like a matador in the fog

Tatuaggio di A.J. (Noel Clarke) in Heartless (2009) di Philip Ridley

Questo mese è morto uno dei miei amici più cari. Il post di aprile potrebbe anche chiudersi qui, ma ho pensato di riversarci dentro qualcosa di bello e inatteso, una scoperta fatta per caso qualche settimana fa. Philip Ridley ha – timidamente – ricominciato a scrivere narrativa. Non si tratta di una novità assoluta. I primi segnali in questo senso risalgono al 2016, mentre è del 2021 (dopodiché, silenzio) un racconto, Sunday, inserito in un’antologia dal titolo Mainstream – con “main” barrato – curata da Justin David e Nathan Evans e uscita per il piccolo marchio Inkandescent, “by outsiders, for outsiders”. Davvero un’orecchia annidata in prati spelacchiati.

Ridley, nato (forse) nel 1964, (forse) nel 1957, sicuramente ancora vivo e scalciante, è emerso come una buriana arcobaleno nei tardi anni Ottanta. Dopo gli studi artistici ha pubblicato un primo racconto nel 1986, Embracing Verdi, subito seguito dal bellissimo Leviathan (1987). Entrambi i testi, che coniugano una sensibilità queer ad ambientazioni proletarie londinesi, quasi sempre l’East End delle Docklands quando i grattacieli del Canary Wharf erano ancora in costruzione, rientrano in un macrofilone britannico che andava sotto il nome di Rinascimento. Voci nuove attente al sociale, contrarie al thatcherismo e allegramente mascalzone nella loro difesa dei diritti civili. Confondendo i piani mediali, il timbro di Ridley oscilla da sempre tra l’amarezza di Terence Davies, lo slancio pop di Jimmy Somerville e la veracità del primo Kureishi. Con occhi odierni, il suo mondo è un po’ invecchiato. Troppo binario, si direbbe, nostalgico di drammi “kitchen sink”, antiquato nel suo immaginario da liberazione frocia con le stampe di Tom of Finland. Forse è questo il motivo per cui da quasi vent’anni Ridley non si legge più. Nei suoi racconti, “queer” vale ancora come un’arancia meccanica.

Eppure, trentacinque anni fa Philip Ridley emerse come un colosso dalle acque della Manica non certo in quanto scrittore gay. Nella sua eterogenea produzione, la narrativa “per adulti” occupa un segmento relativamente piccolo nonché limitato ai primi anni. Il suo romanzo di debutto, Crocodilia (1988), rientra senza dubbio nella letteratura queer ed è anzi molto esplicito per l’epoca. Già con In the Eyes of Mr Fury (1989) l’attenzione ai corpi e alla sessualità cede il passo a un immaginario gotico e favolistico che rappresenterà la vera forza dell’autore. Un alveo la cui espansione è evidente anche nella raccolta di racconti Flamingoes in Orbit (1990). Trent’anni fa, in Italia, Ridley usciva per Mondadori spesso tradotto da Angela Ragusa. Fenicotteri in orbita ebbe un tale impatto tra i lettori giovani da meritare persino un’edizione mass market (“I miti”, pochi spicci e copertine metallizzate). Anni apicali per Ridley, con un fuoco di fila di libri – per adulti e ragazzi -, i primi, straordinari testi per il teatro e addirittura un film come regista, The Reflecting Skin (1990), girato in Canada, che entrò di volata nella graffa delle pellicole di culto.

Maestro dello straniamento e della “luce nell’ombra”, Ridley si è fatto un nome non certo grazie al rimasticamento gay di situazioni vicine ai film di Mike Leigh – in Embracing Verdi latita un motociclista vestito in pelle nera, ex amante del padre morto del protagonista – bensì sulla scorta di un perturbante popolare e atavico. Ecco allora le marionette che appaiono in In the Eyes of Mr Fury, tanto il britannicissimo e violento Mr Punch quanto un diavolo con le zanne gialle, le balene cosmiche di Leviathan osservate da due ragazzi abbracciati, coccodrilli e iguane a iosa, spesso solo evocati, il “feroce Iellagel” del romanzo eponimo per ragazzi, in originale Mighty Fizz Chilla. Facendo perno su una biografia misteriosa – il famoso anno di nascita che nessuno conosce davvero – e su un atteggiamento schivo degno di Tiziano Sclavi, Philip Ridley a cavallo degli anni Novanta si qualificò come una sorta di Tim Burton queer capace di fondere visceralità e poesia adolescenziale.

