zitti mai

Voi li conoscete i vostri privilegi? Io i miei sì. Tra questi annovero senza dubbio la chance, acchiappata nel 2015, di vedere How to Survive a Plague in un’aula magna della Humboldt, quella che sarebbe diventata la mia università. Conoscevo già il documentario, ma ad accompagnare la proiezione c’era un padrino speciale, vale a dire Peter Staley. Piansi come una fontana – lo ripeto spesso ma è così – e alla fine mi alzai con la mia maglietta nera da PLWHA sulle barricate e dissi a Peter quello che decine di persone continuano a dirgli ancora oggi, cioè che è un eroe. Poi lo rimorchiai per una passeggiata con pizza conclusiva nei pressi del Monbijoupark, con qualche amico, e a un certo punto dovetti scappare ché il cane chiamava. Questo un primo privilegio. Un secondo è quello di aver intervistato David France alla Berlinale 2020, quando ha presentato Welcome to Chechnya. Prima di parlare dei misfatti di Kadyrov l’ho ringraziato per come ha dato voce agli attivisti americani degli anni Ottanta e Novanta, a partire dall’icona Staley. Se non fosse per Staley, questo il messaggio cifrato, non sarei qui. Ma quella dei privilegi è un’altra storia.

Qui vorrei parlare di tre libri fondamentali per comprendere le reazioni alla pandemia di Hiv/Aids che imperversa, riconosciuta come tale, da esattamente quarant’anni. Sono tre testi divulgativi, leggibilissimi anche per chi non mastica i power point scientifici, con un difetto di base che è meglio snocciolare subito. Malgrado qualche accenno politicamente corretto, si ha l’impressione che al di fuori degli Stati Uniti si estenda un territorio nebuloso e leonino contrassegnato da nomi generici come “Africa”. Quella dell’americanocentrismo nella narrazione dell’Aids è una lacuna vecchia come il virus che va colmata solo e soltanto in prima persona, cioè col tentativo di fare alzare nei ranking – anche al di fuori dell’accademia – storie diverse, non solo anglofone e non solo centrate sui poster newyorkesi Silence = Death. È ovviamente un tema di soft power a stelle e strisce e di egemonia nell’affrontare l’immaginario pandemico fin dai tempi di An Early Frost e Parting Glances. I tentativi virtuosi in ambito audiovisivo non mancano, un po’ Vecchiali, un po’ questa miniserie svedese che fa impallidire It’s a Sin. Ma sul fronte dei memoir è difficile uscire dai confini statunitensi, perché altrove manca il mito. Quindi dobbiamo accontentarci di questi testi in cui la Francia appare per gentile concessione di Montagnier, 120 BPM e Act Up Paris (peraltro criticato), mentre l’Africa acquista un minimo di silhouette grazie alla storia horror del negazionismo di Thabo Mbeki. Un altro aspetto importante riguarda la presenza sparuta delle donne – con qualche eccezione di rilievo come Maria Maggenti: da approfondire – o delle persone trans*. I volumi che sto per citare sono usciti dalle tastiere di maschi bianchi, cis, wasp. Tutto questo non ci piace? Non ci basta? E vorrei anche vedere. C’è un sacco da fare, e solo chi si sente ai margini dei racconti altrui può farlo davvero.

Il motivo per cui scrivo questo articolo è la recente uscita dell’autobiografia di Peter Staley, Never Silent. ACT UP and My Life in Activism, Chicago Review Press. Prenderò in esame anche una vecchia lettura come Body Counts. A Memoir of Activism, Sex and Survival (Scribner, 2014) di Sean Strub, e lo straordinario volume di David France che reca il medesimo titolo del documentario ma, con le sue seicento e passa pagine, fa molto altro e molto di più: How to Survive a Plague. The Story of How Activists and Scientists Tamed Aids (Picador, 2016), già affrontato su questi pixel.

