuttotondo; l’hanno fatto dando carta bianca ad Alessandro Bilotta, Fabrizio Accatino, Ratigher, Fabio Celoni, Luca Vanzella, Giovanni Eccher (che ha reso interessante Carpenter staccandogli un braccio, anche se è durato poco); l’hanno fatto con due annate, il 2019 e il 2021, scritte in maggioranza da donne (Barbato, Baraldi, Contu, Porretto & Mericone). Prima del 325, al massimo si era alzato l’onorario di Dylan inseguendo l’inflazione; Ruju – che insieme a Chiaverotti ha affossato il livello della testata a colpi di riempitivi – aveva tentato un guizzo iniettando sangue di vampira nel corpo dell’indagatore dell’incubo; Medda aveva azzardato un aggiornamento tecnologico inventandosi un personaggino che faceva le ricerche su Internet per conto del protagonista; Gualdoni, curatore per poco, si era barcamenato nel quadro di una tradizione marmorea, che costringeva gli sceneggiatori a orbitare intorno al fragile pianeta sclaviano senza lasciar tracce. Recchioni ha avuto il coraggio di ammazzare il padre e indicare una via, ma chi di retcon ferisce…

La trilogia del ritorno è un calice amaro anche per noi lettori. Si può sorvolare sull’orrido effetto “glitch” che dovrebbe segnalare l’interferenza tra le varie dimensioni, ma non sull’assurdo “sceicco con consorte” che appare ai funerali di Rania, piazzato lì per ricordarci che l’ispettrice era musulmana. Nel complesso, la sceneggiatura fa capire benissimo il nuovo status quo, non lontano dalla doccia di Bobby Ewing in Dallas, ma il primo segmento in cui Recchioni cerca disperatamente di attestarsi parte dell’autorialità riallacciandosi al 400 e al proprio idiosincratico universo s’incastra male con i due albi di Baraldi, più incisivi – soprattutto il secondo: cappello – che pongono l’accento su temi più cari all’autrice, come la paralisi del sonno e più in generale un orrore atavico e infantile. La morte di Rania mi ha tolto il fiato come quella di Gnaghi. E mi ha irritato nella sua evidente strumentalità. Unico lacerto recchioniano ancora in circolazione, davvero una stramberia: la regina Elisabetta in versione mostro (speriamo ancora con fior di tentacoli sotto il sottanone). She lives.

Quindi, come direbbe Tiziano, Non è successo niente? È successo qualcosa di tristissimo. La Sergio Bonelli ha fatto una scelta industriale chiara, forse priva di alternative, in un panorama di edicole morenti e lettori abitudinari – oltre che senza memoria. Negli ultimi anni sta puntando tutto su Tex, su impalcature immarcescibili e intoccabili. Probabile che anche Dylan Dog veleggi verso una nuova ristrutturazione per difetto, che riduca le uscite all’essenziale e non rischi nulla. Probabile quindi che l’OlbBoy, ex Maxi-spazzatura, si pappi la serie ammiraglia ormai massacrata dall’andirivieni delle rivoluzioni farlocche. Si va verso una serialità immobile e senza fantasia, che poi è la solidità di Tex. Pensiamoci un attimo. Sclavi ha scritto Zagor, Mister No (pure un Mister No western), Kerry il trapper, Ken Parker e altre testate classiche della Daim Press / Cepim. Si è pure sforzato di scrivere un albo di Dylan, Nel mistero (n. 375), in cui Rania e Tyron compaiono a comando, attaccati con lo scotch. Ora, con la trilogia del ritorno, si aprono praterie conservatrici. Ma Tiziano Sclavi non ha mai scritto Tex. Tiziano, se ci sei, batti un colpo vero.

domani è mortedì

Della morte e del cielo (2020): Nicola Mari colorato da Giovanna Niro.

Il 7 aprile 2022 è uscito il sesto e ultimo volume dei Racconti di domani, scritto da Tiziano Sclavi e disegnato da Angelo Stano per i colori di Sergio Algozzino. Domani andrà meglio. Pur con tutta la sordina che ha accompagnato la pubblicazione di questa serie-testamento sclaviana, cartonata e sovrapprezzata, si tratta di un evento. Ne approfitto per riflettere sugli ultimi vent’anni di Tiziano, contraddistinti da grandi frenate, stop and go, diamanti nascosti, mici di Schrödinger.

