Atene non ride

Porte del Kino Krokodil, Berlin Prenzlauer Berg, fine maggio 2023.

Nella buiezza delle ultime settimane in cui, pur standomene all’asciutto in Prussia, continuo a sognare piani inclinati di cemento armato su cui scorrono a singhiozzo milioni di metri cubi d’acqua lercia (stanotte un’orca m’ha saltato a piè pari in mezzo a un guado), in questo buiume che va accatastandosi sulle pessime notizie e le pessime pieghe cognitive prese dal discorso comune, più che pubblico comune, degli ultimi anni, in tutto questo un film. Che ero quasi sicuro non sarebbe uscito. E invece è uscito, ed è buio d’un buio però diverso, secco e dritto al petto.

Questo film è Sparta di Ulrich Seidl. Un film sulla pedofilia. Chi conosce Seidl sa, senza vedere una pellicola del genere, la brutta fazenda che rischia di diventare. Non lo fa, ed è il motivo per cui ne parlo qui. Insieme a Rimini, Sparta va a comporre l’affresco narrativo più convincente nei quarant’anni di carriera del cineasta austriaco. Questo non significa che esca radicalmente dal seminato di Hundstage o della trilogia del “paradiso” Liebe/Glaube/Hoffnung, ma sceglie un tono più gentile, e sicuramente più digeribile, per affrontare un tema tabù.

Vedere al giorno d’oggi quella sequenza sulla barca parigina di Sweet Movie (1974) di Dušan Makavejev, o anche solo la sottotrama con Bill Maplewood (Dylan Baker) in Happiness (1998) di Todd Solondz, suscita sentimenti analoghi alla visione di uno snuff movie o di un video terroristico con decapitazioni. Come ne giravano in rete vent’anni fa. Al netto di ovvie considerazioni etiche, è un fatto che il cinema, o più in generale il confezionamento delle immagini in movimento, sia ora più vincolato di quanto non lo fosse negli anni Settanta. Certo, nemmeno il rigurgito libertario di quel decennio ha prodotto solo pepite d’oro. Pur amando John Waters come classica valvola di sfogo, rivedere Mondo Trasho (addirittura datato 1969) con la sua scena iniziale che trancia la testa a una gallina è diventato improponibile. Molte delle provocazioni di allora sono invecchiate male, scadendo nello sciocco, nel superfluo o semplicemente nel noioso. Questo vale anche per una buona fetta della filmografia di Seidl, che si è sempre alimentata di celluloid atrocities ripulite all’uopo in quadri perfetti. La grande ambiguità di Seidl è data dall’ingerenza della messinscena in un contesto che vuole essere documentaristico. Il tutto meno raffinato, o forse solo meno furbo di Haneke. Da Seidl ci si aspetta la manipolazione.

Il modo in cui ci vengono date in pasto figure come quella di René Rupnik in Der Busenfreund (1997) o di Dorothee Spohler-Claussen in Spaß ohne Grenzen (1998) non lascia spazio a grandi interpretazioni. L’uno, un professore quasi ferreriano chiuso nel suo appartamento stipato di giornali raccattati, solo con l’anziana madre e la sua ossessione matematico-anatomica per i seni. L’altra, maniaca dei parchi a tema e dei ninnoli infantili, eppure incapace di un sorriso vero. Due facce della stessa medaglia ossessivo-compulsiva, spassosa certo, e non certo filmata a loro insaputa, ma di fronte all’obiettivo va in scena la ghiotta spettacolarizzazione di una neurodivergenza. Un approccio rodato sia con Tierische Liebe (1995), che mostra scene domestiche di amore tra animali e umani, suggerendo tra le righe la propensione alla bestialità, sia con Jesus, du weißt (2003), in cui viene esposto, quindi messo alla berlina, il cattolicesimo con la schiuma alla bocca. Un metodo che, ridotto all’osso e forse spogliato di qualsiasi colpevole intellettualismo, è stato adottato anni più tardi dal regista sassone Jan Soldat.