Strub, attuale sindaco democratico di Milford, è una colonna dell’attivismo LGBT+ americano. Esperto di fundraising, nel corso degli anni ha dato una mano a tutte le associazioni in prima linea e nel 1994 ha fondato POZ, rivista “impossibile” in quanto univa un approccio patinato al tema dell’Aids, proprio quando le morti a livello mondiale stavano toccando il picco. Lo stesso Strub ha visto la morte in faccia, con un nadir di un CD4 (in cifre: 1). La conta dei CD4 è il principale indicatore di un buon sistema immunitario. Dovrebbe stare sopra le 500 unità. È questa prospettiva a rendere preziosa la testimonianza di Strub, che nel 1995 si è persino sposato con una cara amica per garantirle la reversibilità dell’assicurazione sanitaria. Il miracolo scientifico del 1996 l’ha salvato per i capelli, e sulle pagine di POZ ha potuto monitorare la metamorfosi del discorso pubblico sull’Aids, sia da un’ottica scientifica, sia da quella della vita di tutti i giorni. Nel giugno 1997, POZ fu il primo medium americano – e probabilmente mondiale – a parlare di un nuovo trend, il barebacking.

David France è sieronegativo. Sia il documentario, sia il volume mettono in evidenza un metodo di lavoro certosino, quasi ossessivo, che si fa garante di una narrazione pressoché esaustiva. A mio modesto giudizio, e immodestamente credo che questo giudizio sia stato condiviso da Staley al momento di ideare il proprio memoir, France sbaglia nell’inserirsi troppo nel racconto, introiettandovi addirittura le paure – o le false certezze – relative alla contrazione del virus. La sua figura, nobilissima, è semmai quella di un Adso che raccoglie i fili della storia dopo troppi anni di silenzio e sottovalutazione. Infatti il documentario si è rivelato uno strepitoso grimaldello per riattivare l’attivismo e persino la ricerca scientifica in ambito Hiv/Aids, con l’introduzione della profilassi pre-esposizione, e il tomo rappresenta la migliore lettura possibile per orientarsi nel groviglio di quegli anni bui. France sceglie di concluderlo a Vancouver, nel luglio del 1996, quando furono resi noti gli esiti incoraggianti dell’introduzione di una nuova classe di antiretrovirali. E qui viene il bello.

Col suo libro, Peter Staley sceglie di appropriarsi della narrazione che lo riguarda. È come se uscisse dalle maglie – lusinghiere e puntuali – dei compendi a firma France per offrire di sé un’immagine senza filtri, a comincire da quello temporale. Per ovvi motivi di spazio, France non si spinge oltre il 1996. Ed è il medesimo errore, anche se dovuto alla pigrizia mentale, che compiono quasi tutti i prodotti di largo consumo che parlano di Hiv/Aids, scambiando la terapia efficace con la cura e quindi ignorando sia i significati profondi dello status undetectabile (viremia non rilevabile, ergo impossibilità di trasmettere), sia i mille altri aspetti di una pandemia ancora in corso, non più mortale solo per chi ha accesso ai farmaci e a servizi sanitari adatti. Staley non racconta i soliti quindici anni in forma di tragedia con lieto fine (tra mille virgolette), bensì azzarda un affresco quarantennale a tutto campo che diventa interessante proprio quando si spinge oltre il 1996 e instaura un dialogo tra il prima e il dopo.

Ex broker di Wall Street, “nell’armadio” fino alla diagnosi e oltre, Staley ha vissuto l’entrata in contatto con Act Up come una rivelazione. Non è un caso che il sottotitolo del libro ponga l’accento sull’Activism così come quelli di Strub e France ricorrono rispettivamente a “Survival” e “Scientists”. Per quanto non isolato, e non potrebbe essere altrimenti in un movimento rizomatico come l’Act Up newyorkese dei tardi anni Ottanta, Staley riuscì a diventare, parole sue, il poster-boy dell’attivismo sieropositivo, e una volta archiviata l’esperienza di Act Up ha sempre saputo trasformare in azioni concrete e ficcanti quel fuoco che brucia – facendo un male cane – in ogni attivista per i diritti civili. A guidarlo non è solo una mentalità pragmatica ed escoriante che può ricordare Bret Easton Ellis, ma anche e soprattutto un intuito, e un genio per la stoccata, che l’hanno fatto entrare nella storia e gli hanno salvato la vita.