Nel 2001 esce Il “Progetto”, Dylan Dog numero 176, disegni del fido Casertano (l’artista più legato a Sclavi). Non è un addio annunciato, ma nel corso del tempo è come se lo diventasse. Dopo due decenni di lavoro indefesso e il boom di DYD registrato nella decade tra il 33 e il 43 (siamo ai tempi della caduta del Muro), la prima battuta d’arresto sclaviana si registra in uno dei suoi capolavori, Caccia alle streghe (n. 69, disegni di Dall’Agnol), nel cui finale ovviamente onirico – o pluridimensionale: ma ci torneremo – l’indagatore è trascinato via dai sacerdoti-zombi della censura alla stregua del suo maramaldo alter ego fumettistico Daryl Zed. La testata bonelliana era finita in Parlamento con assurde accuse di incitamento alla violenza nei giovani, e il Tiz l’aveva presa malissimo. Il tema era fuori dai coppi, come qualsiasi applicazione della teoria ipodermica della comunicazione di massa – “io ti inietto il messaggio e tu obbedisci” – e soprattutto non era certo DYD il problema, semmai la ridda di imitazioni grezze e gratuitamente sanguinose. In ogni caso, il Tiz la prese male e iniziò a tirare i remi in barca, non perdendo occasione per far fuori la sua creatura.

Sclavi lo minaccia nell’ultima tavola di Caccia alle streghe, confeziona dopo quasi un anno di silenzio un numero 100 (disegni di Stano) mitopoietico e assertivo nella sua volontà di concludere la serie anche se questa fosse proseguita – come ha fatto e continua a fare, malgrado tanti sfrangiamenti. Lo fa nel “Progetto”, impiantando in Dylan un microchip del controllo mentale che gli esplode in testa, allettandolo con prognosi riservata. Per tacer degli UFO, ossessione principe di Tiziano che da Alfa e Omega (n. 9, disegni di Roi) passando per la trilogia extraterreste (n. 61, 131, 136, disegni di Brindisi) fino ai giorni nostri innerva le sue opere più importanti, anche Il “Progetto”. Vedremo in quale chiave. Da quel momento, Sclavi tace per cinque anni e riaffiora con quattro albi usciti tra il 2006 e il 2007, in corrispondenza del ventennale di Dylan. Il primo, Ucronìa (n. 240, Saudelli ai disegni) mischia la storia alternativa col celebre esperimento mentale di Erwin Schrödinger, mentre l’ultimo, Ascensore per l’inferno (n. 250, illustrato da Brindisi), è la classica avventura celebrativa esterna alla continuity, con Dylan sbattuto a tavola 98 davanti all’assise degli Inferni, col demonio, la morte e il paffuto burocrate con due facce.

Sempre nel 2006 esce Il tornado di Valle Scuropasso (Mondadori), finora l’ultimo romanzo a firma Sclavi. L’ho riletto di recente tutto d’un fiato, rimanendone positivamente colpito. Il Tornado è un romanzo autobiografico sull’alcolismo camuffato da storia sbilenca di provincia e alienazione. Gli alieni, più che un atto di fede, sono generati dalla depressione e dall’alcol. Loro, e i tornadi. Così come in Dylan, fin dal numero 4 (Il fantasma di Anna Never, disegni di Roi), l’alcolismo crea pipistrelli e fantasmi. Un’intuizione devastante che tornerà, mai così esplicita, nel magnifico albo Dopo un lungo silenzio (n. 362, disegni di Casertano). Non solo. Con maggiore economia rispetto a Non è successo niente (1997), il bestseller sclaviano che nessuno ha letto, nel Tornado torna il paese nel pavese di Buffalora (in realtà Boffalora), anche se Dellamorte e Gnaghi latitano, e tra le righe si fanno strada tante piccole manie dell’autore. Il numero tre – da cui l’omonimo romanzo uscito per Camunia trent’anni fa – la scatoletta smangiucchiata da denti umani (un ricordo di un vecchio Nembo Kid che tornerà anche nel terzo volume dei Racconti di domani), la tavola iniziale di Memorie dall’invisibile con le indicazioni per il disegnatore (sempre Casertano), una nuova canzone (Sfera: bellissima) e a pagina 91, in barba ai lettori italiani, solo quattro parole: Non è successo niente.

