the horse is the white of the eyes

Il palo della luce numero 6 che fa capolino nella parte 14 di Twin Peaks: The Return (visione di Andy)

Doveva succedere prima o poi, è successo. Il 16 dicembre 2022 David Lynch ha girato col telefono gli ultimi due clippini del suo canale YouTube. Come tutti i giorni, ogni maledetto giorno dall’agosto 2020, una previsione meteo per la giornata corrente e l’estrazione di un numero tra 1 e 10. Del canale ho già parlato qui, quando ormai la fase scoppiettante dei primi mesi aveva ceduto il passo alla solidità di un rito sempre uguale. Allora, l’orizzonte era un’interruzione dovuta alle riprese di Wisteria / Unrecorded Night, per Netflix. Ipotesi accantonata in questa forma. Intanto, la febbre lynchiana continua a oscillare generando a intervalli regolari passaparola su nuovi progetti, film in camuffa per Cannes, vecchi trucchi inseriti in nuovi formati ibridi. Mai i fatti di adesso, fine dicembre 2022, parlano solo di un rito lunghissimo interrotto di punto in bianco.

Il colpo d’occhio del canale è impressionante dal punto di vista quantitativo. 850 video del lotto numerologico – in realtà 853 – e 950 previsioni del tempo, a partire da quell’11 maggio 2020 di lockdown. E ancora: la ripresa di Rabbits, diciotto irresistibili clip con David al lavoro su qualcosa (il cosa non conta), un video isolato e svogliato di Q&A, l’unico peraltro in cui compare la vera artefice del canale, cioè la produttrice esecutiva e tuttofare Sabrina S. Sutherland, e undici corti. Alcuni recuperati dalle pieghe dell’immensa officina del cineasta di Missoula, tra cui il più cliccato in assoluto, Fire (Pożar), ufficialmente senza diacritico malgrado il titolo originale sia polacco e scaturisca da una delle collaborazioni gemmate dalle riprese a Łódź di Inland Empire. Altri nuovi, letteralmente fatti in casa, api, ragni e bacarozzi, una spiazzante ripresa lampo dell’immaginario di Dumbland e un omaggio volutamente analfabeta ad Alan Splet, fautore dei primi suoni lynchiani prima ancora che esistesse l’aggettivo. In tutto, quasi duemila video da moltiplicare per una media di un minuto e mezzo ciascuno. Si va verso le 40 ore di materiale.

Dopo l’opus magnum di The Return, questo canale nato in reazione al covid e per mantenere vivo il contatto con i fan durante un periodo di magra è a sua volta una grande opera, potabile non solo per gli appassionati hardcore. Per più di due anni e mezzo ha fornito un piccolo rituale quotidiano a migliaia di persone, me compreso. L’esatto contrario dell’I’m Not There di Dylan: eccomi qua, ci sono. Mi mostro tutti i giorni dicendo sempre le stesse cose e facendo sempre le stesse mosse. Con minime variazioni, vi ipnotizzo. Un margine filiforme di evoluzione e creatività che ricorda il discorso accademico. Gli ultimi mesi, con la metafora infantile del Fun Work Train dai vagoni sempre nuovi sfoderata ogni fine settimana, un po’ di corda l’hanno mostrata. Ma ora che il rito è finito c’è solo una tristezza abissale.

Il primo dicembre 2022 Lynch ha caricato un video “unlisted”, che non si trova né nelle playlist, né nell’elenco cronologico dei clippini caricati. Eccolo. S’intitola PEACE, tutto maiuscolo, ed è quanto di più semplice e sessantottino ci si possa immaginare. Sarà sicuramente piaciuto a Donovan, e come colonna sonora ha Fire to the Stars di Angelo Badalamenti, dal film The Edge of Love (2008) di John Maybury. Il lutto per Badalamenti ha segnato l’ultima settimana di pubblicazione dei clippini. La fine della musica annuncia anche la fine dei video.