A salvargli la vita, ad esempio, è stata l’intuizione che il dosaggio dell’AZT (zidovudina) prescritto dalle linee guida dell’FDA fosse sbagliato. Tant’è che prima interruppe la somministrazione, poi la riprese riducendola di un quarto e accostandola all’uso quotidiano di un altro antiretrovirale, il ddI (didanosina). Con questo paso doble che oggi si chiama duoterapia è riuscito ad arrivare al 1996 con un nadir mai inferiore alle 100 copie per millilitro cubo. E nel libro, un’onestà intellettuale specchiata gli fa aggiungere che alla sua sopravvivenza hanno contribuito in maniera cruciale anche la sua condizione economica privilegiata e l’ottimo rapporto con la famiglia. Il capitolo sull’AZT è importante perché smonta un cliché solidissimo – quello dell’antiretrovirale killer – e lo fa senza lisciare il pelo alle case farmaceutiche. La verità è che, se prendiamo il 1994, i farmaci a disposizione erano quattro, si sperimentava a tamburo battente e il motto di Act Up “drugs into bodies” andava di volta in volta applicato in maniera sensata e non ciecamente ideologica. Moltissime persone nello stadio terminale decisero di ricorrere all’AZT perché non avevano nulla da perdere, e così è nata la leggenda del farmaco brutto, sporco e cattivo (in termini di anemia, davvero cattivissimo). Qualsiasi monoterapia è destinata al fallimento, ma questo lo sappiamo oggi grazie alle sperimentazioni di ieri.

Quanto alle stoccate, vale la pena guardarsi con attenzione il video del suo discorso alla conferenza mondiale Aids del 1990. Un discorso rischioso che France riporta integralmente nel suo libro. Staley rischia perché, all’epoca, c’era ancora un presidente repubblicano sordo alla pandemia e, soprattutto, la linea rossa che separava i camici bianchi dalla marmaglia dei pazienti era accecante. Inoltre, Act Up si era fatta conoscere con azioni a volte estreme, lontane anni luce dalla sensibilità mainstream. Staley riesce a far saltare tutti in piedi, detta loro degli slogan da manifestazione di piazza e ha la sensibilità di concludere citando Vito Russo, che ad Albany due anni prima aveva pronunciato parole definitive sulla crisi dell’Aids e sulla necessaria risposta dal basso. Cionostante, la stella di Staley divenne incompatibile con la mancanza di centro di un’organizzazione come Act Up, tant’è che la sua successiva zampata andò a segno con un altro acronimo. Staley esce dalla Aids Coalition to Unleash Power e co-fonda TAG, Treatment Action Guerrillas (poi rinominato Group per esigenze di fundraising).

Staley tells it like it is. Per esempio, accredita al Dr. David Barry l’intuizione geniale della terapia triplice, fissa al febbraio 1996 in quel di Washington il momento in cui si capì che la strada era imboccata (e le lacrime di Spencer Cox alla conferenza, sentendo parlare del ritonavir, sono anche le nostre), spiega come il test per la carica virale iniziò a essere usato su larga scala solo a partire dal 1995. Se si pensa che il test per l’Hiv è stato introdotto solo nel 1985, diventa lampante come in assenza di strumenti che oggi diamo per scontati in quegli anni si andasse veramente a tastoni, ma questa è piuttosto materia del libro di France. Staley si diverte soprattutto a raccontare la sua raffica di scopate anni Ottanta, e vede sotto questa lente – cioè quella dell’invecchiamento, della rabbia da lipodistrofia, dell’uscita dal mercato – la sua successiva dipendenza dal crystal meth, che gli ispirò un second coming come attivista di punta a inizio millennio.

Never Silent si spinge oltre le consuete frontiere dei discorsi sull’Hiv/Aids, perché è la storia di una dipendenza positiva. Quella dall’attivismo, costosissima in termini di risorse e di tempo ma impagabile agli occhi del progresso sociale. Staley muore e rinasce continuamente tra le pagine del suo libro: a metà anni Novanta vaga per le conferenze con addosso la frustrazione di essere stato una meteora, ma sa comprendere al volo ogni cambiamento di fase. Ecco allora la sua campagna shock contro quello che oggi chiameremmo chemsex, poi la creazione del sito aidsmeds.com (fagocitato dieci anni dopo dal poz.com di Strub, suo periodico partner in crime), e ancora la rinascita grazie al documentario di France, la lotta – tuttora in corso! – per un’introduzione equa e accessibile della PrEP, e infine il Covid. Sempre in prima linea, e sempre più vicino al suo obiettivo originario, che era quello di diventare politico di vaglia – o almeno consigliere del presidente.