Con Ascensore per l’inferno inizia un’attesa dolorosa di nove anni, spezzata dalla pubblicazione del numero 362. Inutile, e fuori luogo, speculare cosa (non) sia successo nel frattempo. Roberto Recchioni, dal 2013 alla guida della testata, ha più volte raccontato di aver ricevuto la sceneggiatura di Dopo un lungo silenzio corredata dal messaggio “Sei il mio curatore. Curami”. Per Recchioni, riportare in pista Sclavi è valso come una megatacca sulla pistola, ed è indubbiamente merito suo se questa terza ondata di pubblicazioni a firma Tiz, appena conclusasi con Domani andrà meglio, è stata accompagnata da disegnatori fuoriclasse e da almeno un’idea geniale di marketing (la copertina bianca del 362). Dopo un lungo silenzio mantiene quel che promette fin dal titolo e caccia il dito nella piaga per eccellenza di Dylan e del suo creatore, cioè la dipendenza dall’alcol. Ho perso il conto delle volte che l’ho letto. Piango sempre. Più classico, “di mestiere”, il successivo Nel mistero (n. 375, disegni di Stano con colori di Giovanna Niro), che si conclude con un risucchio cosmico, l’istinto evidente di voler farla finita con tutto: “… e poi più niente”.

E poi, graphic novel. Nel 2019 il Tiz pubblica con Feltrinelli Le voci dell’acqua, per i disegni in bianco e nero del raffinatissimo Werther Dell’Edera. Il cognome dell’autore campeggia a caratteri mastodontici sulla copertina di questo volumetto senza numeri di pagina venduto come il suo primo romanzo a fumetti. Il che è vero, anche se Roy Mann (disegni di Micheluzzi) o alcune storie dei vecchi Dylandogoni meriterebbero il medesimo status. Qui Sclavi abbandona gli universi di Dylan e mette al centro – di un rizoma di tavole, in realtà – l’alter ego Stavros, a cui è stata diagnosticata la schizofrenia (o è un cancro al cervello?). Ambientato in una cittadina dell’Italia settentrionale, Le voci dell’acqua è un elegante centone di fisse sclaviane: ci sono gli UFO, c’è John Merrick, c’è una chiavetta USB contenente la verità sulla vita dopo la morte (il consueto mélange di tecnologia, meglio se rétro, rocket science e filosofia), c’è un uomo che vuole vendicarsi della madre ormai demente (una situazione che tornerà nei Racconti di domani, quinto volume, Variazione sulla macchina del tempo), c’è uno scambio tra innamorati che ricorda i dialoghi del Lungo addio (DYD 74, disegni di Ambrosini). C’è un capitoletto intitolato Un giorno qualunque della settimana: mortedì. Il segnale è deboluccio, ma il tocco di Tiz funziona ancora.

Risale al 2020 Zardo, strana graphic novel di appena 48 pagine ispirata al romanzo Nero. (Camunia, 1992), dal quale Giancarlo Soldi ha anche tratto un film. A latere vale la pena ricordare anche il suo documentario su Tiziano Nessuno siamo perfetti (2014) in cui appaiono paciose balenottere volanti simili al babau ripescato da Sclavi nel sesto volume dei Racconti. In Nessuno siamo perfetti, il Tiz afferma vigorosamente che non scriverà mai più. Per fortuna si è smentito subito dopo. Zardo, in realtà una vecchia sceneggiatura per Casertano recuperata in forma di fotocopie, è stata una piacevole sorpresa. Il file MacWrite, ci informa Tiziano nell’introduzione al volume, è andato perduto. Ai disegni c’è il recchioniano Emiliano Mammucari, ai colori Luca Saponti. La storia è esile, nerissima e macellaia, tutta italiana, con una sbandata ufologica che manca nel romanzo. Col senno di poi è notevole un breve elogio dello “scendere” che ritorna nel quinto volumi dei Racconti (l’episodio “Scendendo”).