Lynch ha sempre realizzato i contenuti per il canale da casa sua, a Los Angeles. Tutti i giorni, senza eccezioni. Una sola volta ha attivato lo smartphone prima dell’alba, precisando che aveva un impegno di lavoro. Probabile che si sia trattato del giorno in cui si recò sul set di The Fabelmans per girare la sequenza [spoiler] che lo vede nei panni di John Ford. Chi ha visto il film sa che si tratta degli ultimi minuti, un colpo di coda da maestro che corona uno dei film di Spielberg più affabulatori degli ultimi anni. A fuoco come Bridge of Spies o Ready Player One, ma senza un’impalcatura storica stringente o effetti in ogni dove. Spielberg si mette pericolosamente davanti allo specchio, come Rylance nei primi fotogrammi di Bridge of Spies, raccontando una storia di famiglia nei confronti della quale si può legittimamente alzare le spalle. Ma il film funziona, e a meraviglia, come storia di un’ossessione che ammutolisce. E questa ossessione, va da sé, è il cinema come racconto, come malta vitale e come luogo. Spielberg ha realizzato a sua volta un clippino introduttivo al film in cui ringrazia gli astanti di essere usciti di casa, di essere venuti fin lì, nel buio, col fascio di luce sopra la testa, per inocularsi due ore e mezza di droga buona. Lynch è l’ultima dose di questa iniezione spielbeghiana al cubo.

John Ford irrompe in scena come Phillip Jeffries / David Bowie in Fire Walk With Me (1992): svelto da sinistra, sbucando da una porta lignea invece che da un ascensore. Persino la segretaria (Jan Hoag) sembra uscita da Twin Peaks o da The Straight Story. Gli corre dietro e torna alla scrivania con dei kleenex pieni di chiazze vermiglie. Rossetto appena ripulito. Dopodiché, ladies and gentlemen, il film diventa The Cowboy and The Fabelman. Un solo dettaglio: la statuetta metallica del cavallo alle spalle di John Ford, su un tavolino alla sua sinistra. Questa immagine, ancor più del rito lunghissimo di accendersi un sigaro con lo zolfanello o del cappellino con visiera che Lynch usa sempre sul set, fa sì che il film più personale di Spielberg (parola di Spielberg) si tramuti, nel finale!, in un omaggio scoperto al “più grande regista mai vissuto”… cioè, diciamo, John Ford.

Oltre a essere una componente essenziale dell’immaginario western, il cavallo bianco è anche uno dei segnali di sventura di Twin Peaks. Apparso sottotraccia nel pilot della seconda stagione, poi ancora nell’episodio in cui Maddie viene uccisa da Bob, in una boutade di Windom Earle, in Fire Walk With Me (poche ore prima dell’assassinio di Laura) e nelle parti 2 (Loggia nera) e 8 (flashback del 1956) di The Return, il cavallo – ora in forma di statuetta – è il simbolo del male nell’ultimissimo episodio di Twin Peaks, la parte 18. Dale Cooper / Richard si ferma al diner di Odessa Eat at Judy’s, davanti al quale campeggia un cavalluccio, e a casa di Carrie Page, mentre conversa con lei, ce n’è un altro sulla mensola. Lynch stesso gioca col topos del cavallo pernicioso nel video realizzato nel 2017 per il Comic-con, mentre The Return usciva gradualmente su Showtime. La scelta, spiazzante e idiosincratica, di fare del cavallo bianco non un vettore di salvezza ma un presagio di rovina, è uno degli Acheronti sotterranei che perturbano la visione senza dover ricorrere al ghigno demoniaco di Bob. Sulla stessa linea d’onda, ma con un mutatis mutandis bello grosso, i nitriti dietro le nuvole in Nope (2022) di Jordan Peele. Col cavallino alle spalle di John Ford, Spielberg fa entrare l’universo lynchiano nel proprio, così come vent’anni fa con A.I. aveva abitato una fantasia incompiuta di Kubrick.

In Twin Peaks, il cavallo anticipa il male onnipresente, poco importa se nascosto tra i fili d’erba o dietro una cortina rossa che sventola nel bosco. Non c’è viaggio “dall’altra parte” che tenga. Qui si annida una critica a uno degli escamotage più facili degli ultimi anni, il proliferare delle dimensioni, che nella sua forma più riuscita è ludico e stimolante (Rick and Morty), ma più spesso (dalla Marvel a Pandora, passando per certi filoni di Dylan Dog) rivela escapismo puro e salto dello squalo. Ovunque tu vada, qualunque sia la tua identità, checché tu faccia, questo il messaggio, finirà / inizierà sempre così. Laura continuerà a morire. Sarah Palmer continuerà a vedere cavalli bianchi. È la medesima intuizione alla base di Lost Highway: non un rizoma infinito, bensì una letale striscia di Moebius. Cavalcate liberatorie verso l’orizzonte? Inani.