Su questo sfondo si staglia una delle sottotrame più interessanti del volume, vale a dire i rapporti con Fauci. Anche il “buon dottore”, come lo chiama ironicamente Staley a un certo punto, è sulla piazza da quarant’anni, sempre in posizioni di potere – e spesso in contrasto con movimenti grassroot come Act Up. Staley ha l’intelligenza di evitare sia l’agiografia, sia la demonizzazione di questo personaggio assurto a gigante negli ultimi due anni, e trova il coraggio di andare sul personale dedicandogli l’ultimo capitolo. Sono righe ancora più stimolanti del capitolo-scoop sulla travagliata lavorazione di Dallas Buyers Club, in cui Staley avrebbe dovuto fare un cameo e ha invece funto da consulente salvifico. Ebbene sì: il filmone etero sull’Aids, con fior di Oscar (anche a un maschio cis che veste panni trans*) all’inizio grondava negazionismo.

“I’m amazed I’ve lived this long”, scrive Staley nelle ultime righe di questo libro che nelle sue intenzioni dovrebbe rimanere un unicum. Lo spero anch’io, perché ha le carte in regola per diventare il Night of the Hunter dell’attivismo LGBT+. Preferisco però chiudere riportando l’excipit di How to Survive a Plague, uscito dai polpastrelli di David France. È una conclusione su cui si può discutere, ma proprio per questo è bella e commovente. Siamo alla conferenza di Vancouver nel 1996: “A man I did not know put his hand on my cheek, startling me. He turned my face toward his. He was perhaps in his mid-twenties, blue-eyed and radiant. He didn’t speak. With a thumb, he wiped my cheeks, then kissed me on the lips, the kiss that Pericles gave Aspasia to awaken the Golden Age. It was not over. It would never be over. But it was over” (p. 509).

safer love


Leggendo How to Survive a Plague di David France (Picador, 2016) mi sono imbattuto in un documento risalente ai primi anni dell’Aids. Si tratta di How to Have Sex in an Epidemic, libercolo di quaranta pagine spillate a cura degli attivisti Michael Callen e Richard Berkowitz, col contributo scientifico del dottor Joseph Sonnabend. Al link soprastante potete scaricarlo in pdf e leggerlo con gli occhiali di oggi. Spoiler necessario per concentrarsi su tutt’altro: è il primo pamphlet che consiglia l’uso del preservativo per arginare l’epidemia.

A France devo la visione di un documentario candidato agli Oscar quasi dieci anni fa, tra i migliori a raccontare lo scoppio dell’epidemia in America e la reazione politica dei pazienti, che sotto l’egida di Act Up riuscirono a fare egemonia culturale e a ottenere risultati concreti. Ogni volta che lo vedo zigo come un cinno. E nel 2015 ho avuto il privilegio di vederlo a Berlino in un’aula universitaria della HU, in presenza di Peter Staley. A fine proiezione mi alzai, mostrai la mia maglietta da attivista, gli diedi dell’eroe, gli attaccai bottone a fine evento e trascorsi la serata con lui e alcuni amici a zonzo in piena primavera. Staley appartiene a quella generazione di attivisti e PLWHA che ha visto la morte in faccia, ha saputo reagire ben convogliando la rabbia e la paura e che, dopo il 1996, con l’introduzione della terapia efficace, ha resistito anche alla cosiddetta sindrome del resuscitato. Non solo. Senza Staley, il discorso sulla PrEP in America non sarebbe maturato in tempi così rapidi. E ancora oggi è sulle barricate, magari su instagram con un bicchiere di vino mentre conversa di covid insieme a Fauci, o tramite le colonne di un giornale da cui lancia il progetto vaccinale Pepvar. Un vissuto americanissimo il suo, d’oltreoceano anche in senso metaforico per sofferenza accumulata, stress psicofisico e previdenza di lusso.