Tra il 2019 e il 2022, Tiziano Sclavi ha fatto il suo grande ritorno in libreria con la serie cartonata I racconti di domani, pubblicati rispettivamente: uno nel 2019, due nel 2020 e nel 2021, uno quest’anno. Contando che si tratta di volumi di 64 pagine senza appendici, a colori, prezzo di copertina 19 euro, gli habitué della Bonelli da edicola ci sono rimasti un po’ male, visto che Dopo un lungo silenzio e Nel mistero (a colori), presi insieme, facevano 6,7 euro per quasi duecento tavole. Marketing a parte, è interessante la collocazione liminale della serie nel mondo dylandoghiano. “Dylan Dog presenta” è la cornice dei volumi, anche se sarebbe più corretto dire “Safarà presenta”. Sclavi utilizza infatti una delle sue creazioni più funzionali come sistema operativo dei sei volumi. L’emporio dell’impossibile e il suo proprietario Hamlin, faccia da Nosferatu e nome da fratelli Grimm, appare per la prima volta nel numero 59 (Gente che scompare, disegni di Coppola), tornando poi in Zed (n. 84, Brindisi), nel 182 (Safarà, Ruju-Freghieri), nel 197 (I quattro elementi, De Nardo-Celoni), nel 200 (Barbato-Brindisi), nel 210 (Il pifferaio magico, Barbato-Brindisi), nel 312 (Epidemia aliena, Gualdoni-Dell’Uomo). Hamlin apre il 401 (L’alba nera, Recchioni-Roi) vendendo il clarinetto alla versione reboot di Dylan, e questo spiega il suo ruolo nell’economia – tout court – della serie Bonelli, che per sopravvivere, sperimentare ma non cacciarsi in vicoli ciechi ha adottato scopertamente l’idea degli universi paralleli. Scoperchiata proprio dall’introduzione di Safarà. Più che la “nuova serie di Dylan Dog”, I racconti di domani sono la miniserie di Hamlin.

Non a caso, l’umbratile figuro appare spesso nei primi due volumi, apre il quarto e chiude il sesto. Il volume dei Tales of Tomorrow appartiene al suo inventario, e Dylan ne è attratto dimenticandosi ogni volta di essere già entrato nel negozietto. Idea semplice ma sempre efficace. Questa la premessa. Il nocciolo è a ben vedere un’antologia di spunti sclaviani, dai raccontini à la Borges (o à la Urania) a brevi apologhi politici, il tutto condito da immagini e concetti che i lettori di Tiziano hanno imparato a conoscere già cinquant’anni fa, in Film (edizioni Il Formichiere, 1974).

Il volume numero uno s’intitola Il libro impossibile e sfoggia disegni e colorazione di Gigi Cavenago, ormai ex (purtroppo) copertinista della serie regolare. Rimandato per anni e uscito senza grande clamore, questo incipit conferma le impressioni delle Voci dell’acqua. Segnale debole, mestiere solido. E qualche scivolone. Una sintesi ben rappresentata dal racconto più lungo di tutta la serie, Il punto di vista degli zombi, con un Dylan comprimario ma pistolettante, una bella riflessione sulla morte e un protagonista giovane ministro britannico – con le fattezze di Tom Hiddleston – che a suo tempo non poteva non valere come un ammiccamento critico a Matteo Renzi. Fuori tempo massimo, oltre che spuntato così come il raccontino lampo Fumo che critica le misure di contenimento del vizio. I racconti di domani era stato presentato come un ritorno sulle barricate dello Sclavi più impegnato. Peccato che questo sia anche l’aspetto meno interessante, per non dire più banale, della sua scrittura.

In Della morte e del cielo spiccano ancora una volta i disegni, ora di Mari e Niro. Non mancano le chicche, a partire dall’episodio di apertura Come venne l’amore per il professor Tristezza, l’ottimo Lo straniero (UFO a Buffalora!) e l’epilogo lampo con Dylan sotto la doccia che inquadra tutto il volume come un sogno del Nostro. Brevi cenni sull’Universo e tutto il resto (disegni di Giorgio Pontrelli, colori di Sergio Algozzino) è l’anello più debole della catenina. Nell’ultimo racconto, Tigì, la vera protagonista ritornante dei sei volumi, l’anchorwoman Eliza Kazan, ci informa della morte (provvisoria) di Dylan Dog. Che infatti si fa vedere all’inizio del quarto, salta il quinto e torna in chiusa al sesto. Varie ed eventuali (disegni di Sergio Gerasi, colori di Emiliano Tanzillo) è una piacevole sorpresa. Tutti gli episodi sono, oltre che graficamente mozzafiato, ben scritti: Il treno, L’elastico, Oltre l’orizzonte, Porsche 356, I testimoni di…, con una menzione speciale per La macchina del tempo. Qui Sclavi riesce a farsi rileggere volentieri per gustarsi i dettagli e i vari livelli narrativi – il motivo per cui Dylan Dog è diventato un classico del fumetto. Ammazzando il tempo, volume cinque (disegni di Davide Furnò, colorazione di Furnò e Giulia Brusco) segna un’altra battuta d’arresto, con elementi ripetivi quali il donnone del Cadavere ingombrante, già visto nel Mondo di fuori (secondo episodio del Libro impossibile) e topos sclaviano almeno dai tempi della Bellezza del demonio (DYD 6, disegni di Trigo).