Ma Spielberg non sa cosa sia una brutta fine. E The Fabelmans si conclude con un semplice movimento di macchina, visibilmente manuale, che concilia all’ultimo secondo e apre nuovi orizzonti. Come se nel 1956 un boscaiolo con la faccia di carbone e la sigaretta in bocca avesse bofonchiato questa nenia nel microfono dell’emittente KPJK: This is the water / And this is the well. / Drink full and descend. / The horse is the white of the eyes and light within.

domani è mortedì

Della morte e del cielo (2020): Nicola Mari colorato da Giovanna Niro.

Il 7 aprile 2022 è uscito il sesto e ultimo volume dei Racconti di domani, scritto da Tiziano Sclavi e disegnato da Angelo Stano per i colori di Sergio Algozzino. Domani andrà meglio. Pur con tutta la sordina che ha accompagnato la pubblicazione di questa serie-testamento sclaviana, cartonata e sovrapprezzata, si tratta di un evento. Ne approfitto per riflettere sugli ultimi vent’anni di Tiziano, contraddistinti da grandi frenate, stop and go, diamanti nascosti, mici di Schrödinger.

Nel 2001 esce Il “Progetto”, Dylan Dog numero 176, disegni del fido Casertano (l’artista più legato a Sclavi). Non è un addio annunciato, ma nel corso del tempo è come se lo diventasse. Dopo due decenni di lavoro indefesso e il boom di DYD registrato nella decade tra il 33 e il 43 (siamo ai tempi della caduta del Muro), la prima battuta d’arresto sclaviana si registra in uno dei suoi capolavori, Caccia alle streghe (n. 69, disegni di Dall’Agnol), nel cui finale ovviamente onirico – o pluridimensionale: ma ci torneremo – l’indagatore è trascinato via dai sacerdoti-zombi della censura alla stregua del suo maramaldo alter ego fumettistico Daryl Zed. La testata bonelliana era finita in Parlamento con assurde accuse di incitamento alla violenza nei giovani, e il Tiz l’aveva presa malissimo. Il tema era fuori dai coppi, come qualsiasi applicazione della teoria ipodermica della comunicazione di massa – “io ti inietto il messaggio e tu obbedisci” – e soprattutto non era certo DYD il problema, semmai la ridda di imitazioni grezze e gratuitamente sanguinose. In ogni caso, il Tiz la prese male e iniziò a tirare i remi in barca, non perdendo occasione per far fuori la sua creatura.

Sclavi lo minaccia nell’ultima tavola di Caccia alle streghe, confeziona dopo quasi un anno di silenzio un numero 100 (disegni di Stano) mitopoietico e assertivo nella sua volontà di concludere la serie anche se questa fosse proseguita – come ha fatto e continua a fare, malgrado tanti sfrangiamenti. Lo fa nel “Progetto”, impiantando in Dylan un microchip del controllo mentale che gli esplode in testa, allettandolo con prognosi riservata. Per tacer degli UFO, ossessione principe di Tiziano che da Alfa e Omega (n. 9, disegni di Roi) passando per la trilogia extraterreste (n. 61, 131, 136, disegni di Brindisi) fino ai giorni nostri innerva le sue opere più importanti, anche Il “Progetto”. Vedremo in quale chiave. Da quel momento, Sclavi tace per cinque anni e riaffiora con quattro albi usciti tra il 2006 e il 2007, in corrispondenza del ventennale di Dylan. Il primo, Ucronìa (n. 240, Saudelli ai disegni) mischia la storia alternativa col celebre esperimento mentale di Erwin Schrödinger, mentre l’ultimo, Ascensore per l’inferno (n. 250, illustrato da Brindisi), è la classica avventura celebrativa esterna alla continuity, con Dylan sbattuto a tavola 98 davanti all’assise degli Inferni, col demonio, la morte e il paffuto burocrate con due facce.