La prima infornata di film targati Ulrich Seidl reca sempre il marchio a fuoco di uno stigma, un mostrare giocoso e svergognato, tra il complice e il disonesto. Il protagonista del suo corto d’esordio Einvierzig (1980) è alto, alla lettera, un metro e quaranta, e malgrado il bel bianco e nero e il piglio barricadero l’umore generale ricorda di più Auch Zwerge haben klein angefangen (1970) di Herzog rispetto alla sequenza da groppo in gola di Amator (1978) di Kieślowski in cui il protagonista Filip Mosz (Jerzy Stuhr) gira un documentario incentrato sul collega disabile Wawrzyniec, interpretato da Tadeusz Rzepka. La situazione migliora quando Seidl prende in mezzo non le eccezioni, ma la regola: ecco allora il vecchio austriaco a caccia di mogli ceche in Mit Verlust ist zu rechnen (1992), i mariti seriali di donne filippine (Die letzten Männer, 1994), lo sfruttamento degli immigrati nella vendita dei giornali (Good News, 1990) o, banalmente, le fotomodelle (Models, 1998). Hundtsage (2001), che a suo tempo arrivò al Lido di Venezia come un ciclone liberatorio, fa confluire per la prima volta questo universo pulsionale e demente in una forma narrativa, corale, scandita da geometrie pre-wesandersoniane e insaporita da interni così borghesi da essere marziani. Canicola è Robert Altman in Mitteleuropa senza canzoni né pietà. A vent’anni di distanza, il personaggio ancora una volta ossessivo e querulo di Maria Hofstätter, con la sua parlantina sfiancante e la classifica dei supermercati, è assurto a figura mariana del cinema senza mezzi termini. Non ha nome, è finto, l’han scritto insieme Seidl e Veronika Franz.

Con Import/Export inizia una fase critica. La macchina da presa esce dai confini austriaci e flirta con lo sfruttamento. Inutile dire come un film seidliano ambientato per metà in Ucraina sia, a maggior ragione oggi, una visione che ci si può tranquillamente risparmiare. La trilogia su amore nell’accezione di carità, fede e speranza funziona solo in parte, cioè quando la butta in caciara (Glaube, girato quando le paure à la Houellebecq sull’Islam erano piuttosto diffuse). Liebe, che parla del turismo sessuale da un’ottica femminile, conferma quel che ci si può ben immaginare, e a Hoffnung manca lo scarto zanussiano capace di arrivare al sublime, e parlare davvero di morale, in un contesto prosaico come una colonia estiva. La piccola Austria di Seidl non è l’isola del Sacrificio di Tarkovskij. Semmai, è il labirinto di seminterrati e cantine tra il BDSM e l’hitlerismo nostalgico che si vede in Im Keller (2014). Imperdonabile nel dare spazio ai protagonisti di Safari (2016), negli ultimi anni Seidl si è sapientemente convertito in produttore e facilitatore per Veronika Franz (Ich seh ich seh, 2014) e la furia di Elfriede Jelinek nell’adattamento di Die Kinder der Toten (2019), che sembra un esperimento di Syberberg in forma compatta.