Domani andrà meglio è animato dal pathos mesto del migliore Sclavi fumettistico. Ritornano le riflessioni sull’intelligenza artificiale e sulle invasioni aliene, ritorna il babau simbolo del destino indifferente (nell’episodio L’orchera, dotato persino di due splash page), si conclude la parabola di Eliza Kazan… e Groucho, grazie al cielo, non c’è. Nel tassello più riuscito, Maschere, Tiziano ricorre in parte all’intuizione che ha fatto della Casa degli uomini perduti (speciale DYD numero 5) un autentico capolavoro. I disegni di Stano sono al solito pittorici e mai uguali a sé stessi, rispettando la regola d’oro che contrappose L’alba dei morti viventi a Morgana. Il Tiz cita Einstein per riportare a galla un po’ di meccanica quantistica (lui, Albert, che la odiava), sostenendo che la “realtà è un’illusione persistente”. Un po’ come questi racconti scritti sull’acqua, a volte semplici buchi, altre volte sassolini saltellanti che creano onde e increspature. La conclusione è una mise en abyme sferzante come l’ultima inquadratura di Twin Peaks – The Return. Tiziano si chiude, ci chiude, nei vani di Safarà, e butta la chiave. Che giorno sarà domani?

Il tornado di Valle Scuropasso, p. 91.

Una pessima annata (pure per Dylan Dog)

Sono uno di quelli che hanno ripreso a leggere Dylan Dog nel 2013. Uno iato di quasi vent’anni, col primo cedimento al giro di boa del numero 100. Ricordo ancora quanti mollarono la testata, un po’ per saturazione dopo la sbornia iniziale, un po’ perché sembrava che fosse Sclavi a volerlo, scrivendo un “albo definitivo” da lasciare sempre in fondo allo scaffale. Questo pur continuando a regalarci alcuni titoli notevolissimi prima del “Progetto” (n. 176), che segna per certi versi il punto di non ritorno sclaviano, nella sua ossessione ufologica che vale anche come un tentativo di eliminare Dylan una volta per tutte. Vedi anche il finale aperto, ovviamente “poetico” di “Ascensore per l’inferno” (n. 250), ultimo contributo del Tiz per il ventennale. Sia ben chiaro, Tiziano Sclavi è a mio avviso uno dei migliori scrittori italiani viventi, e la sua forza è data proprio dalla fragilità che trasmette sia ai personaggi, sia alla struttura organica, caduca delle sue storie e delle sue trame. Imperfezione, ma anche depressione profonda e una luce in fondo al tunnel tenue e incerta. Lo si vede a meraviglia in quello che è forse il suo capolavoro recente, “Dopo un lungo silenzio” (n. 362), che riprende “Il fantasma di Anna Never” inteso come manifestazione dylandoghiana dell’alcolismo e riesce a far piangere più volte nel giro di un centinaio di tavole. Senza bisogno di grandi effetti speciali. Duole constatare invece come “I racconti di domani” siano un tentativo inutile, reso persino antipatico dal marketing bonelliano (cartonati di 64 p. a quasi venti euro, zero distribuzione in edicola).

