Unheimat

Vitus Zeplichal è Hille Vavra in Das Unheil (1972)

In quest’orecchia scritta sotto antibiotici (Amoxicillina 500, 3 volte al dì) si parla dei film narrativi di Peter Fleischmann, nome noto ai collezionisti di videocassette pirata dei decenni andati. Fleischmann ha avuto un momento di gloria sul finire degli anni Sessanta, dissipando questo credito nel corso dei vent’anni successivi. Spesso avvicinato alla rosa del Nuovo Cinema Tedesco, non troverete il suo nome in calce al manifesto di Oberhausen (se è per questo, nemmeno i nomi di Herzog, Fassbinder o Schlöndorff) ma è proprio durante l’epoca d’oro del cinema autoriale germanofono che Fleischmann ha tentato di profilarsi, interpretando il ruolo del provocatore caustico, del Querdenker, del Nestbeschmutzer. Termini invecchiati male, tant’è che una delle ultime interviste a un Fleischmann ormai senile legge Die Hamburger Krankheit (1979) in un’ottica antivaccinista. Autore “contro”, Fleischmann, lo è sempre stato, in maniera disordinata e un filo pretenziosa, eppure i suoi film contengono cazzotti che fanno male ancora oggi. A cominciare dallo smontaggio, e alla riscrittura, dell’Heimatfilm.

Come i succitati “pensatore obliquo” o “insozzator del nido”, anche Heimat non è facile da tradurre e va adattato di caso in caso. Il concetto è comunque chiarissimo: la Heimat è il posto da cui si proviene e dove si sente il calore di casa. Fin dagli anni Trenta, il cinema germanofono ha elevato a genere questo luogo dell’anima, contaminandolo immediatamente di elementi politici. Nessuno degli Straßenfilme urbani dell’epoca, come Asphalt (1929), odorava d’Heimat, mentre invece Riefenstahl e Trenker hanno sempre girato Heimatfilme, meglio se in alta montagna o in luoghi d’esilio da colonizzare (o purificare). La patria interiore ha bisogno d’aria frizzante e panorami mozzafiato – e allora anche Tutti insieme appassionatamente è un Heimatfilm, a maggior ragione perché tratto da un best seller austriaco (Vom Kloster zum Welterfolg di Maria Augusta Trapp, 1952) e remake di Die Trapp-Familie (1956) di Wolfgang Liebeneiner, regista della scuola di Goebbels e fulgido esponente di quel “cinema di papà” avversato dal Neuer Deutscher Film. Nell’Heimatfilm, l’origine seda e appaga. Il suo destino è l’armonia. Fleischmann spacca per la prima volta in maniera programmatica questo paradigma con Jagdszenen aus Niederbayern (Scene di caccia in bassa Baviera, 1969), dopodiché, sempre in ambito bavarese, sarà Herbert Achternbusch a prendere il testimone della sovversione costruendo un percorso originalissimo e, in fin dei conti, rappacificante. In Achternbusch lo sberleffo è sempre dialettale, mentre Fleischmann prende le distanze dal suo tabellone prima di lanciare le freccette.

“Scene di caccia” nasce come pièce teatrale per mano di Martin Sperr nel 1966. Si tratta di una delle prime opere di successo ad affrontare di petto il tema dell’omosessualità nella bacchettonissima Bundesrepublik ancora dotata di paragrafo 175. Sperr e Fleischmann scrivono insieme la sceneggiatura, Sperr interpreta anche il protagonista Abram accanto ad Angela Winkler (Hannelore), futura Katharina Blum per Schlöndorff. La storia narra del ritorno al paesello di un ragazzo che ha fatto un periodo di galera per essere stato colto in flagranza di frocioreato, ma prima che scatti la caccia tra i boschi eponima dell’opera Abram si macchierà di un delitto ancora peggiore. Né la pièce, né il film hanno finalità educative o attivistiche limitatamente ai diritti civili. Ma anche il film di debutto di Rosa von Praunheim, Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971) mischia agenda barricadera e profondo cinismo nell’affrontare il tema. Le carəzzə dei giorni nostri non andavano per la maggiore. A rendere memorabile il film di Fleischmann è tuttavia un altro contrasto, estetico-morale. La fotografia in b/n di Alain Derobe e i fluidi, lunghissimi movimenti di macchina riproducono tutta la bellezza dell’Heimatfilm, che va a infrangersi contro la superficie inumana di quasi tutti i personaggi, contro il loro comportamento irregimentato e protonazi, le teste di maiale che finiscono sotto la mannaia. L’atteggiamento furbescamente stroheimiano di Fleischmann, consapevole di aver confezionato il film che i bavaresi (e i tedeschi) avrebbero amato odiare andò incontro a platee in rivolta e critici in sollucchero. Con Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach (1971) Schlöndorff non riuscirà a essere altrettanto sottile e crudele sciroppando immagini in bianco e nero dalla Germania profonda. Nel 1981 Edgar Reitz, lui sì firmatario di Oberhausen, ripristinerà l’Heimatfilm in chiave autoriale e conciliante con i primi episodi in b/n dell’omonima serie, mantenendo questa impostazione fino alla pellicola Die andere Heimat (2012). Das weiße Band (2009) di Michael Haneke è senza dubbio un anti-Heimatfilm, molto in debito con Fleischmann.

