wishlist immaginaria

Philip Ridley non pubblica romanzi dal 2005. Questa lista di libri che non esistono ma sarebbe bello se esistessero non può che cominciare con l’autore di Crocodilia, Gli occhi di Mr. Fury e Vinegar Street, personalità morrisseyana ed eclettica che in termini quantitativi continua a dominare i miei scaffali di narrativa. I suoi film, da The Reflecting Skin (1990) a Heartless (2010), sono coraggiosi e disturbanti, ambientati in un mondo fatto di minacce, perversioni, gioventù e bellezza selvaggia. Oggi si direbbe queer. Ridley ha la rara capacità di calarti in questo mondo con un’inquadratura, un paragrafo, due battute d’un copione. Negli ultimi anni si è dedicato solo al teatro, e annualmente pubblica una nuova pièce con la puntualità d’una Nothomb. Alcune (The Pitchfork Disney, Leaves of Glass, Feathers in the Snow) sono straordinarie, ma senza l’esperienza diretta della performance manca sempre qualcosa. Sul fronte letterario, Ridley ha pubblicato molto per un pubblico giovane, e il suo ultimo romanzo Zip’s Apollo è per ragazzi. La speranza che torni a scrivere letteratura scapestrata e scapigliata è l’ultima a morire.

Nel 2017 m’incaponii per portare in Italia Thomas Melle, l’autore di Die Welt im Rücken (Rowohlt). Invano. Già pubblicato senza fuochi d’artificio nel 2015 da Fandango (Sicario, or. Sickster, trad. Fabio Lucaferri), Melle è uno di quegli autori che meritano una seconda chance. Oltretutto, bisogna prenderlo quando è in buona. Die Welt im Rücken è un testo anfibio, tra autobiografia e visione allucinata, che parla di bipolarità. La sua. Certi brani mi fanno piangere a comando. Anche Melle è ormai principalmente autore teatrale, e ogni tanto traduce dall’americano. 3000 Euro è un altro suo ottimo romanzo, ancora inedito in Italia, ma Il mondo in groppa farebbe sfracelli con la giusta promozione e la presenza magnetica dell’autore, che non sai mai se ti vuole abbracciare o mollarti un cazzotto. Mi piace pensare che abbia un capolavoro in canna.

Cronenberg dovrebbe tornare dietro alla macchina da presa proprio quest’anno, con un vecchio script à la body horror e il corpo allenato di Viggo Mortensen (peraltro già protagonista del primo lungometraggio di Philip Ridley). La notizia è buona, ma lo è anche lo strano secreto letterario che ci ha propinato poco prima di Maps to the Stars, Consumed (2014). In molti casi, il passaggio alla letteratura da parte di cineasti famosi è poco spettacolare se non marginale (vedi Fountain Society di Wes Craven), ma in Consumed emerge il lato più chirurgico e accademico di Cronenberg, anche se la trama sovraccarica sembra a tratti un bloc notes con spunti e suggestioni – a cominciare dalla Corea del Nord, in pieno hype crescente prima della presidenza Trump. Una seconda prova sarebbe un evento, altro che Tarantino transmediale.

Un appello a Iperborea. Il norvegese Erlend Loe ha alle spalle una produzione altalenante, ma almeno due romanzi con protagonista Andreas Doppler, Vita con l’alce (trad. Cristina Falcinella, 2007) e Volvo (trad. Giuliano D’Amico, 2010), sono da antologia per i tocchi surreali e amabilmente nerd. Da alcuni anni non si traduce più nulla, sebbene l’elenco dei romanzi, a detta di wikipedia, sia in crescita. Che si traduca! Discorso più tristo per il finlandese Kari Hotakainen, autore tra l’altro di Via della Trincea (2009) e La legge di natura (2015), entrambi tradotti da Nicola Rainò. Sembra fermo, Kari, speriamo non sia così.

L’americanissimo (di provincia) Mitch Cullin rischia di passare alla storia come un pony monotrucco, grazie all’indimenticabile A Slight Trick of the Mind (2005, tradotto da Giovanna Scocchera per Giano). Il precedente Tideland (2000, portato sullo schermo da Terry Gilliam) lo colloca automaticamente nei pressi di Philip Ridley per immaginario e tensioni sessuali latenti. Con la differenza sostanziale che Cullin è meno ossessivo, buio, e ha saputo affrontare il proprio orientamento sessuale con discreti risultati in UnderSurface (2002). Da molti anni non si fa sentire, e gli ultimi progetti lasciano a desiderare. Un peccato, perché con Trick ha dimostrato di saper rimasticare un mito altrui (Sherlock Holmes) senza cadere nel mero parassitismo.

