occhiali a specchio

assedio dei Pine Lights in Pelts (2006)

Per parlar d’altro. Il 24 febbraio 2022 è uscito al cinema il primo film di Dario Argento in dieci anni, Occhiali neri. Facile immaginarsi quante persone non incollate alla propria bolla di notizie abbiano deciso di andarlo a vedere. Io ho avuto il privilegio di farlo qualche giorno prima, alla Berlinale. Ma questa non è non una recensione. È un’orecchia su Dario Argento come sfornatore di fette di torta.

“Some films are slices of life, mine are slices of cake”, diceva Hitchcock, al quale Argento è stato subito accostato dopo il successone dell’Uccello dalle piume di cristallo (1970), uno di quei rari film capaci di creare un genere, un sottogenere, un marchio di fabbrica – e fan a josa. L’aforisma è adattabile anche al regista e sceneggiatore romano, bravissimo a fendere e affettare corpi umani anche se non sempre specchiato nella sua visione d’insieme. Alcuni suoi film regalano una raffica di fette di torta, altri meno, e ci sono fette destinate a scomparire sotto il peso di personaggi indigeribili, dialoghi abborracciati, buchi nella trama, sbavature da capelli dritti in tempi di politicamene corretto (e non è un caso che lui e Polański siano così, nel senso degli indici). Prima di vedere Occhiali neri mi son fatto un ripassone dell’Argento più opaco, scoprendo fette clamorose. Ecco un percorso zigzagante degno d’un pasticciere trotkzista.

Dario Argento ha sempre giocato col personaggio “Dario Argento”. Risale al 1973 una modesta batteria di quattro episodi per la televisione, La porta sul buio, realizzata insieme a Luigi Cozzi, Mario Foglietti e Roberto Pariante. Argento ne sforna un paio, ma soprattutto non manca di introdurre l’episodio di turno con qualche innocua battuta che morpha Hitch nello Zio Tibia. Testimone oculare non regge più dopo cinquant’anni, ma nel prefinale con home invasion si vede lo zampino argentiano. Discorso diverso per Il tram, secondo dei quattro, che Argento ha diretto sotto lo pseudonimo di Sirio Bernadotte. Per quaranta dei suoi cinquanta minuti è quasi una commedia romanesca retta sulle spalle e i tic dell’ottimo Enzo Cerusico, poi piomba in dieci minuti di Argento purissimo nella stazione dei tram, con sottofondo jazz. L’inghippo che risolve la trama, e che va scoperto anche nel 2022, rientra in pieno nella tradizione “percettviva” dei film di Argento in cui c’è un dettaglio che non torna, da esperire di nuovo per chiudere il cerchio. Non sorprende che di lì a due anni, dopo essersi pure smazzato un film storico con Celentano, Argento abbia fatto Profondo rosso. Gli anni Ottanta vedranno il picco dei fasti argentiani e persino una sua comparsata fissa televisiva, nella trasmissione Giallo, in cui infarcisce le sue ciarle ipnotiche e un po’ burine con brevi video che mettono in scena i suoi incubi (in uno compare pure il Dylan Dog numero 3). Una bella coda di questa tradizione presenzialista è proprio rappresentata dalle proiezioni di Occhiali neri alla Berlinale 72, introdotte dal faccione di Argento che si fa un clippino casalingo à la Lynch.

Restando in ambito televisivo, Ti piace Hitchcock? (2005) è una delle sceneggiature più tonde scritte da Argento insieme a Franco Ferrini. C’è tutto: la fiaba minacciosa nell’intro con le presunte streghe nella cascina, il colpo di scena vero, l’omaggio tecnico e contenutistico a Hitch (Rear Window, Strangers on a Train, North by Northwest) e soprattutto la celebrazione del voyeurismo inteso come pratica di stupore e grimaldello di scoperta. Il finale, che monta tutte le scene in cui il protagonista Elio Germano “è rimasto a guardare”, sta lassù insieme al famoso assemblaggio di scene tagliate in Nuovo cinema Paradiso. Non solo. Come spesso accade in Argento, ci sono i primissimi piani di strani marchingegni, come se la camera s’infilasse tra gli ingranaggi. Qui abbiamo un vecchio ascensore di legno e la serratura di una porta. In Nonhosonno (2001) c’è una segreteria telefonica. Ciliegine sulle fette di torta.