Sempre nel 2006 esce Il tornado di Valle Scuropasso (Mondadori), finora l’ultimo romanzo a firma Sclavi. L’ho riletto di recente tutto d’un fiato, rimanendone positivamente colpito. Il Tornado è un romanzo autobiografico sull’alcolismo camuffato da storia sbilenca di provincia e alienazione. Gli alieni, più che un atto di fede, sono generati dalla depressione e dall’alcol. Loro, e i tornadi. Così come in Dylan, fin dal numero 4 (Il fantasma di Anna Never, disegni di Roi), l’alcolismo crea pipistrelli e fantasmi. Un’intuizione devastante che tornerà, mai così esplicita, nel magnifico albo Dopo un lungo silenzio (n. 362, disegni di Casertano). Non solo. Con maggiore economia rispetto a Non è successo niente (1997), il bestseller sclaviano che nessuno ha letto, nel Tornado torna il paese nel pavese di Buffalora (in realtà Boffalora), anche se Dellamorte e Gnaghi latitano, e tra le righe si fanno strada tante piccole manie dell’autore. Il numero tre – da cui l’omonimo romanzo uscito per Camunia trent’anni fa – la scatoletta smangiucchiata da denti umani (un ricordo di un vecchio Nembo Kid che tornerà anche nel terzo volume dei Racconti di domani), la tavola iniziale di Memorie dall’invisibile con le indicazioni per il disegnatore (sempre Casertano), una nuova canzone (Sfera: bellissima) e a pagina 91, in barba ai lettori italiani, solo quattro parole: Non è successo niente.

Con Ascensore per l’inferno inizia un’attesa dolorosa di nove anni, spezzata dalla pubblicazione del numero 362. Inutile, e fuori luogo, speculare cosa (non) sia successo nel frattempo. Roberto Recchioni, dal 2013 alla guida della testata, ha più volte raccontato di aver ricevuto la sceneggiatura di Dopo un lungo silenzio corredata dal messaggio “Sei il mio curatore. Curami”. Per Recchioni, riportare in pista Sclavi è valso come una megatacca sulla pistola, ed è indubbiamente merito suo se questa terza ondata di pubblicazioni a firma Tiz, appena conclusasi con Domani andrà meglio, è stata accompagnata da disegnatori fuoriclasse e da almeno un’idea geniale di marketing (la copertina bianca del 362). Dopo un lungo silenzio mantiene quel che promette fin dal titolo e caccia il dito nella piaga per eccellenza di Dylan e del suo creatore, cioè la dipendenza dall’alcol. Ho perso il conto delle volte che l’ho letto. Piango sempre. Più classico, “di mestiere”, il successivo Nel mistero (n. 375, disegni di Stano con colori di Giovanna Niro), che si conclude con un risucchio cosmico, l’istinto evidente di voler farla finita con tutto: “… e poi più niente”.

E poi, graphic novel. Nel 2019 il Tiz pubblica con Feltrinelli Le voci dell’acqua, per i disegni in bianco e nero del raffinatissimo Werther Dell’Edera. Il cognome dell’autore campeggia a caratteri mastodontici sulla copertina di questo volumetto senza numeri di pagina venduto come il suo primo romanzo a fumetti. Il che è vero, anche se Roy Mann (disegni di Micheluzzi) o alcune storie dei vecchi Dylandogoni meriterebbero il medesimo status. Qui Sclavi abbandona gli universi di Dylan e mette al centro – di un rizoma di tavole, in realtà – l’alter ego Stavros, a cui è stata diagnosticata la schizofrenia (o è un cancro al cervello?). Ambientato in una cittadina dell’Italia settentrionale, Le voci dell’acqua è un elegante centone di fisse sclaviane: ci sono gli UFO, c’è John Merrick, c’è una chiavetta USB contenente la verità sulla vita dopo la morte (il consueto mélange di tecnologia, meglio se rétro, rocket science e filosofia), c’è un uomo che vuole vendicarsi della madre ormai demente (una situazione che tornerà nei Racconti di domani, quinto volume, Variazione sulla macchina del tempo), c’è uno scambio tra innamorati che ricorda i dialoghi del Lungo addio (DYD 74, disegni di Ambrosini). C’è un capitoletto intitolato Un giorno qualunque della settimana: mortedì. Il segnale è deboluccio, ma il tocco di Tiz funziona ancora.