Ma nel 2013 ho ricominciato a comprarlo, DYD, recuperando addirittura in negozietti di seconda mano il meglio della produzione persa per strada. Le storie di Medda, qualche Barbato, tutto Recchioni. Perché era stato “Il giudizio del corvo” (n. 311) a fulminarmi e a motivare l’attesa per la nuova gestione, divisiva sì, boriosa senza dubbio, comunicativamente esagerata – il contrario di Tiz – ma almeno foriera di un cambio di rotta. Le storie isolate di Recchioni raggiungono livelli altissimi. A cominciare da “Spazio profondo”, graphic novel apripista, passando per “Il cuore degli uomini” (n. 342), fino ai suoi due albi (nn. 387, 399) del ciclo della meteora. Non entro nei dettagli della presunta rivoluzione recchioniana. Mi limito solo a sottolineare l’importanza, per la credibilità stessa del personaggio, di quanto compiuto col n. 342. Il vero, urgente ammodernamento di Dylan Dog è infatti la cancellazione di uno degli aspetti più antipatici del personaggio sclaviano anno 1986, cioè il suo lato maschilista per giunta giustificato dall’idea che lui, l’eroe romantico, tutte le volte s’innamori e tutte le volte venga mollato. Col “Cuore degli uomini” scopriamo le cose come stanno, cioè che anche a Dylan piacciono le botte e via, e che proprio quelle, da trent’anni, gli riescono a cadenza quasi mensile. Detto ciò, gli albi più belli della cosiddetta fase due portano le firme di Alessandro Bilotta, Ratigher e Fabrizio Accatino. E Bilotta, mediante gli speciali, è di fatto l’unico a portare avanti l’idea migliore, ma anche più difficile da realizzare, della gestione Recchioni, cioè una visione autoriale del personaggio secondo cui gli “universi paralleli” non sono definiti dal pensionamento o meno di Bloch, bensì dalla penna di chi scrive e dalla versione di Dylan Dog che l’autrice, o l’autore, riesce a tessere. Bilotta unica eccezione in questo senso insieme ad Ambrosini, e non è un caso che l’ultimo speciale (“La grande consolazione”), che li vede insieme e trasforma “Attraverso lo specchio” in un’opera aperta, sia straordinario.

Recchioni, e lo dico laicamente da lettore estraneo al tifo da stadio dell’ambiente fumettistico, è andato a sbattere contro il muro della sua promessa più grande: un ciclo “fine di mondo” e il “nuovo inizio” che coincide col gennaio 2020. Innanzitutto il ciclo della meteora, rimandato troppo e scritto a comando da una Paola Barbato (& co.) cui è stato solo concesso il contentino, in “Chi muore si rivede” (n. 398), di tirare le fila di alcuni suoi personaggi sparpagliati nell’arco di centocinquanta numeri e passa. Mossa di continuity così raffinata da risultare incomprensibile, anzi un boomerang che mette in evidenza da quanto tempo Barbato è considerata la nuova promessa di DYD, e quanto poco in realtà abbia fatto per sviluppare il personaggio. Pur rimanendo una sceneggiatrice di grande mestiere. E il mestiere, nel ciclo della meteora, si vede tutto, dimostrando come la gabbia bonelliana – 94 tavole al mese: un’enormità – possa ancora riservare sorprese e progetti ambiziosi. Oltre ai “migliori disegnatori italiani”, come recitava la pubblicità di Dylan Dog già nel 1986.

Dal n. 399, “Oggi sposi”, fino al n. 406 (“L’ultima risata”), Recchioni ha avuto otto mesi di tempo per dimostrare che la rivoluzione annunciata non era un bluff. Passi la boutade del matrimonio con Groucho, che da marito di un uomo vedo come una provocazione tesa a riempire un cratere all’interno del mondo bonelliano. Passi anche un finale copiato pari pari da Lars von Trier – ma anche il Tiz copiava, citando Umberto Eco nel farlo. E chapeau al bel numero 400 che, sulla scia di Apocalypse Now, taglia la testa a Kurtz/Sclavi. Il problema è che il “nuovo inizio” non è nuovo, e questo toglie qualsiasi credibilità anche al pathos di plastica del ciclo della meteora. Il nuovo inizio secondo Roberto Recchioni è in realtà un rimescolamento di carte.

Il “rilancio” di Dylan altro non è che una restaurazione ordinata. Recchioni prende vari elementi sclaviani, li depura da qualsiasi aspetto provvisorio o casuale e li integra con i propri contributi al “canone”. Fin dai tempi di John Doe “rrobe” ha dimostrato di essere un maestro nel pescare dalla scatola degli attrezzi dell’arte fumettistica, usando ogni figura retorica disponibile. Si pensi, di nuovo nel contesto dylandoghiano, al geniale retcon del clarinetto nella sua riscrittura dell’Alba dei morti viventi, che rimedia a una falla di sceneggiatura. Del resto, rileggendoli oggi i primi numeri di Dylan Dog sono pieni di incongruenze, in particolare quando emerge il tema del padre del protagonista. Con Recchioni al timone questo non succede. Peccato tuttavia che a volte la struttura disegnata a tavolino spicchi più della storia in sé. L’esatto contrario degli inciampi umani, troppo umani di Tiziano Sclavi.