Bini Adamczak l’ho tradotta nel 2018 per Sonda, il mio editore del cuore da quando ho cominciato a fare seriamente questo lavoro. Il suo libretto sul comunismo raccontato ai giovini è un grimaldello pazzesco, che prima ti dà uno zuccherino – con tanto di illustrazioni – e nella seconda parte si tuffa in un’argomentazione alta, nient’affatto adatta a giovini lettrici, tanto complessa quanto vibrante. Bini è comunista, e malgrado questo aggettivo sia ormai fuori dal tempo e dallo spazio, riflette una fede ideale ancora capace di generare contenuti affascinanti, motivanti. Belli. Sono anche convinto che questo suo approccio politico nel senso profondo del termine, da agit-prop instancabile, troverebbe una chiave congeniale in ambito lgbt+. Da bini mi aspetto un pamphlet sull’identità trans* di quelli che ti entrano sotto la pelle e te la cavano.

Sempre Sonda, editore del cuore non a caso, diverso attivismo. Doglands (2011) di Tim Willocks, tradotto da me l’anno seguente, è forse il libro che amo di più tra tutti quelli che ho riscritto in italiano. È antispecista senza il ditino alzato, una storia di cani che va oltre l’aspetto favolistico o da novella esemplare. Piacerebbe anche a chi legge volentieri storie di gatti o gabbianelle. È universale, mozzafiato, empatica, e l’autore vi infonde il respiro epico e hard boiled di altri suoi romanzi. Purtroppo, il seguito annunciato anni fa deve ancora vedere la luce. DogLines dovrebbe chiamarsi, strizzata d’occhio a Chatwin nel nome della libertà. Noi si aspetta (poco) pazienti.

Se c’è un autore italiano che mi manca, in forma di libro, anche se non è quello il suo medium principale, questo autore è Spiro Scimone. Insieme a Francesco Sframeli ha fondato quasi trent’anni fa una compagnia teatrale che va esperita, come tutte le compagnie teatrali, a teatro. Han pure fatto un film, Due amici (2002), gradevole bizzarria nel panorama cinematografico nostrano. Al contrario di Ridley, però, i testi scarni di Scimone, i suoi ping pong laconici e lapidari rivivono sulla pagina acquistando un’autonomia insperata. Beckett? Diciamo Beckett. E anche un pizzico di Ionesco. Ubulibri li ha pubblicati almeno fino alla Busta (2006), poi basta.

Mi piacerebbe poi, ma potrei anche dirglielo di persona, che Giuliana Olivero tornasse a scrivere. Il suo tocco abrasivo, evidentissimo nel Calcio di Grazia (Dalai, 2002), ha saputo adattarsi persino al genere “giallo regionale” con La confessione (END, 2014). A suo tempo mi disse di voler scrivere un secondo giallo ambientato nel mondo bovino delle rèine, le vacche da combattimento valdostane. Che poi non combattono mica. Surrealtà, quiete montana e affari sporchi. Un colpaccio assicurato che merita solo di espandersi via word processor.

Due dei libri che letto più voracemente negli ultimi anni sono delle liste. Quella stilata di Christopher Fowler dei “forgotten authors”, uscita in due tempi e formati diversi. E quella, scoperta di recente, dello sfrontato Frédéric Beigbeder, che nel 2011 pubblicò un “primo bilancio dopo l’apocalisse“. Entrambe idiosincratiche e opinabili, ma ricchissime di spunti. Per dirne una, dopo aver letto la classifica dei cento libri prediletti da Beigbeder mi sono riletto il vincitore, American Psycho, e gli ho dato ragione quasi a ogni pagina. Ecco, dovrebbe rifarlo questo giochino. O aggiornarlo un minimo, riflettendo sugli ultimi dieci anni. Fossi in lui, che di pochissimi autori arriva a citare due titoli, arriverei a tre aggiungendo a The Atrocity Exhibition e Crash Miracles of Life (2008), molto più di un’autobiografia ben temperata scritta da un malato terminale su suggerimento del medico curante. E qui il desiderio d’encore sbatte contro un muro, perché Ballard è morto.

sukūn

Sono stato due settimane al Cairo insieme alla famiglia da parte di madre di mio marito Yassien. Previo test prima dell’andata (cinque ore d’attesa al gelo insieme a una torma di crucchi in fuga per le feste), e ora quarantena spezzabile dopo cinque giorni mediante nuovo test. Misure sensate, di fatto una tassa sui viaggi in tempi di reclusione. Tra pochi giorni a Berlino scatterà il divieto di allontanarsi da casa oltre un raggio di quindici chilometri. Il mio pensiero vola istintivo verso gli scaffali delle biblioteche bolognesi che dovrei consultare entro metà marzo. Ma scavallato il duemilaventi, come dire, non farcela non è un’opzione.

Al Cairo c’ero già stato tre giorni a metà febbraio, visita lampo volta a supplire alla festa di matrimonio a Funo di Argelato (sì, Funo di Argelato) andata a carte quarantotto. L’allarme corona era agli albori, nella pura forma di una paura montante priva di qualsiasi evidenza scientifica. Ricordo di aver giudicato alla stregua di fifoni con l’alluminio in testa le prime persone mascherinate viste all’aeroporto. Tre giorni fulminei, quelli, in un maelstrom di lavoro ed entropia durante i quali riuscii a vedere le piramidi, andare al Museo egizio e vedere la struttura ciclopica di quello nuovo, beccarmi un avvelenamento alimentare epocale e stringere finalmente la nonna di Yassien. Non mi azzardai ad attraversare la strada da solo, visto il traffico ballardiano in stile Concrete Island. M’innamorai, al primo colpo, delle preghiere cantate live dai muezzin. Pure della prima, che ti sveglia al sorgere del sole come un gallo impettito.

