przygoda na uniwersytecie

Wooooow!

All’università, insieme alle mie compagne di corso, ho lanciato un blog dal titolo Polska nad Szprewą – la Polonia sulla Sprea. Lì parlo del festival cinematografico berlinese FilmPolska, della libreria antiquaria di Álvaro, del film Possession (1981) di Andrzej Żuławski e del monumento ai caduti antifascisti polacchi situato nel Volkspark del mio quartiere, Friedrichshain. Il blog è in polacco. Da qualche giorno ho in tasca il livello B2.

L’idea folle di tornare all’università, matricola, lezioni e tutto, a quaranta e passa anni – ormai più cinquanta che quaranta – la ebbe mio marito nel gennaio del 2021. Da un lustro ormai frequentavo le lezioni di polacco della Volkshochschule, con un’insegnante turbo appassionata di James Bond e Peaches. Formalmente ero già al B e qualcosa, ma mi mancava la pressione adrenalinica di un esame vero da sostenere. Sapevo peraltro che non avrei mai superato un esame orale. Le lezioni erano poco frequenti, informali, di fatto hobbistiche. Una delle prime cose che imparai il 10 ottobre 2015, prima lezione di polacco e giorno in cui incontrai Yassien, è che hobby, po polsku, si può pronunciare scandendo la doppia b: hobbəbbə. Un dettaglio che mi fece detonare la capa. Glielo raccontai, a Yassien, dopo meno di cinque minuti dalla nostra stretta di mano. Il resto è matrimonio.

Così, nell’estate del 2021, con la fisarmonica del coronavirus che andava allentandosi, inviai tutti gli incartamenti alla Humboldt, e attesi. Terrorizzato. All’idea che non mi prendessero, sancendo così un fallimento anagrafico insanabile. O che mi prendessero, ufficializzando un passo forse più lungo della gamba. Nel formulario ufficiale avevo chiesto di fare lo studente part-time al venticinque percento. Quando studiavo a Bologna a cavallo del millennio avevo sogni ricorrenti su esami non dati, nel senso che passavano i decenni e continuavo a dimenticarmi di darli. Un sogno ricorrente simile, maturato più tardi ma che ho ancora adesso, riguarda una miserabile stanza d’albergo condivisa col coinquilino di quando vivevo per conto mio, sempre a Bologna. Grande come un dormitorio da ostello, trasandata e col legno dei letti scheggiato, questa stanza è a mio nome da tempo immemorabile ma nessuno la usa. Ogni tanto ci torno di soppiatto per godermi questo spazio libero, sebbene inutile come gli oggetti che vi giacciono sparpagliati. Il conto aumenta, nessuno lo salda mai. Ma basta andarsene lungo una scaletta a chiocciola, abbastanza svelti da non dare nell’occhio alla reception, per rispazzare il discorso sotto il tappeto. Insomma, l’incubo di non (voler) finire progetti con scadenze precise, iniziati in preda a slancio scavezzacollo. Figurarsi adesso, con un lavoro a tempo pieno per quanto flessibile, rimettersi sui banchi.

Mi presero. Il masterplan è fare un Bachelor, in teoria di tre anni, con Slavistica (Polonistica) in pole position e Scienze bibliotecarie e dell’informazione come materia accessoria. Tradotto: imparare solo cose nuove. A due anni da questa scelta che mi ha imposto di mettere in pausa qualsiasi forma di attivismo e volontariato, ho nove esami alle spalle e sono a un terzo dello schemino. Ricordo ancora il senso di stanchezza abissale dei primi mesi, la testa fritta che dopo le 22 riusciva a malapena a giocare a sbarazzino sul letto prima di chiudere baracca. Pur avendo già studiato all’Alma mater un quarto di secolo fa, e per cinque anni, previo un esame d’ammissione a crocette che doveva battezzare centocinquanta nomi a fronte di duemila candidati stipati in un capannone della fiera, malgrado questo, e il vecchio ordinamento, e la tesi, e alcuni esami da incubo come Diritto pubblico e Relazioni internazionali, da quando studio in tedesco – e polacco – alla Humboldt mi sembra di fare l’università per la prima volta. Sarà che la memoria selettiva ha bruciato tutte le sequenze accademiche dei miei anni col villino in via Toffano a fungere da punto di riferimento della nostra setta di spietati analisti del tg4. Sarà, semplicemente, che a suo tempo avevo la sensazione di dover studiare per il pezzo di carta, mentre adesso questo lusso dadaista mi riempie di gioia. Una delle decisioni più azzeccate della mia vita.