E tutto americano è anche il tomo di France, uscito a quattro anni dal documentario e con lo stesso titolo. Ma con respiro storico e scientifico – pur in un’ottica divulgativa – molto più ampio. Sono seicento e passa pagine in carattere mignon, novanta delle quali di note. Dentro c’è tanta narrazione, come si suol dire, ritorna l’agiografia di Staley dai toni feuilletoneschi, ma soprattutto emergono sfumature, e sbavature, inevitabilmente restate sul pavimento della sala di montaggio del film. L’autore ha vissuto quegli anni da giornalista e da giovane gay in una New York devastata dall’insorgere dei casi di sarcoma di Kaposi e rare polmoniti. E come giornalista con grande attenzione alle fonti, e mirabile tenacia nel ricostruire gli eventi incrociandoli col proprio diario, France offre ritratti cubisti delle persone che hanno fatto la storia dell’Aids in America. Larry Kramer, carismatico, strillante e umorale, Staley broker “nell’armadio”, la gelida ambizione del dottor Fauci e le sue iniziali cantonate in tema di prevenzione, le piccinerie del dottor Gallo in lizza sia con Montagnier, sia con l’onestà intellettuale. Per chi non ha vissuto quegli anni sulla propria pelle è importante sapere che il test hiv, introdotto nel 1985, era tutt’altro che preciso (colpa di Gallo, che resta tuttavia un genio della ricerca), veniva evitato come la peste e che per orgoglio nazionale le autorità statunitensi fecero di tutto per ritardare l’approvazione di quello sviluppato dall’istituto Pasteur. Ce n’è per tutti, anche per gli eroi di questa nerissima fiaba proppiana. Basti dire che Act Up, con le migliori intenzioni, si spese per accelerare l’approvazione di farmaci come l’Azt, nocivi nei dosaggi previsti all’epoca. Oltre che insufficienti da soli. Ma questo lo si sarebbe capito, coi tempi della scienza, solo anni dopo, con la scoperta di una nuova classe di antiretrovirali e il lancio della teoria di combinazione che tuttora salva vite e restringe sempre più lo spread tra sieropositività e sieronegatività.

Con gli occhi di oggi è sempre dietro l’angolo la tentazione di confrontare le due pandemie in cerca di analogie e lezioni utili. In termini scientifici non mancano i punti di contatto, ma sul piano sociale e attivistico sono due pianeti di galassie diverse. Fino al 1982 quella che oggi è nota come Aids andava sotto il nome di Grid (Gay-Related Immune Deficiency) e in quanto tale si è fatto di tutto per spazzarla sotto il tappeto. A peggiorare la cosa era la misteriosità della nuova sindrome, tant’è per anni circolarono ipotesi diverse sulla sua origine. Prima di isolarne il virus e di studiarlo, una teoria sosteneva persino che lo stato immunodepresso derivasse da un’eccessiva esposizione allo sperma. In altre parole: che l’orgione degli anni Settanta avesse davvero generato una sorta di contrappasso bigotto. E in questo preciso contesto diventa interessante leggere How to Have Sex in an Epidemic. Partendo dalla fine.

La festa che sono stati gli anni Settanta è finita. Queste due pagine sull’amore arrivano in coda, addirittura interpolate all’ultimo momento. Il libello si apre con due citazioni in esergo (Susan Sontag, Hal David), prosegue con una prefazione disarmata del dottor Sonnabend e si lancia in un lungo elenco di attività sessuali proponendo metodi di riduzione del rischio. Ingenuamente, si raccomanda un “medically safe sex” oggi relativizzato dall’aggiunta della “r”. A pagina 15 compare per la prima volta la parola “rubber”, goldone, destinata a ripetersi a iosa – e a riscuotere un immediato successo, trattandosi di un sistema di prevenzione a basso costo. Al quale nessuno aveva pensato prima. Per frenare cosa, non si sapeva esattamente. Tant’è che il libricino di Callen e Berkowitz prende ossessivamente di mira il citomegalovirus, riscontrato in moltissimi casi.

Stampato a spese degli autori (e grazie a una colletta tra i pazienti di Sonnabend), il testo era stato concepito senza quest’ultimo capitoletto incentrato sulle emozioni. Le prime righe dei “pensieri conclusivi” ricordano il mottetto abrasivo che chiude Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971, occhio a 9’30”) di Rosa von Praunheim, quel “fuori dai cessi pubblici, tutti in strada!” che dieci anni prima aveva suonato il gong per il movimento LGBT tedesco occidentale. E al di là di alcune forse inevitabili cantonate giudicanti, il tentativo di introdurre (o riscoprire) l’etica nel sesso tra maschi è l’unico elemento concettuale che rende il libretto leggibile ancora oggi. Non come un monito, bensì come un appello accorato all’I Care, alla filosofia della cura. Verso sé stessi e gli altri. “Maybe affection is our best protection”.

Voltando pagina, si arriva all’ultimo capoverso che riporto di seguito. Quale che sia l’epidemia o la pandemia, la risposta sociale sull’onda di decisioni informate e di una limpida assunzione di responsabilità rimane la via maestra per uscirne insieme.