Sarà perché sto per tornare all’università nei panni dello studente lavoratore e tardone, sarà perché anni or sono le ho voluto tanto bene. Per farla breve, ho ripescato la mia vecchia tesi di laurea e le ho fatto il tagliando. S’intitola Linee di massima pendenza e parla di cinema e filosofia. Spunto, l’immagine-pulsione accennata da Gilles Deleuze nel primo dei suoi trattati scopofili degli anni Ottanta. Obiettivo d’antan: discutere la tesi – correva l’anno 2001 – infliggendo una celluloid atrocity in forma di videocassetta alla commissione accademica.
Ricordo ancora il momento in cui, a casa di mia nonna paterna, lessi il capitoletto striminzito di Cinema 1 – L’immagine movimento che tratta l’immagine-pulsione. Doveva essere il 1998, a suo tempo ero un collezionista ossessivo e corsaro di film in formato analogico, e le poche righe che Deleuze dedica a questo tassello difettoso della sua tassonomia mi lasciarono a bocca aperta. Seppi subito di aver trovato l’incrinatura attraverso la quale passa la luce. Mi attrezzai per un lavorone e ne uscirono quattrocentocinquantamila battute tra il visionario e la schiuma alla bocca. Abituato com’ero a scrivere a mano (a caratteri maiuscoli, come se non peggio di un serial killer), l’esperienza di usare Word sul pc attrezzato con Windows Millennium Edition è stata formativa nel senso agghiacciante del termine. Le tesine le avevo scritte tutte su un computer accessibile via Norton Commander. Refusi e sbavature a balùs.
Questo spiega il tagliando a vent’anni tondi di distanza. Riaprendo il file, l’orrore ha spalancato le sue fauci lovecraftiane fin dal frontespizio, al che mi son detto diamogli una scorsa. Ora il testo è più leggibile, ha delle pagine in meno – roba compilativa inutile – e sebbene le norme adottate siano quelle che sono, stanno in piedi. Il rizoma è salvo, anche se sbuffa e sferraglia come un marchingegno steampunk. Qua e là ho anche aggiustato l’argomentazione e inserito dei passi che portano l’immagine-pulsione negli anni Venti di questa nostra millennium edition. Il file sta qui:
A mo’ di abstract, c’era una volta Gilles Deleuze senza Félix Guattari. Deleuze era un cinefilo compulsivo, e tra il 1983 e il 1985 pubblicò l’opera in due volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Traduzione italiana rispettivamente di Jean-Paul Manganaro e Liliana Rampello, edita da Ubulibri (ora Einaudi dopo auspicabile revisione). Non una storia del cinema, bensì una tassonomia, o meglio una cassetta degli attrezzi – metafora che aiuta a capire l’intero costrutto del pensiero deleuziano. Prima di approdare a una dimensione più cerebrale e postmoderna (quella di cui si occupa Cinema 2), in Cinema 1 il filosofo individua delle “immagini” che vanno pian piano a comporre la sintassi filmica classica. Parte dal primo piano (immagine-affezione, possibilità pura) ma s’inceppa subito in quello che rappresenta lo snodo negativo, devastante e malfunzionante che ostacola il raggiungimento dei solidi stilemi del cinema hollywoodiano (l’immagine-azione). Questo passo falso, che disfa invece di imbastire, che fa terra bruciata e non ci fa uscire dalla sala con un senso di appagamento e conferma, questo Odradek riottoso del grande schermo è l’immagine-pulsione.
Come riconocerla? Da pezzi, abbozzi, sintomi e feticci, dai Triebe freudiani che ci squassano impedendoci di pensare razionalmente. Vettori che puntano al sesso – quasi mai riproduttivo -, alla morte (propria e altrui), al denaro. Storie viscerali che finiscono male. Congegni narrativi carichi come molle, che ti esplodono in mano. Dischi rotti. Ambienti esauriti, corpi sfiniti. È il naturalismo, versione grezza del realismo e al contempo più vera del vero. Perché neanche la realtà ha la battuta pronta e un lieto fine dietro l’angolo.