Cosa c’è di più bello dello studio? C’è la struttura, istituzionale ma vispa, c’è il brivido della corsa al voto, c’è l’accesso a una quantità immane di conoscenza. Che non è lo stesso di una normale connessione a internet. Quando studiavo Comunicazione ottenni un rivoluzionario indirizzo mail e potei usare per la prima volta un computer connesso alla rete – occasione che sfruttai per vedere se a Nizza davano The Straight Story in anteprima europea (lo davano), per chattare col fidanzato via mirc sul canale #dadolandia, per scaricare i testi delle canzoni dei Blur e dei Queen e anche per visitare qualche pagina birichina, cosa che mi drogò d’avventura e vergogna. Ovviamente non sapevo dell’esistenza della cronologia. Oggi l’affiliazione universitaria consente di accedere legalmente a milioni di pdf, e oltre alla mail di rito, alla VPN fattapposta e a una connessione wireless valida in ogni dove (ci sia una struttura accademica) tutto funziona via moodle, una “piattaforma di apprendimento” che di fatto sostituisce dazebao, appunti, fotocopie e libri ordinati in via Petroni. Non succede quasi mai che sia necessario acquistare un testo. Le lezioni, una volta esperite dal vivo, si tramutano magicamente in versioni pdf di power point. Tutto è digitale, ordinato e organizzato alla perfezione. Con un ritmo pazzesco e un workload poderoso. Ma ordinato. E se questi commenti fanno di me un boomer, so be it.

Il progetto originario era di approfittare del “duales Studium” per domare il polacco – quindi iniziare a tradurre nella combinazione PL>IT – e avere credenziali da bibliotecario, un lavoro per cui in Prussia c’è molta richiesta. Le notifiche sulle posizioni che si aprono su Berlino le ho già attivate. Sul primo punto, per il polacco sto ricevendo una formazione universitaria che per il tedesco, imparato individualmente e crudamente più con la biografia che col curriculum, non ho mai avuto. Noi traduttrici vogliamo solo tradurre e spesso respingiamo proposte di interpretariato perché non ci competono – sebbene molte di noi abbiano eccome le competenze. Nel 2021 entrai in una saletta per il corso di polacco A2+ – primo step per chi comincia con conoscenze pregresse – e mi ritrovai per novanta minuti ad ascoltare un docente che parlava solo in polacco, a velocità di crociera, ci dava istruzioni in polacco e pretendeva da noi che parlassimo, argomentassimo, scrivessimo in polacco. E sì, leggessimo. Ma il leggessimo era, ed è, solo un quarto delle competenze richieste, funzionale alla produzione di chiacchiere comprensibili e di testi sensati oltre che ben strutturati. Quando nel corso del terzo semestre abbiamo iniziato a leggere i racconti di Tokarczuk e ho scoperto Sławomir Mrożek mi sono commosso. La Polonia non è solo croci mariane infiocchettate in aperta campagna, kaczyńskismo a palla e americanismo militarizzato. C’è una tradizione culturale impressionante che parte come minimo dai tempi di Mickiewicz e arriva intatta, oltre che poco approfondita all’estero, fino ai giorni nostri. Per farsi un’idea a colpo d’occhio dico sempre che basta guardare i poster dei film rifatti per il mercato polacco, una sorta di détournement programmatico con decenni di storia, che la dice lunga sullo światopogląd (Weltanschauung) di questo Paese abituato a mancare sulla cartina. Quanto al perché a monte, cioè perché studiare una lingua slava con sette casi e una dubbia reputazione politica, potrei raccontare di viaggi selvaggi a Oświęcim e Łódź o della distanza abissale tra Görlitz e Zgorzelec (che sono la stessa città), ma la spiegazione migliore l’ha data un nostro amico psicanalista. Polonia suona come Bononia.

In questi due anni ho imparato cose che non avrei mai detto. La meraviglia dell’Open Access, un’autentica rivoluzione copernicana nell’accesso alla scienza, pur perfettibile nel suo sistema di finanziamento, e il problema sindacalissimo, di fatto ancora intonso, della gratuità della peer review. Il portentoso ginepraio di RDA, il sistema internazionale di catalogazione bibliotecaria vigente da alcuni anni – un set di regole in costante sviluppo. La trascrizione fonetica, quanto di più lontano dal mio approccio visivo al mondo, eppure bellissimo coi suoi simboli assurdi e la mappatura che cambia a seconda delle lingue. Non capirò mai perché una t è dentale (quindi con un ponticello sotto) davanti alle vocali o alla cappa, alveolare davanti alle alveolari e postalveolare (con un trattino sotto) davanti alle postalveolari, ma va bene anche così. Alcune cose vanno imparate a memoria, in un tunnel di ossessione e disperazione, e dopo il picco dell’esame scemano, acquistano improvvisamente senso o restano un aneddotto – come la pronuncia di hobby.