Risale al 2020 Zardo, strana graphic novel di appena 48 pagine ispirata al romanzo Nero. (Camunia, 1992), dal quale Giancarlo Soldi ha anche tratto un film. A latere vale la pena ricordare anche il suo documentario su Tiziano Nessuno siamo perfetti (2014) in cui appaiono paciose balenottere volanti simili al babau ripescato da Sclavi nel sesto volume dei Racconti. In Nessuno siamo perfetti, il Tiz afferma vigorosamente che non scriverà mai più. Per fortuna si è smentito subito dopo. Zardo, in realtà una vecchia sceneggiatura per Casertano recuperata in forma di fotocopie, è stata una piacevole sorpresa. Il file MacWrite, ci informa Tiziano nell’introduzione al volume, è andato perduto. Ai disegni c’è il recchioniano Emiliano Mammucari, ai colori Luca Saponti. La storia è esile, nerissima e macellaia, tutta italiana, con una sbandata ufologica che manca nel romanzo. Col senno di poi è notevole un breve elogio dello “scendere” che ritorna nel quinto volumi dei Racconti (l’episodio “Scendendo”).

Tra il 2019 e il 2022, Tiziano Sclavi ha fatto il suo grande ritorno in libreria con la serie cartonata I racconti di domani, pubblicati rispettivamente: uno nel 2019, due nel 2020 e nel 2021, uno quest’anno. Contando che si tratta di volumi di 64 pagine senza appendici, a colori, prezzo di copertina 19 euro, gli habitué della Bonelli da edicola ci sono rimasti un po’ male, visto che Dopo un lungo silenzio e Nel mistero (a colori), presi insieme, facevano 6,7 euro per quasi duecento tavole. Marketing a parte, è interessante la collocazione liminale della serie nel mondo dylandoghiano. “Dylan Dog presenta” è la cornice dei volumi, anche se sarebbe più corretto dire “Safarà presenta”. Sclavi utilizza infatti una delle sue creazioni più funzionali come sistema operativo dei sei volumi. L’emporio dell’impossibile e il suo proprietario Hamlin, faccia da Nosferatu e nome da fratelli Grimm, appare per la prima volta nel numero 59 (Gente che scompare, disegni di Coppola), tornando poi in Zed (n. 84, Brindisi), nel 182 (Safarà, Ruju-Freghieri), nel 197 (I quattro elementi, De Nardo-Celoni), nel 200 (Barbato-Brindisi), nel 210 (Il pifferaio magico, Barbato-Brindisi), nel 312 (Epidemia aliena, Gualdoni-Dell’Uomo). Hamlin apre il 401 (L’alba nera, Recchioni-Roi) vendendo il clarinetto alla versione reboot di Dylan, e questo spiega il suo ruolo nell’economia – tout court – della serie Bonelli, che per sopravvivere, sperimentare ma non cacciarsi in vicoli ciechi ha adottato scopertamente l’idea degli universi paralleli. Scoperchiata proprio dall’introduzione di Safarà. Più che la “nuova serie di Dylan Dog”, I racconti di domani sono la miniserie di Hamlin.

Non a caso, l’umbratile figuro appare spesso nei primi due volumi, apre il quarto e chiude il sesto. Il volume dei Tales of Tomorrow appartiene al suo inventario, e Dylan ne è attratto dimenticandosi ogni volta di essere già entrato nel negozietto. Idea semplice ma sempre efficace. Questa la premessa. Il nocciolo è a ben vedere un’antologia di spunti sclaviani, dai raccontini à la Borges (o à la Urania) a brevi apologhi politici, il tutto condito da immagini e concetti che i lettori di Tiziano hanno imparato a conoscere già cinquant’anni fa, in Film (edizioni Il Formichiere, 1974).