Il mio giudizio di lettore è ovviamente influenzato da preferenze personali. L’idea di togliere di mezzo Groucho mi è piaciuta subito e ho ingenuamente creduto che il suo – persino doppio! – ammazzamento fosse definitivo. Così come la mia predilezione per Gnaghi, personaggio che non può reggere una serialità lunga, si è scottata nel numero 406. Ma il vero problema non è la spalla di Dylan, bensì il format stesso della testata. Dal numero 401 al 406 abbiamo assistito a una metamorfosi: da un Dylan effettivamente diverso, alcolizzato e barbuto (anche in senso metaforico), alla solita sbobba – ma con tutti i personaggini al loro posto. Ecco allora Bloch “papà” e soprintendente illuminato, Rania ex moglie (per evitare la sindrome di Martin Mystère), Mater Morbi che collima con Anna Never, Lord Wells fatto fuori in due tavole (Sclavi l’ha sempre detestato). Persino il mostro del dottor Hicks, dimenticato da Tiz e Mignacco alla fine del n. 14, beneficia di un repentino comeback al solo scopo di… vomitare Mana Cerace e schiattare. Tutto a posto e niente in ordine.

Tutto a posto, se mai ce ne fosse bisogno, ma a condizione che questa sia davvero la nuova strada intrapresa dalla testata. Sono sicuro che Recchioni tiene nascosto nella manica un buon asso per spiegare, prima o poi, cosa è davvero successo alla fine del n. 399, ma la verità è che nel corso di quest’anno la Bonelli ha fatto una scelta editoriale più eloquente di cento albi rivoluzionari non cantati da nessuno. Ha trasformato in bimestrale l’OldBoy, cioè la collana-scialuppa in cui la rivoluzione non è avvenuta e tutto si trascina come ai tempi della direzione di Marcheselli o Gualdoni. Questo vuol dire che invece di tre storie ogni quattro mesi, ne escono due ogni due, quindi dodici l’anno. Esattamente come la serie regolare. Quindi, mentre l’OldBoy riscalda la minestra – che evidentemente continua a piacere molto – la serie ammiraglia, invece di osare, propone un puzzle di elementi già noti. Che cambiano posizione quel minimo da far dire “così ha più senso”, ma non modificano l’immagine finale, quella della copertina del n. 407, ed è un’immagine di restaurazione totale. Si potrebbe obiettare che gli universi sono diversi e paralleli – un gioco che da sempre piace a Sclavi, per quanto pigro e dal fiato corto – però nei fatti abbiamo una testata che continua a produrre molto, forse troppo, “more of the same”. Probabile che questa situazione non si sarebbe determinata se la rivoluzione tanto attesa fosse stata tale e soprattutto premiata dalle vendite, che non si conoscono a parte l’exploit certificato dell’albo scritto da Argento e Piani.

Una pessima annata, quindi. Ora che Recchioni ha sparato le sue migliori cartucce e perfino il ritorno di Chiaverotti viene spacciato per un evento – lui, che a suo tempo Dylan Dog l’ha imbarbarito scrivendo a raffica per dare una mano a Sclavi – abbiamo un’impalcatura formalmente nuova a cui sono appese le facce di sempre. Un “nuovo Recchioni” all’orizzonte non si vede, e quel che è peggio si sta procedendo a pubblicare rimasugli di magazzino. Lo stesso Bilotta, interpellato su fb, non sapeva dell’imminente pubblicazione di “Una pessima annata”, in tutta evidenza scritto anni fa e aggiustato di recente per inserirsi nel nuovo corso. Ovvio, in ballo ci sono logiche industriali oltre che artistiche. Uscire tutti i mesi non lascia margine per rivoluzioni portentose, soprattutto col calo fisiologico dei lettori, ma annunciare grandi cambiamenti per poi limitarsi a qualche retcon e ad altri interventi cosmetici ha tutta l’aria di una presa in giro – per il lettore conservatore così come per quello avventurista e famelico di novità, svolte, cuori buttati oltre l’ostacolo. Dopo Il giorno della famiglia, Il giorno della marmotta.