Per capire meglio il fenomeno propagandistico e culturale del socrealizm, il realismo socialista alla polacca, qualche settimana fa abbiamo guardato il film Przygoda na Mariensztacie (1953) di Leonard Buczkowski (Leonarda Buczkowskiego, il genitivo è questo). “Avventura a Mariensztat” è un finto musicarello, nonché finta commedia romantica ambientata nell’omonimo quartiere di Varsavia protagonista negli anni Cinquanta di un importante rilancio urbanistico. Per la Polonia col sol dell’avvenire davanti alla faccia era il momento di costruire in tempi record nuovi quartieri, o intere città satellite come Nowa Huta, cantata peraltro da Wisława Szymborska nella prima fase, organica, della sua produzione. La protagonista, Hanka (Lidia Korsakówna), scopre Mariensztat venendo in torpedone dai campi insieme al suo coro contadino e decide di diventare muratrice a tutti i costi – non facile, sebbene il sistema promuova ufficialmente la parità dei sessi. Ce la fa, anche se più che un trionfo delle brigate femminili il finale segna l’importanza del lavoro collettivo e la saggezza del segretario locale del partito. Nel film c’è un’esile trama sentimentale che funge da McGuffin per lanciarsi a testa bassa tra le impalcature. L’altro McGuffin sono le canzoncine, che scompaiono appena si entra nel vivo. Hanka s’imbatte in un aitante muratore, la scintilla scatta, nella folla si separano senza dirsi come si chiamano, lei lo rintraccia – il faccione del tipo compare su un manifesto dedicato agli operai più zelanti – e i due si rincorrono nel viavai di calcina e scale mobili della Varsavia in crescita verticale, incrociandosi con sorrisi smaglianti dopo una lunga sequenza affamata di desiderio. Ed eccoli finalmente insieme. Che fanno i due piccioncini? Si danno la mano. Łał!

t dentale prima di i o j, come in festiwal. santo cielo.

il mestiere dei ferri

Michelangelo’s Florence Pietà, a cura di Jack Wassermann, Princeton University Press, 2002, p. 176 (dall’appendice A, The Carving Techniques of Michelangelo’s Pietà, di Peter Rockwell).

Tra poche settimane compio quarantasette anni. I primi spiccioli li ho guadagnati nel 1995 facendo volantinaggio a tappeto a Bologna e dintorni. Se tutto va bene, nel giro di un quarto di secolo dovrei tirare una qualche forma di pensione. Quindi ora mi trovo nel bel mezzo della brillante carriera che scelsi, scapestrato, una quindicina d’anni fa. Il bilancio qual è? Il bilancio, forse non dissimile da quello di molte colleghe (femminile inclusivo), è che dovrei guadagnare molto ma molto di più.

Questa, beninteso, non è una querimonia. Parlerò di royalty, casse e ferri da scultura col tono scanzonato che appartiene a ogni orecchia di questo blog. Questa semmai è una piccola disamina del sistema-traduzione in regime di diritto d’autore tra Italia e Germania, i paesi in cui vivo e lavoro. La traduzione editoriale è, o dovrebbe essere, un mestiere in grado di dare il pane. Concetto fluttuante, visto che dipende dall’economia che ognuno di noi porta avanti. Su una cosa però dovremmo essere tutti d’accordo: un mestiere, come quello del fontaniere che ti si presenta a casa brandendo la chiave inglese, è tale se basta a coprire i bisogni essenziali di una famiglia. È un fatto che la traduzione editoriale fatichi, sia in Italia sia in Germania, a conquistare questo status. Molte di noi sono costrette ad arrotondare o – peggio ancora – arrotondano traducendo. Considerato un lavoro figo, materiale perfetto per tesine e fantasticherie, la traduzione editoriale è fragile perché porosa, massacrata da un clima di concorrenza atroce nonché, spesso, inconsciamente sleale. In questo quadro pieno di crepe arrivano pure le speculazioni sull’intelligenza artificiale. Che sia il caso di aggrapparsi alla chiave inglese?

Lungi da me sostenere che in Germania si sta meglio. Si sta diversamente, con pro più macro e contro più micro, nel senso che più si allarga lo sguardo, più si ha un’impressione positiva. Dal punto di vista sistemico la Germania rappresenta un buon esempio, in ambito europeo, di paese attrezzato per consentire al nostro mestiere di essere davvero un mestiere. Parto dal calcolo della “cartella”, unità di misura del classico pagamento a cottimo. Se in Italia da molti anni la cartella editoriale ammonta a 2000 battute spazi inclusi, in Germania si adotta la Normseite, oscillante tra le 1500 e le 1600. I compensi agganciati a questa unità di misura sono poi nominalmente più elevati della media italiana, di circa un 50%. A disciplinarli, almeno in teoria, è la gemeinsame Vergütungsregel negoziata dal sindacato VdÜ. Dico in teoria perché molte case editrici ignorano l’accordo. Ma in pratica, restando al confronto tra i due paesi, c’è una bella forbice sui compensi perché la Normseite è più piccola della cartella e viene fatta pagare di più.