Böse Spiele, giochi crudeli, è sia il titolo di lavorazione di Rimini e Sparta, girati insieme, sia quello del montaggio che li fonde, presentato a Rotterdam come prodotto a sé stante. Il richiamo di questi Wicked Games (come da dicitura internazionale) ai Funny Games di Haneke è limpido ma depistante, visto che il doppio film di Seidl non ha nulla di metanarrativo o intellettualmente disonesto. Quando alla Berlinale del 2022 venne presentato Rimini, di Sparta non si parlò affatto. Tant’è che alla fine di Rimini c’è già la dedica all’attore Hans-Michael Rehberg, scomparso nel novembre del 2017, il cui ultimo ruolo è proprio quello del vecchio padre di Richie ed Ewald Scholz. Questo suggerisce anche il lasso di tempo, di fatto un lustro, che ha accompagnato la realizzazione dei due film. In Rimini, Ewald compare in una breve sequenza in Austria come il “fratello noioso” di Richie Bravo (Michael Thomas). L’unico rimando all’infanzia, più che altro mentale di entrambi, è la gara in triciclo improvvisata nel cantinone della vecchia casa di famiglia. Rimini è per Seidl un primo esempio di trasloco efficace fuori dal microcosmo austriaco: il fascino malinconico e laido della riviera in bassa stagione sembra quasi fatto per lui, un’inquadratura con le dita a rettangolo e via, manco lo scenografo deve inventarsi qualcosa. Nel 2022 Yassien e io ci siamo fermati cinquanta minuti a Pesaro col treno, siamo andati fino al lungomare e ci ha accolti la scritta di un vecchio albergo abbandonato, l’Hotel Sporting, trasformata con le bombolette in Hotel Squirting. Con l’aggiunta di un’indicazione geografica, Pussy Coast, e di una firma collettiva: Perineo Crew. Ecco, la Rimini di Seidl è tutta qui, più fantozziana che felliniana, tragicomica nel senso che è realmente tragica e realmente (a denti stretti) comica. Il cazzotto, in Rimini, resta in Austria ed è il padre nazista rincitrullito che riesce a far piangere nell’ultima scena evocando la mamma. In questo senso, Rimini è un film sull’Alzheimer molto più coraggioso di architetturine beneducate come The Father. È un film sul crollo, sul declino inevitabile ma penosamente ignorato, sui suoi scricchiolii e i suoi tonfi, sulla dignità e la compassione.

Se in Rimini vedere il vecchio padre nazi è uno choc, incontrarlo di nuovo in Sparta – alcune scene vengono riproposte pari pari – è quasi un sollievo. Perché stavolta il buio omega non interessa una figura di contorno, bensì il protagonista, Ewald (Georg Friedrich), impiegato in Transilvania presso una centrale che pare uscita dalla guerra fredda. La consueta perlustrazione impietosa dei luoghi da parte della macchina da presa va a sbattere contro una rapida scena casalinga, tutta gestita sul piano attoriale, in cui si vede il protagonista accendersi, dopo tanta apatia, appena a contatto con i nipoti in età scolare della fidanzata. Friedrich riesce a convogliare un senso di liberazione e leggerezza che ricorda Jean Vigo, ma al contempo è evidente che qualcosa stride. La crisi sessuale con la fidanzata senza nome (Florentina Elena Pop) non è dovuta al logorio della coppia. Quando lei si prova un vestito da sposa e lui resta in disparte tra l’esasperato e l’indifferente, il motivo di fondo è diverso dall’amore finito o da questioni di calcolo economico. Il problema è che Ewald si ferma in macchina davanti al campetto da calcio, e guarda. Va detto, e vale più come salvacondotto stilistico che come affermazione sociologica, che questo sguardo desiderante non si tramuta mai in azione da galera. Quello che si vede, quello che il film decide di mostrare è un’ossessione conscia, cronica ma con dei limiti autoimposti. Ewald finirà per creare un safe space per sé e – paradossalmente – per un gruppo di ragazzini, e lo chiamerà Sparta.

Gli accenni alla trama finiscono qui. A mo’ di metafora posso solo dire che contrariamente al passato, qui Seidl non ammazza in camera il coniglio, simbolo fin troppo palese di innocenza, che finisce scuoiato per spiegare a un bambino come si sta al mondo. L’approccio al tema resta frontale, senza sconti, ma le immagini mantengono un pudore, e una misura, senza i quali il film, più che essere “cancellato”, sarebbe semplicemente brutto. La scommessa vinta da Seidl, Franz e Friedrich consiste proprio nell’evitare il grottesco, il mostruoso, il carnale: registri già usati centinaia di volte per affondare le zampe nella cronaca nera o in qualche forma “elevata” di true crime. Qui il protagonista, una volta chiarito cosa lo muove, resta solo davanti a noi così com’è, col suo tunnel senza uscita, e noi lo seguiamo diligenti, ci manca solo la macchina da presa pedinante dei Dardenne, lo seguiamo diligenti nel suo vagare inventivo e inane, un Sisifo in Romania. Significativa, da questo punto di vista, la scena in piena campagna col suv di Ewald carico di bambini sotto la pioggia battente, che gira su sé stesso come una giostra. Sembra un calco dal film di Herzog coi nani.