Queste due settimane sono state familiari, non turistiche. E malgrado fatichi ancora a leggere foneticamente le parole in arabo (basta un cambio di font a spalancarmi una botola sotto i piedi), qualche passetto in avanti l’ho fatto, anche orale. Ialla. Inshallah. Il giorno di Natale ho attraversato la Doqqi St. per la prima volta da solo, diretto a un supermercato nei pressi per comprare un panettone di marca italiana venduto a peso d’oro tutankamonico. Il giorno dopo, a piazza Tahrir dove campeggia un obelisco ancora da svelare (come se non si capisse che sotto la pezza c’è un obelisco) ho imparato con le cattive che non si fanno video in quell’area, soprattutto se puntati verso una moschea e soprattutto se in quel momento gli altoparlanti stanno pompando una preghiera da brividi. Così ho dovuto fingere di cancellare il video come quella volta in Armenia che un soldato mi prese in castagna mentre immortalavo il treno sovietico da cui eravamo appena scesi, marzo 2019. L’altra sorpresa, per difetto, è stata allo scoccare della mezzanotte del nuovo anno. Niente botti né fuochi. E dire che ovunque si vedevano scritte celebrative del 2021, mentre l’anno islamico, mi dicono, è una nozione pressoché inutilizzata nel quotidiano.

Un giorno abbiamo fatto una passeggiata in un parco – l’accesso a tutti i parchi è oneroso, anche se il biglietto è risibile per chi ragiona in euro – dedicato a paladini ed eroi sudamericani. Tra le palme, i gatti egizi (razza a sé, arcana e sublime) e i cani randagi ecco piccoli monumenti dedicati a sceicchi paganti, condottieri ecuadoregni, Chavez e Gandhi. Dissonanza cognitiva ripetuta in un altro parco, stavolta nel cuore dell’isola (di cemento e privilegio) di Zamalek. Il cosiddetto Grotto è una formazione naturale a suo tempo piena d’acqua, incastonata tra i palazzoni appena sotto un edificio disabitato, la Gezira Tower, ancora una volta degno dello scrittore di Shepperton. Entrando nei suoi meandri si coglie uno squittio frenetico. Sono i pipistrelli che occupano la cupola centrale e disegnano incessanti rotte aeree all’interno di una circonferenza ben definita, sotto la quale si estende un rozzo cerchio di guano. Il tutto immerso in un labirinto di luci pseudonatalizie e vecchi diorami protetti da vetri colorati. Allargando lo sguardo, questo avviene nel centro geometrico di una metropoli di ventisei milioni di abitanti.

New Giza è uno dei nuovi progetti architettonici che dovrebbero dare respiro alla magnifica bolgia cairota. Uscendo dalla città via freeway, si supera un’area agricola con prefabbricati nudi sparpagliati nel paesaggio come mattoncini Lego senza senso – e si approda nel deserto. O meglio, nel deserto edificato. Si sale, senza accorgersene, arrivando a un plateau di villette ammucchiate e recintate, con rigidi controlli all’ingresso. Ai parchi pubblici (a pagamento) si sostituiscono del tutto i club privati all’aperto, presenti anche in città e organizzati in base alle varie fasce sociali. Le strade s’allargano, si svuotano, c’è chi guida controsenso tanto per, la prossemica umana si slabbra d’improvviso. L’unico reminder del Cairo vero, popolare, quello cantato da Mafhuz, sono i microbus che portano avanti e indietro i domestici. New Giza ha due università e un liceo giustamente intitolato ad Albert Camus, ma il livello d’assurdità aumenta allontanandosi di poche centinaia di metri, quando i cantieri iniziano a confondersi col paesaggio naturale. Qui l’orizzonte di senso diventa quello di Frank Herbert, l’orientamento si sfalda, interviene un senso di stupore e nausea. Non è caldo: è altro. Ho ingollato le mie due pasticche per il mal di testa e mi sono ripreso del tutto sono al ritorno in città.

I cieli del Cairo, coi tramonti rosati o l’ovattamento straniante dovuto allo smog. Il caos dei marciapiedi, da non confondere con la povertà. La sarabanda delle botteghe e dei sciuscià. La proliferazione urbanistica senza piani, inarrestabile. La stazione centrale, che malgrado il radicale ammodernamento continua ad agganciarsi allo straordinario film di e con Chahine del 1958. Potrei ciarlare oltre, ma mi fermo come dovrei fermarmi davanti a una parola che non riconosco, incerto sulle vocali brevi da inserire. Unire i puntini a tutti i costi, a casaccio, è controproducente. Solo il Corano riporta tutti i segni diacritici che aiutano la pronuncia. Il sukūn è un pallino che gravita su una lettera e ci dice una cosa bellissima: che va pronunciata così com’è, senza vocali. Il sukūn è il nulla.