Sempre piccolo schermo, ma all’americana, la straordinaria partecipazione di Argento alle due stagioni di Masters of Horror (2005, 2006) architettate da Mick Garris. Dopo una vita passata a ingaggiare protagonisti anglofoni per vendere meglio i film all’estero, e dopo un paio di discrete esperienze americane (Il gatto nero, Trauma), con Jenifer e Pelts Argento riesce a inserirsi a meraviglia in un meccanismo professionalissimo (effetti speciali di Greg Nicotero) capace di azzerare la sua inevitabile tendenza all’amatriciana. Soprattutto con l’adattamento di Pelts, favola antipellicce da far accapponare la pelle, Argento molla una martellata e colpisce il gong sulla pertica. È forse la prima volta, con tutto il rispetto, che riesce a spaventare anche in ambito paranormale. Si sa che Argento ha fondamentalmente due vene: il “giallo”, cioè un thriller truculento con trama whodunit spesso intorcinatissima, e l’horror in stile Suspiria, che come si vede in Inferno (1980) preferisce divagare, cercare l’effetto, magari spiazzare e schifare, ma di rado fa davvero paura. I due film appena citati sono poi responsabili di una buona percentuale dell’immaginario sclaviano applicato a Dylan Dog, perché Argento al massimo della forma diventa i fratelli Grimm in un corpo solo.

Io i suoi film ho iniziato a vederli in maniera strutturata nei primi anni Novanta, ai tempi dei videoregistratori, quando Quattro mosche di velluto grigio era irreperibile (girava solo una registrazione antidiluviana su ReteQuattro) e Tenebre, per via del braccio mozzato di Veronica Lario, scomparve di colpo all’insorgere del berlusconismo. L’ultimo film suo visto al cinema prima di Occhiali neri era Trauma (1993), che con le sue teste staccate e mormoranti è l’anello di congiunzione tra l’Argento pigliatutto e la crisi carsica che lo accompagna da trent’anni.

Sta di fatto che i dolori iniziano con La sindrome di Stendhal (1996), film mezzo fiorentino e mezzo romano dalla trama spaccata in due – del resto vuol rifare Vertigo – con un passaggio di testimone (o coltellaccio) che ricorda Tenebre. Fetta tra le fette, come sempre quando c’è, Asia Argento qui nei panni di una commissaria imberbe alle prese in tutti i sensi con un maniaco interpretato da Thomas Kretschmann, già vampiresco. Gli effetti speciali non truculenti sono così brutti da diventare belli, e anche se la trama non sta in piedi c’è almeno una bella scelta delle location più squallide (una costante).

Il fantasma dell’opera (1998) è inguardabile fuori dal contesto degli anni Novanta e dell’idea di un’ennesima versione di un classico paradossalmente reazionaria rispetto a quella di De Palma. Argento scrive la sceneggiatura insieme e Gérard Brach, braccio destro di Polański, un tandem che sfocia in una marea di topi – anche nella patta di Julian Sands – con tanto di comprimari comici dediti alla caccia al sorcio a bordo di un veicolo steampunk. La fissa di Argento per l’opera, confermata dall’omonimo film (un’opera heavy mental, altro che rock) e da una scenetta di Giallo, qui tocca il fondo.

Nonhosonno (2001) è il secondo dei film torinesi di Argento, insieme a Ti piace Hitchcock?, Giallo e ovviamente Profondo rosso. Pensato a tavolino come un ritorno alla grandissima, con Lucarelli a dare la malta sullo script insieme a Ferrini, il film può vantare un Max von Sydow ben servito dai dialoghi, una filastrocca trucida scritta da Asia e una scena di ammazzamento col corno inglese che una volta vista non ti si scrosta più dal cervello. In compenso la sceneggiatura contiene assurdità palesi, a partire dalla famosa sequenza iniziale sul treno, e la suspense sta a zero perché si capisce quasi subito chi è l’ammazzasette. Il cartaio (2004) conferma il periodo di stanca con una tramina romana che voleva strizzare l’occhio a internet, oggi miseramente incartapecorita (senza manco essere archeologica). La colonna sonora unza-unza getta le basi per quella di Occhiali neri.