Sparta è un film che gioca col fuoco. Lo fa davvero, molto più di pellicole come Mystic River, Capturing the Friedmans o il tremendo reboot di A Nightmare on Elm Street del 2010, e la lista potrebbe allungarsi con storie che usano il tema come un hashtag, un mero escamotage drammatico o spunto per riflessioni massmediologiche. Il rischio che corrono Seidl e Franz è quello di stimolare un’identificazione col protagonista, che pur agendo davanti ai nostri occhi per tutta la durata del film non pronuncia monologhi catartici, non fa promesse, nemmeno ci prova. In sostanza: non finisce a processo, nemmeno vittima del manipolo inferocito di padri (violenti coi propri figli) che provano a stanarlo. Ewald continua a muoversi, quasi favolisticamente, coprendo distanze imprecisate e lasciando, senza alcuna spiegazione concreta, la vita condotta fino a poco tempo prima. Che il suo vagare sia destinato al fallimento, e fondato sulla sabbia, è chiaro come il sole. Così come il fatto che lui sa di non avere alternative a questa fragilità strutturale che lo azzoppa da sempre. “Farà una brutta fine” – che non vediamo. Con una nonchalance che non ha nulla di provocatorio, Sparta ci lancia insieme al protagonista in un tunnel dell’orrore senza luce in fondo. Ewald prova ad addobbarlo, questo tunnel, come un luna park, ma non è un gioco, non è corto e sicuramente non è una gran bellezza. Spaß ohne Grenzen?

Nell’autunno del 2022, lo Spiegel ha pubblicato un reportage che accusa la produzione del film di sfruttamento di minori, sostenendo peraltro che le famiglie dei ragazzini ingaggiati non erano state sufficientemente informate sui contenuti di sceneggiatura. In pratica, hanno cercato di mettere Seidl sullo stesso piano, o quasi, di Leni Riefenstahl quando fece Tiefland (1940) cooptando un centinaio di persone sinti dai campi di concentramento. Il mutatis mutandis qui è di un certo peso, oltretutto nel film ci sono abbondanti dialoghi in rumeno che chiariscono cosa sta succedendo, ma è impossibile entrare nella polemica con dei fatti sensati. Seidl, ovviamente, si è difeso. Il siluro dello Spiegel ha provocato la cancellazione della prima del film a Toronto, dopodiché Sparta si è fatto timidamente vedere in uno sciame di altri festival, pur scansando quelli grossi.

Film abissale, prova attoriale maiuscola e coraggiosa di Georg Friedrich (già premiato a Berlino per Helle Nächte di Arslan, e presenza fissa del cinema germanofono dai tempi del primo Haneke), Sparta è almeno due cose. Un character study credibile e mozzafiato, senza le furberie cui ci ha abituato Seidl per decenni. E un luogo cinematografico strepitoso, un fortino improvvisato tra le rovine in cui si rumina la mitologia a suon di “molon labe”. Richie Bravo non c’è. Il conforto delle sue canzoni facili manca del tutto. A far ridere, o sorridere appena senza che nessuno veda, può servire solo il cartello pubblicitario “Analize Pork” che s’intravede nell’ultima inquadratura girata in un paesino rumeno. Sparta a un certo punto finisce, ma come recita l’excipit di American Psycho, “this is not an exit”.

Lungomare pesarese, primavera 2022.