In Germania c’è il Deutscher Übersetzerfonds (DÜF), un ente che dal 1997 si occupa di sovvenzionare progetti traduttivi e la relativa formazione professionale. La graffa dei programmi è davvero vastissima e da alcuni anni, grazie a un mirato intervento politico, il fondo eroga borse anche alle colleghe, come la vostra affezionatissima, che traducono dal tedesco (cioè DE>, non >DE) vivendo stabilmente in Germania e pagandoci le tasse. Pur non essendo l’unico ente che finanzia traduzioni legate al mondo germanofono, il DÜF ha un ruolo così centrale da creare, per certi versi, comunità. La traduzione editoriale in Germania non sarebbe la stessa senza le iniziative del fondo. Il fatto che manchi un omologo italiano è un cratere che grida a gran voce di essere riempito dal legislatore. Qualche passo s’è fatto tra il Conte II e il governo Draghi. Ora bisogna vedere se il testo troverà la sua strada, in una forma dignitosa, anche tra i meandri di questa legislatura.

Una traduttrice editoriale italiana pura, che lavora esclusivamente in regime di diritto d’autore, non ha la pensione. In Germania esiste la KSK, la cassa sociale degli artisti: chi supera il vaglio accede a un meccanismo che simula il datore di lavoro assente per noi libere professioniste, coprendo metà dell’assicurazione sanitaria (cifre non indifferenti) e procedendo al versamento dei contributi pensionistici. Io tutti gli anni ricevo una letterina dall’Inps crucca con una botta di calcoli e un numero di tre cifre che dovrebbe rappresentare la mia pensione tra venti e passa anni “se le cose restano così”. Tant’è che nonostante mi muova nel maraviglioso sistema tedesco, io qui una pensione integrativa l’ho attivata, tra lacrime, fragole e sangue, perché non si sa mai. Gli ingranaggi del sistema ci sono tutti, ma la povertà relativa sempre quella è.

Una cosa che l’Italia ha come la Germania è la sua bella collecting society, che si chiama Siae. La tedesca VG Wort fa i calcoli del venduto, del fotocopiato, del trasmesso e del messo in scena e provvede affinché le colleghe ricevano una quota di Tantiemen, cioè royalties (d’ora in avanti al singolare neutrale). E qua si apre un discorso enorme, che riassumo così: le traduttrici editoriali hanno diritto a partecipare ai proventi dell’opera che traducono, ma ha senso insistere solo se si sa che il prodotto venderà molto. Il tema in Italia sta emergendo in seguito alla direttiva europea recepita nel 2021 dal governo Draghi. La ratio del testo è il rafforzamento contrattuale degli autori, da sempre parte debole, e sola, al momento di negoziare. Le remunerazioni delle autrici, quindi anche delle traduttrici di opere dell’ingegno, devono essere “adeguate e proporzionate”.

Per ora siamo a zero: testuggine schiacciasassi da parte degli editori, piccoli o grandi che siano, salvo accordare royalty cosmetiche che si traducono in un nulla di fatto. La Siae, per le traduttrici, versa al massimo qualche euro (cifre: due) per le fotocopie. E in tempi di covid, complice il ministro Franceschini, ha più volte bonificato alle colleghe aventi diritto un beneficio ottenuto cambiando in via emergenziale la destinazione di un fondo interno. Va detto che il merito della nostra emersione ai tempi del coronavirus, con tanto di ristoro ad hoc, è soprattutto merito della sezione sindacale Strade in Slc-Cgil, a cui sono iscritto dal 2013. Un lavoro che continua a spron battuto, come dimostra la recente audizione presso l’AgCom, l’ente che dovrebbe vigilare sull’applicazione della direttiva di cui sopra. Non è un caso che buona parte dei link di questo articolo puntino al sito stradajolo. Se traduci libri e stai leggendo queste righe, per cortesia iscriviti o avvicinati a Strade. Annusaci. I brutti contratti si firmano ignorando i propri diritti. Inoltre, Strade è un portentoso collettivo. Una portentosa collettiva.

Le royalty. Le famigerate royalty per le traduttrici che tanto scandalizzano gli editori potrebbero saltar fuori conformemente alla legge senza che nessuno si faccia male. Basterebbe prevederle come partecipazioni sostenibili – per le case editrici – nel senso di farle scattare, con percentuali modeste (intorno all’uno percento) dal momento in cui il libro inizia a generare profitti. Non tutti lo fanno, soprattutto in un mercato drogato dalla coda lunga e da un ritmo di produzione equiparabile a una bolla. Ma se io so che sto accettando un libro che ha tutte le carte in regola per andar bene, sarà meglio che le chieda, le royalty. Perché mi spettano. Parlo per esperienza, avendo tradotto negli ultimi anni un autore che finisce spessissimo in vetrina e davanti alle casse. Quella che dovrebbe essere una richiesta legittima rischia invece di tramutarsi in un boomerang, perché siamo tutte sostituibili. O così si crede. Così come si crede che, alla lunga, l’intelligenza artificiale possa svolgere anche mansioni artigianali. Una scemenza. Quindi no, le royalty devo ancora vederle ma sì, continuerò a chiederle sprezzante del pericolo. Cari editori, le competenze umane si pagano.