Una nota pizzicata a meraviglia al tempo, ma ormai lontana dalla sensibilità diffusa. Tant’è che nel 2016, con la riscrittura di In the Eyes of Mr Fury, Ridley ha cercato di salvaguardare la freschezza dei suoi testi. Significativo, da questo punto di vista, il profondo rimaneggiamento di Flamingoes in Orbit, la cui versione attualmente sul mercato sfoggia dieci racconti invece dei tredici del 1990, tra cui due con titoli nuovi, uno riscritto (Another Story, ex The Barbaric Continuity, l’unico che parla di Aids) e due precedentemente usciti in solitaria nel corso degli anni Novanta, Alien Heart e Wonderful Insect. Sunday (2021) è il primo segnale di una ripresa narrativa dopo anni di ripensamenti.

Come scrittore, Ridley è soprattutto noto grazie alla sua sterminata produzione per ragazzi, che gli valse il titolo di nuovo Roald Dahl. Sono libri, questi, a partire da Mercedes Ice e Dakota of the White Flats, entrambi del 1989, che non necessitano di alcun rimaneggiamento. Classici nati, tant’è che Dakota delle bianche dimore uscì quello stesso anno per Salani, tradotto da Donatella Ziliotto. Oltre alla già citata Ragusa, i traduttori che per una quindicina di anni si sono ottimamente cimentati con Ridley sono Cecilia Veronese, Matteo Colombo e Laura Spiteri (altri ne dimentico, altri mi scuseranno). Nell’aprile del 2005, per un sito di recensioni che non esiste più (corpo12, collegato alle ancora vispe edizioni END di Aosta), scrissi queste righe su Krindlekrax: “Epopea di via Lucertola, dove la palla del bullo di turno fa da-boing e spacca le finestre, l’insegna dell’osteria fa iiiik e il tombino fa ku-clunk perché nelle fogne passa Krindlekrax, il coccodrillo gigante. Ruskin Scheggiolo è un bambino dal corpo gracile e il viso coperto dagli occhiali, roso da ambizioni eroiche. Ordinaria amministrazione nell’universo di Philip Ridley: gli adulti sono difettosi e patetici, i bambini reggono il mondo sulle loro spallucce, i mostri divorano solo chi ha paura e le strade sono quelle povere di un sobborgo londinese vasto come la Terra di Mezzo. La periferia sognata degli angeli (altro che putti: al massimo l’Eros amico di Pollon), dove le pezze al culo non sono vestiti di scena. Philip Ridley ha la letteratura per ragazzi nel sangue e la scodella con una precisione che sfiora la manualistica: ogni personaggio ha le sue battute, i suoi tic, gli eventi ritornano con piccole variazioni, l’happy end è di rito ma ha il retrogusto della favola nera, dove la morale (morale?) porta con sé anche una iniezione di dodici cc di inquietudine. Nei libri di Ridley ognuno ama chi gli pare, il passato incombe e non c’è esorcismo che tenga, la morte non è mai apparente e la famiglia è un nido raffazzonato di serpi dove l’amore non sempre si schiude. Tutto accade di notte, quando i bambini bravi sono a letto. A innescare il meccanismo perfetto della narrazione basta la curiosità che svezza il gatto e quel coraggio senza macchia che chi cresce può solo sognarsi. Di giorno, a occhi aperti. Ricordi dolorosi di quando si era più grandi da piccoli”. L’ultimo suo romanzo per ragazzi, Zip’s Apollo, risale al 2005.