Das Unheil (1972) cerca di ripetere il colpaccio, stavolta sulla base di una sceneggiatura scritta insieme a Martin Walser. In parallelo, Wenders e Handke stavano lavorando alla Paura del portiere prima del calcio di rigore. La storia, ambientata in un’anonima cittadina dell’Assia, è quella del maturando Hille Vavra, vicino a posizioni di estrema sinistra e rampollo di una classica famiglia borghese. Il padre, pastore, pensa unicamente alla conservazione delle campane e alle celebrazioni per i tedeschi di Slesia sfollati in seguito alla guerra mondiale. Hille è svampito, va malissimo in latino e quando la proprietaria del negozio di animali gli chiede di occuparsene per un paio di settimane, lui se ne scorda con conseguenze tragiche. In un certo senso, la sventura del titolo è il protagonista stesso. Sul finale la catastrofe colpisce tutta la comunità, con un’industria che inquina le acque e una rivolta raccontata con toni che ricordano il Lindsay Anderson di If…. (1969). Notevole anche la sequenza nel seminterrato arredato di tutto punto con gli anziani che cantano Heimat, Heimat, che vista oggi sembra il trailer ante litteram di Im Keller (2014) di Ulrich Seidl. Su vimeo si possono vedere i primi minuti del film, disponibile per il noleggio digitale in versione restaurata. Per molti anni Das Unheil è scomparso dai radar, e ora colpisce come i piani sequenza di Fleischmann, la macchina da presa che insiste, accompagna e insegue (persino una piuma, in barba al banale) creino un’atmosfera molto più dei temi sociali inseriti a mo’ di pasquinate. L’ossessione di Hille per un giochino idiota a molla, simile alla pallina di gomma di Michele Apicella, spalanca più abissi della critica alla società ingessata.

Dorotheas Rache (1974) è un film da prendere con le molle. Non è un caso che manchi dal sito ufficiale che gestisce il lascito di Fleischmann, mentre invece è stato recuperato via deep dark web sul meritorio rarefilmm. L’unico posto, peraltro, dove si possono vedere i primi tre film di Christian Petzold, prodotti per la televisione. Scritta insieme a Jean-Claude Carrière (una manovra per qualificarsi come il Buñuel teutonico) e con una colonna sonora di Philippe Sarde, la pellicola è una parodia scoperta dei cosiddetti Aufklärungsfilme, vale a dire i film “educativi” girati per spiegare gli argomenti più delicati. Il primo film in assoluto sull’omosessualità, Anders als die andern (1919, di Richard Oswald), è un Aufklärungsfilm con comparsata serissima del sessuologo Magnus Hirschfeld. Cinquant’anni più tardi, il genere funge semmai da giustificazione per immersioni pruriginose tra il porno soft e il mondo movie. In questo caso pediniamo la protagonista (Anna Henkel) in una spirale, piuttosto indigesta, di voyeurismo ed exploitation, femminista nelle ambizioni ma ultramaschilista nell’esito. La “vendetta” di Dorothea consiste, alla fine del girone infernale, nel rititarsi in campagna coi suoi amici coetanei e spassarsela senza che il nostro occhio batailliano possa continuare a fare il peeping Tom. Dietro di lei vengono tirati dei tendaggi rossi, e Dorothea svanisce in dissolvenza con un gatto in braccio. Lei, la sua Heimat, l’ha trovata. Se esiste un modello per la trasposizione cinematografica di Der goldene Handschuh (2019) a cura di un Fatih Akin allo sbraco, è questo. A cominciare dall’uso che Fleischmann fa delle canzoni Schlager più melense, vere protagoniste musicali del film. La dolcissima Dorothea (questo il titolo italiano) è una celluloid atrocity figlia del proprio tempo. La negatività escoriante delle Scene di caccia diventa qui un mostrare e un osare a tutti i costi in evidente concorrenza col porno, dal quale non sempre riesce a distinguersi, né facendo leva sul grottesco, né ricorrendo all’umorismo (anche Deep Throat è un film umoristico). E allora il film si apre con una Dorothea in cenci reduce da un incontro ravvicinato di quel tipo là, per il quale ha ricevuto in regalo dagli alieni uno strano uovo cosmico fumante. I genitori, al solito borghesi e un po’ citrulli, si domandano se la pillola funzioni anche in casi come questo. Fleischmann e Carrière danno spazio alla prostituzione improvvisata, alle pratiche estreme (con un cliente crocifisso dalla gamba amputata), persino alla pedofilia e all’incesto. A un certo punto compare Gesù Cristo (simil-hippie) che dice alla protagonista: “Schlafe mit Kindern und Narren, und Du wirst glücklicher sein”. Detto fatto: Dorothea approccia uno scolaretto per strada – salvo essere poi scacciata dalla madre – e si concede a un pazzo vagabondo mentre una giovane donna utilizza le sbarre del passeggino per masturbarsi al ritmo dell’amplesso. Situazioni gratuite e drammaturgicamente piatte che trovano però un corrispettivo diretto nella volontà di provocare (per provocare) di pellicole coeve come Sweet Movie di Dušan Makavejev o anche il Salò di Pasolini. Sono gli anni Settanta, bellezza. In un’altra scena, Dorothea mette il padre in imbarazzo ipotizzando di andare a letto insieme. Cosa che non succede (e ci mancherebbe). Meno maledettista ma più curiosa, a quasi mezzo secolo di distanza, è la professione del padre interpretato da Günter Thiedecke, imprenditore che fa Lachsäcke, letteralmente bisacce che, se scosse, riproducono il suono di una risata. Bisacce e altri articoli demenziali degni dell’ispettore Clouseau. La scena in cui si vede la catena di montaggio di questi dispositivi vale tutto il film. E il dramma vero, nel contesto slabbrato della trama, è che la concorrenza dell’Estremo Oriente sta facendo fallire la fabbrica, tant’è che alla fine l’uomo è solo nello studio di registrazione a incidere le proprie stesse risate. Possibili metafore a non finire, valide ora come allora, sul capitalismo e oltre.