Se c’è un fondo per traduttrici, questo fondo dovrebbe occuparsi di sostenere i progetti più coraggiosi e meritevoli, lasciando a una giuria di esperti il compito di definire i criteri. E se c’è un mercato, e quello c’è dappertutto, allora gli attori del mercato dovrebbero far sì che la ricchezza venga distribuita in maniera equa. Ergo: se traduco una silloge di nicchia busso alle porte del fondo, ma se traduco un autore alla moda il mio contratto deve prevedere o un compenso elevato, o una quota di royalty dalla tot copia venduta. Il tot dipende dall’economia in cui ci si muove. Al momento, in Italia, queste due opzioni mancano del tutto. E anche i compensi son da fame. Se aggiungiamo alla scena coloro che traducono libri per hobby, curriculum, la gloria o altri motivi accessori non legati a una qualche consapevolezza professionale, il pasticciaccio è patente.

La direttiva europea sul copyright, ora legge dello stato italiano, contiene un unico obbligo, almeno sulla carta, che è quello di rendicontazione. Articolo 110 quater. In quanto coautrici dell’opera tradotta, noi abbiamo pieno diritto a sapere quanto vende. Anche se non percepiamo royalty. E questa informazione è importante proprio per calibrare la richiesta di un extra rispetto a quanto pattuito col calcolo a cartella – e che sia un extra sostenibile per tutti, quindi motivato da vendite sufficienti. Finché restiamo all’oscuro dei dati di vendita non potremo mai negoziare percentuali sensate a partire da una cifra ragionevole di copie vendute. Molti editori lamentano l’aggravio burocratico dell’invio di questi rendiconti. Eppure i numeri son sempre quelli che finiscono nelle caselle mail degli editori esteri e degli agenti.

Un ottimo strumento di negoziazione, non nuovo ma al momento unica breccia nella testuggine, è il discorso sugli anni di cessione. Un tema, questo, tutto italiano visto che in Germania il sistema è diverso (e una volta tanto, non invidiabile). La legge sul diritto d’autore del 1941, aggiornata e finalmente superata dal recepimento della direttiva a ottant’anni di distanza, prevedeva un massimo di vent’anni per la cessione dei diritti di sfruttamento dell’opera tradotta. Ora quel massimo è considerato una stortura. Contrattando il contratto, che va contrattato altrimenti si chiamerebbe zitteffirma, conviene sempre ridurre la durata della cessione, in modo da rinegoziare la pubblicazione dell’opera in tempi più brevi. E se il libro nel frattempo è scomparso dal mercato, la traduzione torna nelle mani di chi l’ha dattiloscritta – che può riproporla.

L’editoria è la prima industria culturale italiana. Pur con un fatturato inferiore a quello di paesi come Francia e Germania, i soldi – come suolsi dire – ci sono e vanno redistribuiti meglio. Non c’è bisogno di punire nessuno con espropri proletari e barricate ideologiche. C’è bisogno, questo sì, un bisogno urgente, di mettere in sicurezza mestieri creativi a rischio perché mal pagati e privi di tutele. C’è bisogno di stati generali veri in cui tutte le parti in causa si incontrino a carte scoperte – anche la distribuzione, che si pappa la fetta più grossa. Io voglio la sicurezza economica, non la visibilità a tutti i costi. Il nome della traduttrice in copertina dev’essere un mezzo, non un fine, per proseguire un percorso di emersione del mestiere che sfoci in compensi dignitosi. Altrimenti chiamiamolo hobby col mignolo alzato e non se ne parla più.

Nel penultimo libro che ho tradotto, un milione e novecentomila battute un quarto delle quali appendici, note e bibliografia da capogiro, il tutto smaltito in dieci mesi, mi sono trovato alle prese coi nomi tedeschi di tre scalpelli: Sticheisen, Zahneisen, Kammeisen. Tre ferri, letteralmente. In italiano si chiamano, e l’ho installato nella mia traduzione con due giri di chiave inglese e un grugnito, subbia, calcagnolo e gradina.

Atene non ride

Porte del Kino Krokodil, Berlin Prenzlauer Berg, fine maggio 2023.

Nella buiezza delle ultime settimane in cui, pur standomene all’asciutto in Prussia, continuo a sognare piani inclinati di cemento armato su cui scorrono a singhiozzo milioni di metri cubi d’acqua lercia (stanotte un’orca m’ha saltato a piè pari in mezzo a un guado), in questo buiume che va accatastandosi sulle pessime notizie e le pessime pieghe cognitive prese dal discorso comune, più che pubblico comune, degli ultimi anni, in tutto questo un film. Che ero quasi sicuro non sarebbe uscito. E invece è uscito, ed è buio d’un buio però diverso, secco e dritto al petto.