Con l’eccezione di The Reflecting Skin, la filmografia di Ridley è meno nota della sua produzione letteraria. By outsiders, for outsiders anche lei, tant’è che l’apparizione on line del suo primo corto Visiting Mr Beak (1987) va considerata un miracolo. Idem per The Universe of Dermot Finn (1988), un gioiello che vidi per la prima volta grazie alla copia di una copia di una copia (matrioska ad infinitum) su VHS. Più accessibile, anche perché di facile collocazione nella tassonomia dei generi, The Krays (1990) di Peter Medak, su sceneggiatura di Ridley che pare iniettare il tema cronenbeghiano / priestiano dei gemelli in ambito gangster-cockney. Al solito bizzarro, ma fallimentare al botteghino e tra i critici, The Passion of Darkly Noon (1995) con protagonista Brendan Fraser, pendant del Viggo Mortensen altrettanto giovanissimo che si vede in The Reflecting Skin. Dopo uno iato di quattordici anni Ridley è tornato dietro la macchina da presa nel 2009 per un piccolo film londinese, Heartless, scrivendo anche le canzoni. Questa versione “Eastender” di Faust, amara, graffitata e incappucciata, vale come un ulteriore biglietto da visita per l’universo di Ridley. Solo quando è buio pesto, questo il messaggio, si vedono le stelle. Tra le molotov e le scintille mefistofeliche di questo film senza speranza si muovono tre sagome prelevate di peso dal cinema di Mike Leigh: Timothy Spall, Eddie Marsan e la strepitosa Ruth Sheen. Un ultimo whimper cinematografico da parte di Ridley, quando ormai il bang di Riflessi sulla pelle era acqua passatissima.

La produzione teatrale di Philip Ridley meriterebbe un saggione a sé stante. Dal punto di vista quantitativo è il peso massimo della sua bibliografia allargata, inoltre il medium del teatro – meglio se fringe – rappresenta la sintesi perfetta del talento dell’autore per i dialoghi, del suo genio nel mettere in scena i turbamenti adolescenziali e della sua tendenza, già visibile nei romanzi e nei racconti, a racchiudere la narrazione tra poche pareti, per poi concluderla con una battuta che fa spegnere le luci. Parimenti suddivisibile in testi per adulti e per ragazzi, con l’aggiunta di monologhi e altre brevi pièce d’occasione, il teatro di Ridley inizia col botto nel 1991 con l’incubo infantile The Pitchfork Disney, subito seguito dal romantico The Fastest Clock in the Universe (1992). A volte rappresentati anche in Italia, i moltissimi lavori teatrali di Ridley sono l’ossatura vera del suo lavoro autoriale. Un esempio per tutti: il dramma Mercury Fur (2005), a suo tempo considerato scandaloso.

Insieme a Nick Bicât, autore della colonna sonora di Darkly Noon e Heartless, Ridley ha messo in piedi anche un progetto musicale, Dreamskin Cradle, con tanto di album cantato da Mary Leay, Songs from the Grimm (2014). Su Spotify, tanto per fornire un esempio, si trovano solo due pezzi e gli ascoltatori mensili del gruppo – per quanto significativo possa essere questo indicatore algoritmico – ammontano a 11 (undici). I bei tempi di Brokenville e Vinegar Street sembrano quindi finiti da un pezzo per lo scrittore britannico dalla testa tonda, alla moda quando c’era John Major e la Brexit era uno scenario impensabile. Motivo di più per ordinare, meglio se direttamente da Inkandescent, il volumetto contenente, in chiusa, il racconto Sunday. Intrise di un senso attanagliante di decadenza fisica e mentale, queste dieci pagine originali segnano un ritorno sghembo alle idiosincrasie stilistiche e culturali che fanno di Ridley uno scrittore imprescindibile. Nell’afa – molto moderna – di una Londra raccontata da un narratore inaffidabile vediamo evocare piogge di iguane, pappagallini come rane bibliche (peraltro destinati a fondersi), vecchi film in bianco e nero e, in pieno stile Ridley, la figura salvifica di una madre. Leggendolo, e rileggendolo, mi è tornato in mente Benediction (2021) di Terence Davies, biografia tristissima del poeta e soldato Siegfried Sassoon che si conclude con una poesia non sua, bensì di Wilfred Owen: Disabled. Autori che Ridley cita nel primissimo racconto di Flamingoes in Orbit, ora intitolato The Tooth of Troy Flamingo. Come mai? Perché leggendo Sunday ci s’imbatte, nelle parole di Ridley, in “oh, a glimpse of that old grit and glamour, faded now, but still eye-catching, like a matador in the fog”.