Il film successivo di Fleischmann, Der dritte Grad (La faille, 1975, titolo italiano La smagliatura), è un poliziesco kafkiano tratto dal romanzo Lo sbaglio di Antonis Samarkis. Trio di attori di richiamo (Piccoli-Tognazzi-Adorf) scaraventati sotto il sole del Peloponneso. Musiche di Morricone, almeno una scena memorabile (il barbiere sudato) e la sensazione di un progetto a tavolino che strizza l’occhio a quattro mercati europei e a due fenomeni cinematografici di quegli anni, cioè i film di Petri e di Costa-Gavras. Esito tutto sommato neutro – con due dettagli che restano nella testa, guarda caso giochini kitsch: un “labirinto del minotauro” di plastica da manovrare manualmente per farvi zigzagare una pallina metallica, e uno strepitoso accendino robotico cosparso di conchiglie che Adorf mostra con orgoglio durante una cena al ristorante. La faille si recupera solo in dvd raschiando il fondo del barile. Altrettanto irreperibile Frevel (1983), storia dall’impostazione gialla con Fleischmann anche attore protagonista e la colonna sonora di Brian Eno. Questo a dimostrazione di come il regista fosse non solo attento all’avanguardia musicale, ma anche un nome spendibile ad altissimi livelli. Complice Il morbo di Amburgo (1979), una zampata scomposta ma assimilabile a Scene di caccia per eco di critica e pubblico. Stavolta il co-sceneggiatore di Fleischmann è addirittura Roland Topor, reduce dal successo di Le locataire di Polański. L’apocalisse sociale si compie sotto forma di un’epidemia misteriosa che si diffonde per via aerea e colpisce in maniera imprevedibile: gli infetti s’immobilizzano di colpo, cadono a terra, si mettono in posizione fetale e muoiono. Schiatta anche il cancelliere. Nella seconda parte del film portano tutti le mascherine chirurgiche. La colonna sonora include la kosmische elettronica di Jean-Michel Jarre, che veicola alla perfezione un’atmosfera fantascientifica. In realtà a Fleischmann interessa solo portare avanti il suo vecchio giochino: tesi provocatorie che non stanno in piedi, sabotaggi e frecciate. La lettura più facile è quella della natura che si ribella – all’epoca Joseph Beuys era su tutti i giornali, stavano nascendo i Verdi – ma la pellicola non è trainata da una logica di genere. Il virus non è interessante. Nell’economia della sceneggiatura colpiscono di più la morte dell’eroe – o presunto tale – a metà film, Fernando Arrabal nei panni di un disabile in sedia a rotelle (Ottokar), arrogante come tutti i maschi adulti incontrati da Dorothea, e una persona intersex denudata per épater le bourgeois. L’apparizione delle guardie bavaresi nella seconda parte è un chiaro richiamo a Scene di caccia. Il finale è una cannonata a parte, e visto che il film è disponibile su youtube coi sottotitoli sconsiglio la lettura del resto del paragrafo se si ha intenzione di vederlo. La protagonista femminile, Ulrike (Carline Seiser) sopravvive e si ritira nella propria Heimat insieme al nonno. Ed è proprio lui, che canta uno yodel decerebrato nella baita mentre la final girl viene portata via in elicottero dalle autorità – a scopi di vaccinazione coatta, vecchissima paura crucca – a segnare ancora una volta il KO per uppercut dell’Heimatfilm. Assurda e contagiosa, questa è l’ultima risata sguaiata a firma Peter Fleischmann.