Questo film è Sparta di Ulrich Seidl. Un film sulla pedofilia. Chi conosce Seidl sa, senza vedere una pellicola del genere, la brutta fazenda che rischia di diventare. Non lo fa, ed è il motivo per cui ne parlo qui. Insieme a Rimini, Sparta va a comporre l’affresco narrativo più convincente nei quarant’anni di carriera del cineasta austriaco. Questo non significa che esca radicalmente dal seminato di Hundstage o della trilogia del “paradiso” Liebe/Glaube/Hoffnung, ma sceglie un tono più gentile, e sicuramente più digeribile, per affrontare un tema tabù.

Vedere al giorno d’oggi quella sequenza sulla barca parigina di Sweet Movie (1974) di Dušan Makavejev, o anche solo la sottotrama con Bill Maplewood (Dylan Baker) in Happiness (1998) di Todd Solondz, suscita sentimenti analoghi alla visione di uno snuff movie o di un video terroristico con decapitazioni. Come ne giravano in rete vent’anni fa. Al netto di ovvie considerazioni etiche, è un fatto che il cinema, o più in generale il confezionamento delle immagini in movimento, sia ora più vincolato di quanto non lo fosse negli anni Settanta. Certo, nemmeno il rigurgito libertario di quel decennio ha prodotto solo pepite d’oro. Pur amando John Waters come classica valvola di sfogo, rivedere Mondo Trasho (addirittura datato 1969) con la sua scena iniziale che trancia la testa a una gallina è diventato improponibile. Molte delle provocazioni di allora sono invecchiate male, scadendo nello sciocco, nel superfluo o semplicemente nel noioso. Questo vale anche per una buona fetta della filmografia di Seidl, che si è sempre alimentata di celluloid atrocities ripulite all’uopo in quadri perfetti. La grande ambiguità di Seidl è data dall’ingerenza della messinscena in un contesto che vuole essere documentaristico. Il tutto meno raffinato, o forse solo meno furbo di Haneke. Da Seidl ci si aspetta la manipolazione.

Il modo in cui ci vengono date in pasto figure come quella di René Rupnik in Der Busenfreund (1997) o di Dorothee Spohler-Claussen in Spaß ohne Grenzen (1998) non lascia spazio a grandi interpretazioni. L’uno, un professore quasi ferreriano chiuso nel suo appartamento stipato di giornali raccattati, solo con l’anziana madre e la sua ossessione matematico-anatomica per i seni. L’altra, maniaca dei parchi a tema e dei ninnoli infantili, eppure incapace di un sorriso vero. Due facce della stessa medaglia ossessivo-compulsiva, spassosa certo, e non certo filmata a loro insaputa, ma di fronte all’obiettivo va in scena la ghiotta spettacolarizzazione di una neurodivergenza. Un approccio rodato sia con Tierische Liebe (1995), che mostra scene domestiche di amore tra animali e umani, suggerendo tra le righe la propensione alla bestialità, sia con Jesus, du weißt (2003), in cui viene esposto, quindi messo alla berlina, il cattolicesimo con la schiuma alla bocca. Un metodo che, ridotto all’osso e forse spogliato di qualsiasi colpevole intellettualismo, è stato adottato anni più tardi dal regista sassone Jan Soldat.

La prima infornata di film targati Ulrich Seidl reca sempre il marchio a fuoco di uno stigma, un mostrare giocoso e svergognato, tra il complice e il disonesto. Il protagonista del suo corto d’esordio Einvierzig (1980) è alto, alla lettera, un metro e quaranta, e malgrado il bel bianco e nero e il piglio barricadero l’umore generale ricorda di più Auch Zwerge haben klein angefangen (1970) di Herzog rispetto alla sequenza da groppo in gola di Amator (1978) di Kieślowski in cui il protagonista Filip Mosz (Jerzy Stuhr) gira un documentario incentrato sul collega disabile Wawrzyniec, interpretato da Tadeusz Rzepka. La situazione migliora quando Seidl prende in mezzo non le eccezioni, ma la regola: ecco allora il vecchio austriaco a caccia di mogli ceche in Mit Verlust ist zu rechnen (1992), i mariti seriali di donne filippine (Die letzten Männer, 1994), lo sfruttamento degli immigrati nella vendita dei giornali (Good News, 1990) o, banalmente, le fotomodelle (Models, 1998). Hundtsage (2001), che a suo tempo arrivò al Lido di Venezia come un ciclone liberatorio, fa confluire per la prima volta questo universo pulsionale e demente in una forma narrativa, corale, scandita da geometrie pre-wesandersoniane e insaporita da interni così borghesi da essere marziani. Canicola è Robert Altman in Mitteleuropa senza canzoni né pietà. A vent’anni di distanza, il personaggio ancora una volta ossessivo e querulo di Maria Hofstätter, con la sua parlantina sfiancante e la classifica dei supermercati, è assurto a figura mariana del cinema senza mezzi termini. Non ha nome, è finto, l’han scritto insieme Seidl e Veronika Franz.