La terza madre (2007) nasce con l’intento-cofanetto di chiudere la trilogia di Suspiria e Inferno (e non Tenebre, come spesso si pensa confondendosi con la Mater Tenebrarum), e infatti lo fa. I riferimenti filologici al film del 1980 sono impeccabili, molto meno l’ambientazione romana col caos infernale simulato sullo sfondo (passanti che s’ingiuriano: embe’?). Nel complesso, un groviera. Peccato, perché oltre ad Asia c’è anche Daria Nicolodi nei panni di uno spettro e la sequenza iniziale coi demoni ha un che di laido e viscerale. Da brividi una scena lampo, sempre per strada, con una madre assassina senza appellativo latino. L’esplorazione della villa nel prefinale fa sbadigliare invece di terrorizzare come ai tempi di Profondo rosso.

Giallo (2009), da molti considerato il nadir argentiano, è un film di rara stranezza, molto americano, in cui al contrario di Pelts si nota un Argento col freno a mano e la pistola alla tempia. Innanzitutto, forse per la prima volta da quando è sulla piazza, Dario si ritrova davanti all’obiettivo due attori seri, pure polańskiani, cioè Adrien Brody ed Emmanuelle Seigner. La trama, incentrata sul body shaming, è indifendibile, e lo stesso vale per l’assurda scelta buñueliana di far interpretare due ruoli diversi, e antagonisti, a Brody. Che conciato da malfattore “giallo” (causa epatite C dalla nascita) sembra Carlo Delle Piane. Guadagnino deve aver preso appunti per l’utilizzo di Tilda Swinton nel suo rifacimento pretenzioso e gnè gnè. Un altro aspetto contenutistico che rende Giallo un brutto pastrocchio è la stigmatizzazione della malattia, con Brody-ispettore che scopre i farmaci di Brody-cattivone e li butta via. Si salvano una location (usata male: un gasometro) e il flashback col bimbo che ammazza il macellaio davanti al carabiniere.

Anche il goliardico Dracula 3D (2012) ha pochi estimatori. Un po’ come Twixt (2011) di Coppola, visto oggi sembra roba degli anni Cinquanta, quando William Castle vendeva biglietti promettendo sorprese extra-schermo. E infatti, per quanto possa essere immersivo in 3D, chi lo può più guardare in 3D? Se fosse andato bene avrebbe accelerato la realizzazione di The Sandman con Iggy Pop (dopo il Meat Loaf di Pelts), e invece è andato malissimo, la questua tra fan per fare The Sandman è andata benino ma nessuno sa più che fine hanno fatto quei soldi, e insomma gli anni Dieci hanno rischiato di inumare il Grimm italiano che con questo diorama transilvano fa più ridere che altro. Certo, il massacro nell’osteria meriterebbe di essere trasmesso in mondovisione. Qui gli effettacci hanno la meglio rispetto al digitale de noantri, e poi ci sono mosche a non finire come in Phenomena e una pallottola al rallentatore che ricorda La sindrome di Stendhal (quel che di buono c’è in-) e soprattutto il gran finale delle Quattro mosche. La mantide gigante che compare per venti secondi è teogonia senza macchia.

Occhiali neri è una sceneggiatura vecchia di vent’anni ripescata da Asia e aggiornata alla meno peggio. Il furgone bianco riporta alla mente l’anonimato del taxi di Giallo, ma la cosa che sorprende di più è la romanità di questa tramina. Niente attori esteri, persino il titolo internazionale ondeggia indeciso tra Dark Glasses e Black Glasses. Pare di essere tornati alla Porta sul buio. Saltando a piè pari i buchi di sceneggiatura e le location – purtroppo – belle ma usate male, vedi la sede dell’ente dighe, la fetta di torta di questo Argento anni Venti è la seconda parte, quando noi spettatori ci ritroviamo di notte in un boschetto, c’è dell’acqua, ci sono delle canne – e dei serpenti d’acqua! – e tornando sull’asfalto ci s’imbatte nell’auto di un cacciatore. Occhiali neri è bello perché è un giallo finto, pure svogliato: in realtà è una favola triste. Speriamo non l’ultima. Ti piace Argento?