Nel 1989, con 35 milioni di marchi di budget, il regista conclude il decennio d’oro del botteghino tedesco occidentale col flop che affosserà il resto della sua carriera. Es ist nicht leicht, ein Gott zu sein (Non è facile essere un dio) è la trasposizione di un classico della fantascienza sovietica di Arkadi e Boris Strugazki, sceneggiata ancora una volta insieme a Carrière. Fantascienza filosofica (i fratelli Strugazki sono gli autori di Stalker) tutta rocce, deserti, complotti e parrucconi grigi di nylon. Effetti speciali ridotti al minimo, messinscena teatrale. Ci sono Pierre Clementi nei panni di un sovrano isterico e persino Werner Herzog in un cameo che termina al minuto 16 con due lance nella schiena. Mero esperimento di Ostpolitik cinematografica a pochi mesi dalla caduta del Muro, il film si traduce in una maldestra allegoria della propensione umana alla barbarie. Colonna sonora a cura di Hans-Jürgen Fritz, piena di flauti sudamericaneggianti, e pezzone finale da juke boxe – It’s Hard to Be a God! – cantato da Grant Stevens. Chiunque egli sia. Nel 2013, prima di morire, Alexei German girerà una versione terragna e in bianco e nero del romanzo. Nel frattempo nel cinema tedesco è forse emersa un’unica personalità affine a Fleischmann, Christoph Schlingensief, fustigatore dell’Heimat – intesa come patria nazionale – e della CDU con i suoi happening pieni di attori fassbinderiani, unica concessione all’Autorenkino in film altrimenti brutti, sporchi e cattivi. Schlingensief è morto nel 2010, Fleischmann nel 2021. Oggi nessuno ha più voglia di frullare insieme distopie facili, bordate sociali e umorismo da whoopee cushion. Un male?

Edward Żentara e Werner Herzog in Es ist nicht leicht, ein Gott zu sein (1990)

Herbert

Bist du einsam?

L’immagine qui sopra è l’ultima del documentario Achternbusch (2008) di Andreas Niessner. Il regista gli ha appena chiesto “Bist du einsam?”, ti senti solo? Herbert ci pensa su, poi spara “Lass mal diese offen”. Lascia la domanda in sospeso. Il documentario termina e il suo protagonista, il Karl Valentin degli anni Settanta e Ottanta, scompare dai radar fino alla morte, avvenuta nel gennaio del 2022.

Quella per Achternbusch è una delle ossessioni che mi hanno portato in Germania ormai sedici anni fa. Ho ancora in casa i suoi libri editi da Suhrkamp, colonne di testo illeggibili frutto di una grafomania vera, non sempre ispiratissima. E i suoi film, be’, ora come allora vanno visti coi sottotitoli, per lo stesso motivo di uno Zio di Brooklyn o del Ritorno di Cagliostro. Parlati in un bavarese stretto che farebbe la gioia solo di Werner Herzog, in termini linguistici sono steli arcaiche graffiate dai secoli. Sono anche molto fisici, ed è stato questo a sedurmi a suo tempo. Ogni tanto il dialetto cede il passo a frasi lapidarie, intelligibili, devastanti. Du hast keine Chance, aber nutze sie. Oppure l’ammissione, nel documentario Das Schaf im Wolfspelz (1990) di Walter Smerling, di dipingere spinto da una gottlose Depression. Herbert è il coautore della sceneggiatura di Cuore di vetro (1976), il film di Herzog girato in stato di ipnosi. Ma al contrario di Herzog, Achternbusch non ha abbandonato la Baviera e la guerra di trincea senza fine contro la propria stessa Heimat, combattuta ad armi impari. In dialetto, ma senza soldi. Nel 1983, una delle poche volte che era riuscito a ottenere una sovvenzione pubblica, gli chiusero i rubinetti perché la pellicola in questione si era rivelata blasfema. Dopo gli esordi negli anni Settanta nella cerchia giusta, spalleggiato da Herzog e con la musa Margarethe von Trotta in forma d’attrice, dalla metà degli anni Ottanta Achternbusch passa ai super 8 e produce in maniera sempre più amatoriale, facendo dei suoi film riottosi degli happening tra amici simili a quelli di Christoph Schlingensief, anche se molto meno cool e politicamente programmatici. Si avvita su sé stesso, si isola, l’ultimo mediometraggio datato 2002 s’intitola L’applauso di una mano sola.
Questo articolo riprende e rielabora testi già apparsi su lankelot.eu e Rapporto confidenziale. In italiano, l’unico volume critico su HA era e resta Tutto in una volta. Herbert Achternbusch, a cura di Marco Farano e Sergio Toffetti, Lindau, Torino 1996.