Deleuze individua due maestri della pulsione al cinema: Erich von Stroheim e il Luis Buñuel allo stato brado, tra Las Hurdes (1932) e la rinascita con Viridiana (1961). In mezzo ci sono i famigerati “film messicani”, allora in parte reperibili solo grazie a Fuori orario. Stroheim rappresenta la forma più pura di immagine-pulsione, autodistruzione compresa. Greed (1924), tratto dal romanzo McTeague dello “Zola americano” Frank Norris, segna il punto di non ritorno per un cinema non solo inguardabile da parte del pubblico di massa, ma soprattutto improducibile a livello finanziario. Non a caso, il film circolò in una versione vergognosamente monca per interi decenni, e col sonoro Stroheim dovette appendere la cinepresa al chiodo. Solo Billy Wilder in Sunst Blvd. avrà il genio e la riconoscenza di farlo riapparire sullo schermo, lui e un altro martire delle metamorfosi produttive di nome Buster Keaton. Nella tesi parlo ampiamente sia di tutti i film diretti da Stroheim, sia del Buñuel costretto alla sua traversata nel deserto. Pur di lavorare, il regista spagnolo accettò infatti per un quarto di secolo progetti spesso alimentari, nei quali riuscì tuttavia a infilare dei semini. Autentica sabbia negli stessi ingranaggi che andava ordendo. Con Buñuel l’immagine-pulsione diventa inserto disturbante, sabotaggio. A una messinscena tutto sommato piana si aggiungono elementi come un cazzotto (o un rasoio) nell’occhio. Los olvidados (1950) ingannò tutti con l’etichetta neorealista quando invece il neo era nero, le scene oniriche invadevano la realtà sotto forma di polli minacciosi e il grottesco, la cattiveria, da marchi d’infamia diventavano semplicemente la misura del mondo. Per sicurezza, Buñuel aveva pure girato un happy end. Altrimenti rischiava di finire lui nella Tierra sin pan.
Il terzo esempio deleuziano di immagine-pulsione, meno presente in Cinema 1, è dato da Marco Ferreri, il fisiologo per eccellenza del cinema italiano. Nella tesi ne parlo con particolare attenzione al corto Il professore, alla Donna scimmia e allo straordinario Break up, versione lunga dell’Uomo dei cinque palloni. In Ferreri l’immaginario pulsionale diventa più pop e stravagante rispetto alle classiche ossessioni stroheimiane o buñueliane per i piedi o gli animali selvatici. Break up racconta la storia di un industriale del cioccolato (Marcello Mastroianni) che s’incaponisce per capire fino a che punto si possa gonfiare un palloncino. A casa ne ha cinque, e quando anche il quinto esplode frustrando il suo intento scientifico – che nel frattempo gli ha desertificato la vita – non gli resta che buttarsi dalla finestra, spiaccicandosi su una macchina nella Milano prenatalizia. Analoghi percorsi verso il fondo, in un assurdo che fa male, si assistono nei ben noti Dillinger è morto e La grande abbuffata. Ferreri è stata una figura mastodontica del nostro cinema, spesso presa sottogamba per via della presunta sciatteria o della bassezza incomprensibile dei suoi temi.
Con Ferreri termina la parte di ricerca classica della tesi e inizia quella sperimentale con la sigaretta nelle narici. Puntando tutto sul verde della roulette, azzardo nomi nuovi nel prosieguo dell’immagine-pulsione secondo la buona vecchia politica degli autori baziniana. Questi nomi sono David Lynch (in primis l’incipit di Blue Velvet, ma anche la striscia di Moebius decerebrata di Lost Highway), Peter Greenaway (che fonde barocco digitale, ossessioni idiosincratiche e carnezzeria) e Jan Švankmajer, surrealista come Buñuel, maestro nel far rivoltare gli oggetti e nel ridurre gli esseri umani a insetti sragionanti. In coda, un cenno a Tsai Ming-liang e a qualche nome – anche nuovissimo – che fa collidere la pulsione col cervello, la fame da zombi con l’emicrania, il genre col gender.
Mentre ero sotto tesi ho avuto il privilegio di intervistare di persona, a Ostia, l’unico accademico italiano che all’epoca aveva sposato con slancio la tassonomia deleuziana: Roberto De Gaetano. La lunga chiacchierata con lui ha segnato il momento più alto di un periodo altrimenti caotico, con un drone in testa e troppi eventi in contemporanea per lanciarsi nell’ascensore senza fili della concentrazione vera. Tant’è che nella versione finale della tesi uno dei nomi ricorrenti compariva col nome di battesimo sbagliato (Roberto Grande invece di Maurizio), Buñuel aveva un segno diacritico ceco sulla n invece della bisciolina giusta e i refusi, anche nei paragrafi chiave, spuntavano come ovolacci. Tutto questo, dopo il tagliando, non c’è più. È rimasto qualcos’altro. Il giorno della discussione proiettai una vhs assemblata poche ore prima con due videoregistratori. Si vedeva questo:
Pure la data di realizzazione di Queen Kelly avevo sbagliato, 1919 invece di 1928-9. Non so cosa dissi, alla fine strinsi la mano solo al relatore capo – che non avevo chiamato chiarissimo sui volumi sfornati in copisteria – tornai a casa in vespa e vidi una mail di De Gaetano che lamentava la cattiva citazione dell’amico Grande. Già lavoravo a tempo pieno da un anno e mezzo: decisi che l’accademia non faceva per me. E rieccoci, come un disco rotto al ralenti, rieccoci qui vent’anni dopo con le stesse immagini in testa, e quache drone in meno.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.