Con Import/Export inizia una fase critica. La macchina da presa esce dai confini austriaci e flirta con lo sfruttamento. Inutile dire come un film seidliano ambientato per metà in Ucraina sia, a maggior ragione oggi, una visione che ci si può tranquillamente risparmiare. La trilogia su amore nell’accezione di carità, fede e speranza funziona solo in parte, cioè quando la butta in caciara (Glaube, girato quando le paure à la Houellebecq sull’Islam erano piuttosto diffuse). Liebe, che parla del turismo sessuale da un’ottica femminile, conferma quel che ci si può ben immaginare, e a Hoffnung manca lo scarto zanussiano capace di arrivare al sublime, e parlare davvero di morale, in un contesto prosaico come una colonia estiva. La piccola Austria di Seidl non è l’isola del Sacrificio di Tarkovskij. Semmai, è il labirinto di seminterrati e cantine tra il BDSM e l’hitlerismo nostalgico che si vede in Im Keller (2014). Imperdonabile nel dare spazio ai protagonisti di Safari (2016), negli ultimi anni Seidl si è sapientemente convertito in produttore e facilitatore per Veronika Franz (Ich seh ich seh, 2014) e la furia di Elfriede Jelinek nell’adattamento di Die Kinder der Toten (2019), che sembra un esperimento di Syberberg in forma compatta.

Böse Spiele, giochi crudeli, è sia il titolo di lavorazione di Rimini e Sparta, girati insieme, sia quello del montaggio che li fonde, presentato a Rotterdam come prodotto a sé stante. Il richiamo di questi Wicked Games (come da dicitura internazionale) ai Funny Games di Haneke è limpido ma depistante, visto che il doppio film di Seidl non ha nulla di metanarrativo o intellettualmente disonesto. Quando alla Berlinale del 2022 venne presentato Rimini, di Sparta non si parlò affatto. Tant’è che alla fine di Rimini c’è già la dedica all’attore Hans-Michael Rehberg, scomparso nel novembre del 2017, il cui ultimo ruolo è proprio quello del vecchio padre di Richie ed Ewald Scholz. Questo suggerisce anche il lasso di tempo, di fatto un lustro, che ha accompagnato la realizzazione dei due film. In Rimini, Ewald compare in una breve sequenza in Austria come il “fratello noioso” di Richie Bravo (Michael Thomas). L’unico rimando all’infanzia, più che altro mentale di entrambi, è la gara in triciclo improvvisata nel cantinone della vecchia casa di famiglia. Rimini è per Seidl un primo esempio di trasloco efficace fuori dal microcosmo austriaco: il fascino malinconico e laido della riviera in bassa stagione sembra quasi fatto per lui, un’inquadratura con le dita a rettangolo e via, manco lo scenografo deve inventarsi qualcosa. Nel 2022 Yassien e io ci siamo fermati cinquanta minuti a Pesaro col treno, siamo andati fino al lungomare e ci ha accolti la scritta di un vecchio albergo abbandonato, l’Hotel Sporting, trasformata con le bombolette in Hotel Squirting. Con l’aggiunta di un’indicazione geografica, Pussy Coast, e di una firma collettiva: Perineo Crew. Ecco, la Rimini di Seidl è tutta qui, più fantozziana che felliniana, tragicomica nel senso che è realmente tragica e realmente (a denti stretti) comica. Il cazzotto, in Rimini, resta in Austria ed è il padre nazista rincitrullito che riesce a far piangere nell’ultima scena evocando la mamma. In questo senso, Rimini è un film sull’Alzheimer molto più coraggioso di architetturine beneducate come The Father. È un film sul crollo, sul declino inevitabile ma penosamente ignorato, sui suoi scricchiolii e i suoi tonfi, sulla dignità e la compassione.

Se in Rimini vedere il vecchio padre nazi è uno choc, incontrarlo di nuovo in Sparta – alcune scene vengono riproposte pari pari – è quasi un sollievo. Perché stavolta il buio omega non interessa una figura di contorno, bensì il protagonista, Ewald (Georg Friedrich), impiegato in Transilvania presso una centrale che pare uscita dalla guerra fredda. La consueta perlustrazione impietosa dei luoghi da parte della macchina da presa va a sbattere contro una rapida scena casalinga, tutta gestita sul piano attoriale, in cui si vede il protagonista accendersi, dopo tanta apatia, appena a contatto con i nipoti in età scolare della fidanzata. Friedrich riesce a convogliare un senso di liberazione e leggerezza che ricorda Jean Vigo, ma al contempo è evidente che qualcosa stride. La crisi sessuale con la fidanzata senza nome (Florentina Elena Pop) non è dovuta al logorio della coppia. Quando lei si prova un vestito da sposa e lui resta in disparte tra l’esasperato e l’indifferente, il motivo di fondo è diverso dall’amore finito o da questioni di calcolo economico. Il problema è che Ewald si ferma in macchina davanti al campetto da calcio, e guarda. Va detto, e vale più come salvacondotto stilistico che come affermazione sociologica, che questo sguardo desiderante non si tramuta mai in azione da galera. Quello che si vede, quello che il film decide di mostrare è un’ossessione conscia, cronica ma con dei limiti autoimposti. Ewald finirà per creare un safe space per sé e – paradossalmente – per un gruppo di ragazzini, e lo chiamerà Sparta.