Il volume numero uno s’intitola Il libro impossibile e sfoggia disegni e colorazione di Gigi Cavenago, ormai ex (purtroppo) copertinista della serie regolare. Rimandato per anni e uscito senza grande clamore, questo incipit conferma le impressioni delle Voci dell’acqua. Segnale debole, mestiere solido. E qualche scivolone. Una sintesi ben rappresentata dal racconto più lungo di tutta la serie, Il punto di vista degli zombi, con un Dylan comprimario ma pistolettante, una bella riflessione sulla morte e un protagonista giovane ministro britannico – con le fattezze di Tom Hiddleston – che a suo tempo non poteva non valere come un ammiccamento critico a Matteo Renzi. Fuori tempo massimo, oltre che spuntato così come il raccontino lampo Fumo che critica le misure di contenimento del vizio. I racconti di domani era stato presentato come un ritorno sulle barricate dello Sclavi più impegnato. Peccato che questo sia anche l’aspetto meno interessante, per non dire più banale, della sua scrittura.

In Della morte e del cielo spiccano ancora una volta i disegni, ora di Mari e Niro. Non mancano le chicche, a partire dall’episodio di apertura Come venne l’amore per il professor Tristezza, l’ottimo Lo straniero (UFO a Buffalora!) e l’epilogo lampo con Dylan sotto la doccia che inquadra tutto il volume come un sogno del Nostro. Brevi cenni sull’Universo e tutto il resto (disegni di Giorgio Pontrelli, colori di Sergio Algozzino) è l’anello più debole della catenina. Nell’ultimo racconto, Tigì, la vera protagonista ritornante dei sei volumi, l’anchorwoman Eliza Kazan, ci informa della morte (provvisoria) di Dylan Dog. Che infatti si fa vedere all’inizio del quarto, salta il quinto e torna in chiusa al sesto. Varie ed eventuali (disegni di Sergio Gerasi, colori di Emiliano Tanzillo) è una piacevole sorpresa. Tutti gli episodi sono, oltre che graficamente mozzafiato, ben scritti: Il treno, L’elastico, Oltre l’orizzonte, Porsche 356, I testimoni di…, con una menzione speciale per La macchina del tempo. Qui Sclavi riesce a farsi rileggere volentieri per gustarsi i dettagli e i vari livelli narrativi – il motivo per cui Dylan Dog è diventato un classico del fumetto. Ammazzando il tempo, volume cinque (disegni di Davide Furnò, colorazione di Furnò e Giulia Brusco) segna un’altra battuta d’arresto, con elementi ripetivi quali il donnone del Cadavere ingombrante, già visto nel Mondo di fuori (secondo episodio del Libro impossibile) e topos sclaviano almeno dai tempi della Bellezza del demonio (DYD 6, disegni di Trigo).

Domani andrà meglio è animato dal pathos mesto del migliore Sclavi fumettistico. Ritornano le riflessioni sull’intelligenza artificiale e sulle invasioni aliene, ritorna il babau simbolo del destino indifferente (nell’episodio L’orchera, dotato persino di due splash page), si conclude la parabola di Eliza Kazan… e Groucho, grazie al cielo, non c’è. Nel tassello più riuscito, Maschere, Tiziano ricorre in parte all’intuizione che ha fatto della Casa degli uomini perduti (speciale DYD numero 5) un autentico capolavoro. I disegni di Stano sono al solito pittorici e mai uguali a sé stessi, rispettando la regola d’oro che contrappose L’alba dei morti viventi a Morgana. Il Tiz cita Einstein per riportare a galla un po’ di meccanica quantistica (lui, Albert, che la odiava), sostenendo che la “realtà è un’illusione persistente”. Un po’ come questi racconti scritti sull’acqua, a volte semplici buchi, altre volte sassolini saltellanti che creano onde e increspature. La conclusione è una mise en abyme sferzante come l’ultima inquadratura di Twin Peaks – The Return. Tiziano si chiude, ci chiude, nei vani di Safarà, e butta la chiave. Che giorno sarà domani?