Il primo film di Herbert, Das Andechser Gefühl (1974), reca già tutti i tratti della sua produzione successiva. Ambientato in un paesello della profonda Baviera tra Biergarten, laghi e anguste abitazioni private, il film lo vede protagonista in compagnia di Margarethe von Trotta. Il titolo è una strizzata d’occhio merceologica al Mulino Bianco tedesco. Trama: l’idillio apollineo del paese viene sconvolto dall’arrivo di una bellissima attrice (Trotta). La macchina da presa è fissa, i personaggi immobili, seduti davanti a una birra, sguardo perso nel nulla – salvo sbottare in aforismi surreali o nei lunghi monologhi femminili che caratterizzeranno la produzione teatrale di Achternbusch. A fare da spalla a Herbert intervengono figure grottesche come il baffuto Heinz Braun, che pare balzato fuori da vecchie strisce come Max und Moritz o Vater und Sohn. La sequenza finale, che ricorda il tardo Buñuel, vede un tentativo di matrimonio tra Herbert e Trotta, un prete di passaggio, una tazza con Gesù Cristo disegnato sopra… e l’accoltellamento del protagonista. Una delle tante morti apotropaiche di Achternbusch sullo schermo: suicida in acqua, a capofitto in un vulcano o colto da coccolone.

Du hast keine Chance, aber nutze sie! Non hai alcuna chance, ma sfruttala – urla Herbert travestito da donna prima di buttarsi a mare in Die Atlantikschwimmer (1975), storia di due perdigiorno che decidono di attraversare l’oceano a nuoto per vincere i 100.000 marchi messi in palio da un supermercato. Prima cosa: imparare a nuotare. In questo verrà loro in aiuto l’istruttrice di nuoto interpretata da von Trotta. Luoghi del film, alla rinfusa: uno zoo, un Biergarten, una Kneipe, la piscina, la spiaggia (topos in Achternbusch così come nei film di Marco Ferreri). I piani restano statici, gli spazi vengono attraversati irrimediabilmente da sinistra a destra. Il découpage è secco, elementare, senza sfumature. Il montaggio trancia e addiziona, trancia e addiziona. A volte un personaggio irrompe dal nulla in una conversazione che ha ascoltato fuori campo, un po’ come Marshall McLuhan “evocato” da Allen in Annie Hall (1977). I primi piani sono rarissimi, ma quando i personaggi si prendono la libertà di un monologo o di una canzone finiscono per guardare dritto in macchina. Vi sono, tuttavia, due primissimi piani di bocche (à la Švankmajer, a posteriori), in particolare quando Braun cerca di mangiarsi un uccellino. Nei film di Achternbusch gli animali, spesso esotici e in gabbia, paiono avere la stessa funzione di apparizione o monito tipica dei film di Jodorowsky o di quelli messicani di Buñuel.

Servus Bayern (1977) è uno dei titoli più conosciuti di Herbert, che qua interpreta un poetucolo spocchioso deciso a farla finita con la sua terra natìa. Da un punto di visto tecnico si notano una camera mobile e un montaggio più attento e curato. Tra le scene più interessanti, un incontro amoroso in campo lunghissimo cui segue il dettaglio di un fiore scosso dalla meccanica dell’atto sessuale, e un siparietto demenziale tra Herbert e il solito Braun, nei panni rispettivamente del contadino scemo e del poliziotto tutto d’un pezzo. Per tutta la durata del dialogo, Herbert bagna i piedi del compare con un innaffiatoio. Il film vanta un’impetuosa tirata contro la Baviera e la CSU che si conclude con la decisione, da parte di Herbert, di rifugiarsi in Groenlandia. Prima, però, si darà alla macchia facendo il ladruncolo e finirà per crepare di cirrosi nel retro di un Biergarten, con la cacca nei pantaloni, mentre una cameriera sfodera un monologo lungo quasi dieci minuti interrotto solo dal primissimo piano di un occhio. Nel finale, immagini da denuncia di rane crocifisse, vento felliniano e un panorama aereo della Groenlandia, muto, senza titoli di coda.