Gli accenni alla trama finiscono qui. A mo’ di metafora posso solo dire che contrariamente al passato, qui Seidl non ammazza in camera il coniglio, simbolo fin troppo palese di innocenza, che finisce scuoiato per spiegare a un bambino come si sta al mondo. L’approccio al tema resta frontale, senza sconti, ma le immagini mantengono un pudore, e una misura, senza i quali il film, più che essere “cancellato”, sarebbe semplicemente brutto. La scommessa vinta da Seidl, Franz e Friedrich consiste proprio nell’evitare il grottesco, il mostruoso, il carnale: registri già usati centinaia di volte per affondare le zampe nella cronaca nera o in qualche forma “elevata” di true crime. Qui il protagonista, una volta chiarito cosa lo muove, resta solo davanti a noi così com’è, col suo tunnel senza uscita, e noi lo seguiamo diligenti, ci manca solo la macchina da presa pedinante dei Dardenne, lo seguiamo diligenti nel suo vagare inventivo e inane, un Sisifo in Romania. Significativa, da questo punto di vista, la scena in piena campagna col suv di Ewald carico di bambini sotto la pioggia battente, che gira su sé stesso come una giostra. Sembra un calco dal film di Herzog coi nani.

Sparta è un film che gioca col fuoco. Lo fa davvero, molto più di pellicole come Mystic River, Capturing the Friedmans o il tremendo reboot di A Nightmare on Elm Street del 2010, e la lista potrebbe allungarsi con storie che usano il tema come un hashtag, un mero escamotage drammatico o spunto per riflessioni massmediologiche. Il rischio che corrono Seidl e Franz è quello di stimolare un’identificazione col protagonista, che pur agendo davanti ai nostri occhi per tutta la durata del film non pronuncia monologhi catartici, non fa promesse, nemmeno ci prova. In sostanza: non finisce a processo, nemmeno vittima del manipolo inferocito di padri (violenti coi propri figli) che provano a stanarlo. Ewald continua a muoversi, quasi favolisticamente, coprendo distanze imprecisate e lasciando, senza alcuna spiegazione concreta, la vita condotta fino a poco tempo prima. Che il suo vagare sia destinato al fallimento, e fondato sulla sabbia, è chiaro come il sole. Così come il fatto che lui sa di non avere alternative a questa fragilità strutturale che lo azzoppa da sempre. “Farà una brutta fine” – che non vediamo. Con una nonchalance che non ha nulla di provocatorio, Sparta ci lancia insieme al protagonista in un tunnel dell’orrore senza luce in fondo. Ewald prova ad addobbarlo, questo tunnel, come un luna park, ma non è un gioco, non è corto e sicuramente non è una gran bellezza. Spaß ohne Grenzen?

Nell’autunno del 2022, lo Spiegel ha pubblicato un reportage che accusa la produzione del film di sfruttamento di minori, sostenendo peraltro che le famiglie dei ragazzini ingaggiati non erano state sufficientemente informate sui contenuti di sceneggiatura. In pratica, hanno cercato di mettere Seidl sullo stesso piano, o quasi, di Leni Riefenstahl quando fece Tiefland (1940) cooptando un centinaio di persone sinti dai campi di concentramento. Il mutatis mutandis qui è di un certo peso, oltretutto nel film ci sono abbondanti dialoghi in rumeno che chiariscono cosa sta succedendo, ma è impossibile entrare nella polemica con dei fatti sensati. Seidl, ovviamente, si è difeso. Il siluro dello Spiegel ha provocato la cancellazione della prima del film a Toronto, dopodiché Sparta si è fatto timidamente vedere in uno sciame di altri festival, pur scansando quelli grossi.

Film abissale, prova attoriale maiuscola e coraggiosa di Georg Friedrich (già premiato a Berlino per Helle Nächte di Arslan, e presenza fissa del cinema germanofono dai tempi del primo Haneke), Sparta è almeno due cose. Un character study credibile e mozzafiato, senza le furberie cui ci ha abituato Seidl per decenni. E un luogo cinematografico strepitoso, un fortino improvvisato tra le rovine in cui si rumina la mitologia a suon di “molon labe”. Richie Bravo non c’è. Il conforto delle sue canzoni facili manca del tutto. A far ridere, o sorridere appena senza che nessuno veda, può servire solo il cartello pubblicitario “Analize Pork” che s’intravede nell’ultima inquadratura girata in un paesino rumeno. Sparta a un certo punto finisce, ma come recita l’excipit di American Psycho, “this is not an exit”.

Lungomare pesarese, primavera 2022.