Il tornado di Valle Scuropasso, p. 91.

la corrente

Il palo della luce come si vede nella Part 6 di Twin Peaks: The Return (2017, immagine fotoscioppata)

Il cinema in Piazza Maggiore a Bologna. Lo scorso giugno ho zigato per dieci minuti di fila rivedendo In the Mood for Love dopo quasi vent’anni, e tra i restaurati c’era anche La strada. Che mi ha colpito meno rispetto al passato, soprattutto certe lungaggini, certe ellissi nel rapporto tra Gelsomina e Zampanò, delle dissolvenze al nero poco oneste. Ma a una scena penso ancora oggi. Dura un minuto secco, tra 24’50” e 25’50” (purtroppo niente link, il film intero su youtube non c’è più). Gelsomina ritrova Zampanò addormentato come un sasso presso il suo motocatorcio e fa due passi negli immediati dintorni avvolta in scialle e cappottino. Il paesaggio è brullo, quasi postbellico. La periferia di un piccolo centro laziale. In sequenza, 1) incontra una bimba e la fa ridere imitando col corpo la sagoma di un alberello spoglio in mezzo al campo, nient’altro che un tronco con un ramo che sporge a destra 2) incontra un bimbo seduto tra le zolle che le dice “Lì dentro è morto il cane” 3) va alla staccionata del posto dove sarebbe morto il cane, non vede nulla (o almeno noi non vediamo nulla) e in compenso sente il brusio dell’elettricità proveniente dal vicino palo della luce. Gelsomina appoggia l’orecchio al palo: prima il destro, poi – dandoci la nuca – il sinistro. Dissolvenza incrociata con Zampanò che si sveglia.

Fellini e Lynch sono nati lo stesso giorno, e numerologia a parte si sa quanto l’influenza del regista riminese si senta nell’universo lynchiano. Basta quella scena di flânerie rurale per farci passare davanti agli occhi tutti gli alberi rinsecchiti dipinti da Lynch, compresa l'”evoluzione del braccio” di Twin Peaks: The Return, cioè la trasformazione in CGI del Man from Another Place resasi necessaria dopo il mancato accordo con Michael J. Anderson. Necessity is the mother of invention. Dopo l’albero, il cane (The Angriest Dog in the World, protagonista in rigor mortis di una striscia a fumetti), e dopo il cane l’elettricità. La corrente elettrica attraversa l’intera filmografia lynchiana come una linfa mitopoietica, esplicitata in Fire Walk with Me. Non spiegata, va da sé. Esplicitata in una sequenza ridotta ai minimi nella versione del 1992 e ripescata per l’edizione dvd dotata dei “Missing Pieces”. In questi quattro minuti di ipnosi sono racchiuse tutte le sinapsi di Twin Peaks, destinate a trovare una forma definitiva nella terza stagione e nei libri tie-in di Mark Frost. A cominciare dal ruolo dei “Woodsmen”, che in sé fondono la potenza distruttiva della radioattività e quella misteriosa e feconda dell’elettricità. Non solo. Nella Part 15, Cooper si risveglia nel corpo di Dougie Jones quando questi, guardando Sunset Blvd. e udendo il nome di Gordon Cole, smette di mangiare un dolce e infila la forchetta nella presa della luce. Pali inquietanti, prese che fungono da teletrasporto tra una dimensione e l’altra, leve che azionano macchine arcane. È tutto elettrico, luminoso e sferragliante.

Gelsomina origlia il crepitio della corrente. Prima di lei s’erano già viste le onde elettriche andare su e giù lungo il corpo robotizzato di Brigitte Helm, o la scena ripetuta mille volte del dottor Frankenstein che ricorre ai fulmini per animare la sua creatura. Dopo di lei, riavvolgendo il nastro verso gli anni Ottanta, ecco la saetta che colpendo l’orologio di Hill Valley consente a Marty McFly di tornare nel proprio tempo con la DeLorean; il serial killer di Wes Craven (Shocker, 1989) che sottoposto alla sedia elettrica diventa etere e continua a uccidere sfrigolando; oppure, nomen omen, Le avventure del ragazzo del palo elettrico (1987) di Tsukamoto. L’ultimo ruolo cinematografico importante per David Bowie è quello di Nikola Tesla in The Prestige (2006) di Nolan, un trionfo di fulmini senza fili che teletrasportano cose, animali, cadaveri.