Bierkampf (1978), girato durante l’Oktoberfest, è l’esempio più brillante di film d’improvvisazione targato Achternbusch. Per alcuni, è il prototipo dei film molesti di Sacha Baron Cohen. La struttura è ancora più cedevole del solito, ma invece dell’immobilità e degli spazi vuoti abbiamo l’universo brulicante, il viavai anarchico dell’evento bavarese per eccellenza. Herbert interpreta un poliziotto in crisi che si aggira tra gli stand. La colonna sonora è dominata da un unico trombone che s’intravede, per un attimo, suonato da un tizio prima in un pisciatoio pubblico, poi appoggiato a un muro – al che Herbert si avvicina, prende lo strumento, lo suona e si sincronizza con la bande son. Al di fuori dell’Oktoberfest vi sono solo due scene: una domestica e una bucolica, con una strada verso il nulla che ricorda Il fascino discreto della borghesia (1972). Nella seconda parte del film Herbert bazzica il luna park della birra al solo scopo di infastidire gli avventori. La sua comicità è smaliziata ma confusa, tutta a base di faccia di bronzo e invadenza. Parla poco e per aforismi, punzecchia, fa i dispetti, tant’è che un tipo a un certo punto lo insegue e gli molla un papagno vero. Alla fine il caos aumenta e conduce al suicidio del poliziotto, fuori campo. Vediamo un clown cadere a terra. I suoi palloncini volano verso le statue di un palazzo storico, poi verso il cielo notturno. So hört es auf. Così smette.

Das Gespenst (1982) è la pellicola più famosa e controversa di Achternbusch, girata nello stesso bianco e nero pauperista di Das letze Loch (1981), in cui Herbert aveva interpretato un soldato cretino alle prese con l’Olocausto. Lo spettro del titolo è il quarantaduesimo Gesù Cristo, interpretato dal regista, che si aggira per l’Alta Baviera con una pezzuola attorno ai lombi, una corona di spine di stoffa, un gabbiano di sopracciglia disegnate e due enormi areole attorno ai capezzoli. Il tentativo di replicare sul continente il successo di Life of Brian dei Monty Python è evidente, anche se Herbert non ha la mente di sei uomini e nemmeno un George Harrison a finanziarlo. Il Gesù vagabondo e imbambolato di Herbert si fa chiamare Ober, capo cameriere, e in tale veste appare nel primo capitolo Ober und Oberin, in cui scende dalla croce e si confronta con una suora tra una serpe che scivola tra le mele e momenti scatologici. Il terzo dei cinque siparietti, Und der Mund, rivede Ober con la sua Oberin, stavolta in campagna. Ober le fa un vero e proprio terzo grado sulla sessualità, poi passano all’azione. Nei pressi c’è uno stagno pieno di rane sulla cui superficie il messia fa giusto due passetti. Ascher Fascher, l’ultimo segmento, si conclude con la metamorfosi dello spettro in serpe, portata in cielo tra le grinfie di un’aquila dopo il monologo della suorina. Sullo schermo appare la parola Amen.

Riabilitato solo nel 1993, Das Gespenst ha rappresentato un caso negli anni Ottanta. Achternbusch, va detto, la prese male, perché si considerava davvero un comico della religione e in più di un’occasione ha paragonato il cinema a un rito religioso arcaico. Il suo successivo ripiegamento su minuscole produzioni addirittura prive del suono in sincrono equivalse a una guerra privata, forse fuori tempo massimo, ai recensori e ai censori bavaresi. Divenne una sorta di Hiroo Onoda senza riscatto. Ogni tanto, come nel 2004, lo hanno commemorato a metà. Nell’ambito della mostra Grotesk! allestita negli spazi della Haus der Kunst di Monaco erano esposti i manifesti dei suoi film e c’era persino la proiezione in loop di Der junge Mönch (1978), storia di un monaco imbecille che diventa papa. Peccato che al momento di mandare il catalogo in stampa si siano dimenticati di lui, e il volumone uscì senza alcun accenno a Herbert. Ammenda: un quartino aggiunto e infilato alla meno peggio, come quegli errata corrige che nessuno legge.

I film successivi a Das Gespenst sono ancora più difficili da digerire. Heilt Hitler (1986), con quella T provocatoria che converte il motto nazista in un assurdo appello alla seconda persona plurale, vede Herbert nei panni di un soldato redivivo in giro per Monaco. Il finale, a metà strada tra lirismo e pernacchia, vede un contadino pisciare in un lago al tramonto e imprecare “Heil a voi, curatevi da soli, razza di stronzi”. Hick’s Last Stand (1990) vede finalmente l’approdo di Achternbusch in America, per l’esattezza in Wyoming. Stavolta travestito da indiano, Hick (suo alter ego negli anni Novanta) fa meno marachelle del previsto in questo filmuccio che vuole leggere il Grande Paese con la medesima lente surreale della Ballata di Stroszek, e che si risolve di fatto in riprese di camion con una malinconica voce epistolare fuori campo. La regressione alla comica muta, ineffabile, in stile Karl Valentin si compie con l’esile I Know the Way to the Hofbrauhaus (1992), ennesima flânerie monacense con tanto di mummia uscita da un museo. Achternbusch è ormai solo col suo motto “nicht können, sondern kontern”, la sua lotta maldestra e forse vacua allo status quo locale. Perché a ben vedere i suoi quasi trenta film sono una lunghissima dichiarazione d’amore alla Baviera.

Nel 1977, cappello a falde larghe e abiti candidi da poeta, esclama seduto in un Biergarten: “In Bayern möchte ich nicht einmal gestorben sein”, in Baviera non vorrei nemmeno essere morto. E invece.

Picasso in München, 1997.

Pabst. Bunker.

Rarefilmm, The cave of forgotten films, è il contrario di un bunker. Col suo richiamo all’unico documentario di Werner Herzog in 3D è semmai una spelonca sognante, guilty pleasure per noi cinefili a cui non bastano né il content algoritmato al cubo di Netflix, né le curatele ben pettinate di mubi. Jon, artefice del sito e del canale youtube che lo integra, rischia grosso e non teme di appoggiarsi a infidi server russi. Tutto pur di rendere accessibili, visibili, divorabili, film spesso dimenticati persino da chi ne detiene i diritti. Come Der letzte Akt (1955) di Georg Wilhelm Pabst, il primo film tedesco post-bellico con Hitler protagonista.

Premessa, contesto. In questo articolo non si parla del ratto in cantina, come lo definì il cosceneggiatore Erich Maria Remarque. Si parla di immaginario, di cinema e di rappresentazione di fatti storici. L’ultimo atto è un film interessante non solo nella cornice noiosissima degli anni Cinquanta tedesco occidentali, ma anche e soprattutto prendendo in considerazione i film che fino a oggi fanno leva sul baffetto e la frangia. Quello di Pabst è un film che va visto in quanto iniziatore di un genere. Ruppe un ghiaccio clamoroso in ambito germanofono, e sono proprio le sue sbavature a renderlo ancora affascinante. Il regista, austriaco, ottima reputazione durante la Repubblica di Weimar, aveva lavorato anche sotto il nazismo pur non sfornando film di (estrema) propaganda. Nel suo saggio Naziskino (Lindau, 2010), Ugo Casiraghi gli dedica pagine puntuali.

Gli anni Cinquanta della RFT sono stati quelli in cui Veit Harlan si poteva persino permettere di girare un vomitevole pamphlet contro l’omosessualità (Anders als du und ich, 1957, remake velenoso dell’Aufklärungsfilm Anders als die anderen, Richard Oswald, 1919) mentre l’ex rivale Wolfgang Liebeneiner trascinava le folle in sala per vedere Die Trapp-Familie (1956), lezioso Heimatfilm. Le eccezioni alla regola del cosiddetto Papas Kino, contro il quale si scaglieranno i firmatari del manifesto di Oberhausen, furono davvero poche. Il nerissimo Der Verlorene (1950) di Peter Lorre, Jonas (1957) dello psicoterapeuta Ottomar Domnick, sul fiorente fronte bellico Die Brücke (1959) di Bernhard Wicki, noto anche all’estero. L’ingessata cinematografia tedesco-orientale, che a suo tempo prendeva a piene mani dai fratelli Grimm, rischiava di far miglior figura. In ogni caso, nessuno nel 1955 si aspettava un film tedesco sul ratto nel bunker.

Tratto da 10 Days to Die di Michael Musmanno, testo dal taglio giornalistico che racconta “i dieci giorni che sconvolsero il mondo”… a fine aprile 1945, il film di Pabst mette in scena quello che sappiamo già grazie ai meme con Bruno Ganz: le ultime ore dei nazisti nel Führerbunker berlinese mentre i sovietici piombavano sulla città in macerie. In termini di precisione storica, il furbissimo polpettone di Hirschbiegel uscito nel 2004 ha una marcia in più. Così come l’happening delirante di Christoph Schlingensief 100 Jahre Adolf Hitler (1989), con Udo Kier baffettato, si avvicina forse maggiormente alla verità sul piano umorale. Quello di Pabst è il tentativo coraggiosissimo e claudicante di rifilare al pubblico tedesco, a dieci anni dalla capitolazione, una messinscena realistica di quei giorni. Con un attore (l’austriaco Albin Skoda) nei panni del ratto e altri attori, il più possibile somiglianti, a far tutte le parti in commedia. Willy Krause vinse al lotto con la sua faccia dolente da Goebbels, finendo per interpretarlo altre due volte (come nel film su Stauffenberg che Pabst girò subito dopo). Uno strano destino che in tempi più recenti è toccato anche all’attore della DDR Sylvester Groth, ministro della propaganda sia sotto Tarantino, sia sotto Dani Levy (nel tremendo Mein Führer, 2007). Nelle sue sequenze in interni, di bettole e soldati beoni, Inglorious Basterds deve moltissimo a Pabst.