Be Kind Rewind (2008) di Michel Gondry fa razza per conto suo nel trattare l’elettricità come una forza dirompente. Jack Black vive un camper accanto alla centrale elettrica, indossando copricapi improvvisati per schermarsi dalle radiazioni (soprattutto colini o altri scarti di cucina). Un bel giorno decide di sabotare la centrale, una di quelle enormi in cui a Lynch piacerebbe organizzare picnic. L’impresa va storta, si becca una raffica di folgori azzurrine e si magnetizza. Tanto da cancellare il contenuto di tutte le videocassette del negozietto gestito da Mos Def per conto di Danny Glover. Se ne accorgono quando Mia Farrow si lamenta del fatto che Ghostbusters non si vede. Al che i due amici decidono – dopo tredici anni non è più uno spoiler – di girare loro stessi i film che danno a noleggio per un dollaro al giorno, usando una videocamera analogica. Montano in macchina e sfornano gioielli nerd di un quarto d’ora circa.

Li chiamano “sweded films“, con un riferimento alla Svezia dadaista come la trama stessa di Ghostbusters, famosa per non voler dire nulla. Al procedimento fatto in casa si prestano anche Rush Hour 2, The Lion King, Robocop, The Island of Dr. Moreau, Boogie Nights, Driving Miss Daisy (con Mia Farrow al posto di Jessica Tandy e Glover al posto di Freeman), 2001, 2010 (l’anno del contatto, ma fisico-sessuale), Boogie Nights, When We Were Kings, Carrie, King Kong, Men in Black, Les parapluies de Cherbourg. Menzione speciale per Boyz n the Hood e la trovata di simulare le chiazze di sangue attorno alla testa con delle pizze. Ma il migliore di tutti è il clippino che rifà il film stesso fungendo da trailer ufficioso e innescando una mise en abyme da giramento di capo. Gondry scatenato.

Be Kind Rewind non è solo la commedia più riuscita di Gondry, ma anche il film che meglio esibisce la sua estetica empirica – e forse l’ode per eccellenza alla VHS. Meno lugubre di Trash Humpers (2009) di Harmony Korine, girato interamente in videotape ma affossato da una morbosità che non incoraggia una seconda visione. In pratica, videoarte. Così non è per Gondry, sempre contagioso col suo approccio ludico alla finzione. Perché ricorrere agli effetti speciali quando bastano forbici e cartoncino, madri dell’invenzione, per simulare qualsiasi cosa? Le trovate estemporanee di Be Kind Rewind ridicolizzano la CGI usata per la scena della centrale elettrica e soprattutto dimostrano come la creatività sia più potente degli stessi strumenti messi in campo per tutelarla, in questo caso il diritto d’autore sventolato dagli studios che, sguinzagliando Sigourney Weaver, ottengono la distruzione delle cassette pirata mediante rullo compressore.

Ciò che non può essere distrutto è la forza della comunità raccoltasi attorno a questi filmini, assurti a celebrazione della comunità stessa. E allora, filmando in bianco e nero con un ventilatore acceso davanti all’obiettivo a mo’ di effetto anticante, ecco che i residenti di Passaic decidono di raccontare, inventando tutto, la leggenda locale del jazzista Fats Waller, allo scopo di salvare dalla gentrificazione l’angolo di edificio che ospita il negozio di videocassette e in cui, in realtà, Fats Waller non ha mai vissuto. Mitopoiesi pura per rafforzare la tenuta sociale. Il risultato è un home movie commovente come saprà fare solo Likarion Wainaina in Supa Modo (2018). La sera della prima nel negozietto, il televisore da due soldi collegato alla videocamera si fracassa ma l’impiegato del Blockbuster fornisce un beamer. Il film amatoriale viene proiettato su un lenzuolo. Il colpo di scena da lacrimoni è che la pezzuola viene calata davanti alla vetrina, per cui da fuori si vede tutto, invertito e senza suono. Basta questo a radunare una folla che fa cambiare idea agli immobiliaristi pronti con le ruspe. Per galvanizzare basta un film girato dietro l’angolo, tra amici, con materiale di scarto, in bianco e nero artificiale e con un ventilatore acceso davanti all’obiettivo, montato in macchina, con le immagini invertite lungo l’asse verticale – e muto.