A vestire i panni del buon tedesco è invece il giovane e bello Oskar Werner, in teoria vero protagonista del film e latore del messaggio finale (Restate all’erta – Non dite mai più signorsì!). In teoria, perché in pratica il suo personaggio strafottente è poco credibile. Attorno a lui, i militari riottosi vengono fucilati in qualche budello del bunker, mentre il capitano Wüst ottiene udienza col ratto – remissivo e imbambolato solo in sua presenza – e gli sparano solo quando l’omarino grida aiuto, messo all’angolo. La verità è che Wüst non è il protagonista del film. Grazie a una dissolvenza incrociata, il montaggio gli concede l’ultima parola sullo sfondo del cadavere in fiamme nella vasca di zinco, ma il ratto vince a mani basse, per minuti passati sullo schermo e forza motrice. Qui la pellicola dimostra la sua prima debolezza. Dinanzi al supervillain noto in tutto il globo, la denuncia si annacqua di exploitation e il disprezzo diventa – forse involontariamente – voyeurismo. L’unica lente efficace è quella del grottesco. Esilarante un’improvvisa tirata del ratto contro gli interpreti – Li odio! Chi conosce due lingue è inaffidabile! Sul finale, la pallottola che lo stende risuona dietro una porta chiusa, il cadavere non si vede, ma ecco lo scatto di reni: la prima reazione della cerchia ristretta è grandiosa. Tutti, nelle loro brave uniformi, si accendono una paglia.

In un altro punto il film, insieme alla sua fonte letteraria, fa acqua: l’allagamento di parti dell’U-Bahn berlinese, dove in quei giorni si erano rifugiate ampie fette della popolazione. La certezza storica che la decisione sia stata presa dai nazi allo scopo di ostacolare l’infiltrazione sovietica non c’è. Mentre il film la fa uscire dalle labbra strepitanti dell’omarino, facendo inorridire un ufficiale. Le scene dell’allagamento vero e proprio, girate a Vienna, sono efficaci per l’epoca (oltre che per i ristretti mezzi della Cosmopolitan Film) e servono soprattutto a mo’ di prova provata dell’abiezione hitleriana. Da un’ottica contemporanea, questo nesso spiazza e indigna. Perché è come se il film avesse bisogno di un ulteriore escamotage per denunciare il dittatore, dipinto come un pazzo morfinomane che parla col ritratto di Federico il Grande, urla senza ritegno (molto peggio di Bruno Ganz) e, sì, ogni tanto se la prende in egual misura con quei cani inetti dei suoi militari e con le razze inferiori, soprattutto gli slavi. Che manchi qualcosa di enorme, altro che elefante nella stanza, è adamantino. Forse allora non lo era, o almeno i dibattiti erano centrati su altri temi, e nessuno, dopo lo sveltissimo processo di Norimberga già pungolato dalla guerra fredda, nessuno si sarebbe immaginato un processo Eichmann. Poco importa a che punto fosse la Vergangenheitsbewältigung: questa mossa per spiegare i torti del nazionalsocialismo restando a livello locale silura l’impianto narrativo.

Meglio, molto meglio una sequenza ambientata nella U-Bahn ridotta a lazzaretto dove un vecchio nazista orecchia le lamentele di un soldato ferito e minaccia di denunciarlo, chiedendogli ripetutamente il nome e finendo per essere a sua volta minacciato da una schiera di bonarie casalinghe. Ovvio, il soldato è un modello biondo, il vecchio calvo e rattiforme, le mamme berlinesi simpatiche e aggrappate al dialetto. Stereotipi. Ma almeno si mette in scena la svolta nel popolo profondo, quello che fino a pochi mesi prima aveva ripetuto a pappagallo i motti roboanti di Goebbels. Svolta dettata dalla sopravvivenza.

Der letzte Akt andò malissimo in Austria e Germania, molto meglio negli Stati Uniti. Il resto è genere, ossessione, ruminamenti infiniti dell’immaginario come quelli orditi da Syberberg, o sfacciati e fulminanti come Eine Freundschaft in Deutschland (1985) di Karmakar. Chissà cosa sarebbe successo se Pabst fosse riuscito a fare questo film nel 1948 ingaggiando com’era sua intenzione, invece di Albin Skoda, il Werner Krauß già dottore ipnotizzatore nel Caligari (1919) e rabbino in Jud Süß (1940).