ciò in cui crede

Edizione pamphlet (1968) del racconto omonimo, dettaglio modificato della copertina.

Anni fa avevo un sito su xoomer, e c’è ancora. Lo spazio gratuito c’è ancora. È come l’ftp di angelfire che uso da vent’anni come backup dei lavori in corso. Su xoomer ho cancellato tutto, resta solo questa bolla d’internet all’interno di virgilio, ma una pagina è tuttora consultabile. Questa. What I Believe (1984) è la dichiarazione d’intenti che mi fece innamorare di Ballard negli anni Novanta, e dopo quarant’anni il suo fascino furbesco e perverso è grossomodo intatto. Sebbene non sia certo una rarità, il testo compare nella prima sezione di Selected Nonfiction 1962-2007, Statements, ed è un indubbio argomento di vendita per questo tomo a cura di Mark Blacklock che rilancia gli scritti corsari ballardiani.

Al momento di stendere questa orecchia non ho informazioni esatte circa lo stato dei diritti di traduzione. So che sono in capo a Wylie – in bocca al lupo, cari editori! – e James Graham Ballard è sicuramente uno di quei nomi che non passano inosservati, a prescindere dal tipo di testo. Il corposo volume edito da MIT Press rappresenta un seguito e al contempo un reboot, un ripensamento critico di A User’s Guide to the Millennium (Fine millennio: istruzioni per l’uso, 1996). Rispetto al libro tradotto da Antonio Caronia per i tipi di una casa editrice che è meglio citare via asterischi, Selected Nonfiction copre innanzitutto gli undici anni che separano la pubblicazione della prima raccolta dall’ultimo articolo uscito a nome Ballard. Il criterio di selezione è più rigoroso, non prettamente tematico come nella User’s Guide, e la mole è superiore, con apparati bibliografici pressoché assenti dall’edizione del 1996, dotata solo di un indice dei nomi. Solo in parte sovrapponibili, le due raccolte hanno una propria autonomia. Messe insieme genererebbero un fungo nucleare.

Ballard è un aggettivo, una moda hipster, una chiave di lettura delle cose intese proprio come cose, corpi inclusi. Scrittore consapevolmente tradizionale, sul finire degli anni Sessanta attaccò la spina della chitarra-tastiera e come un Bob Dylan della fantascienza decise di sconvolgere il pubblico con una sterzata improvvisa. L’aggettivo ballardiano scaturisce dai testi confluiti in The Atrocity Exhibition e dalla triade di romanzi anni Settanta Crash – Concrete Island – High-Rise, iniziatori di uno sguardo acuminato e brutale sulla contemporaneità: profetico nel delineare lo spasso della psicopatia, programmatico nel voler provocare in maniera, a volte, più immaginata che sinceramente viscerale. Lo schematismo delle sue visioni si evince benissimo dagli ultimi romanzi, una lasca tetralogia, Cocaine Nights – Super-Cannes – Millennium People – Kingdom Come, dove una lingua più cheta mette in scena le assurdità del tardo capitalismo, il populismo rampante, la voglia di guru, il fascino della violenza e dell’irrazionalità – meglio se accoppiate. Le sue esperienze nella Shanghai occupata dai giapponesi, materia di due romanzi e infinite digressioni, lo hanno reso materia da Spielberg, trainando nel mainstream tutta la sua produzione. Ballard non ha mai avuto paura della pagina bianca e i suoi scritti d’occasione, o su commissione, hanno la medesima dignità dei titoli da opac.

Per capire quanto sia ancora solida la sua influenza, basti citare il progetto di Brandon Cronenberg di trasformare Super-Cannes in una miniserie. Come se Infinity Pool (2023) non fosse già, in spirito, una fantasia ballardiana vicinissima alla realtà, cioè un ritorno all’imbarbarimento malgrado, anzi per via, della gentrificazione. Ballard lo aveva già preconizzato nel 1962, nel saggetto Which Way to Inner Space? uscito su New Worlds prima ancora della gestione Moorcock. Pur amando la fantascienza come una ditta in cui si sentiva impiegato – e al contempo sindacalista – Ballard ha sempre irriso la produzione classica, escapista, tutta navicelle spaziali e pianeti esotici. Per lui il viaggio vero era quello nell’inconscio, non verso l’esterno ma nelle nostre stesse viscere cerebrali. Detto oggi è scontato, forse banale, maledettista come gli eccessi grafici cui si abbandona spesso Ballard, ma all’epoca questo cambio di prospettiva valse come il manifesto di una Nouvelle vague fantascientifica che voleva non distrarre, ma scardinare. Che parli di incidenti mortalmente erotici, dei genitali dei vip o della bellezza di lamiere e videoregistratori, Ballard è sempre un autore di fantascienza che, come Werner Herzog, scruta la Terra come se fosse un altro pianeta. A partire da Vermilion Sands, molte delle sue fissazioni, aeroporti-città, gated communities, centri commerciali ipertrofici e villaggi turistici da tregenda, sono ormai state superate in corsa da quella che chiamiamo realtà. Sono topografia odierna. La nostra acquiescenza nei confronti di questi fenomeni rende quasi superflue alcune trame ballardiane, trasformando il profeta in cronista, il monito in constatazione dell’ovvio. Se come in Futurama Amazon si espande fino a inglobare l’universo intero, cosa è l’uno, cosa è l’altro?

Recensore seriale, adorabilmente ripetitivo, Ballard ha sempre messo in campo i propri chiodi fissi. Alcuni incomprensibili al giorno d’oggi, come quello per Salvador Dalí, che lui chiamava Dali così come scriveva Chirico invece di de Chirico ogni due per tre. Secondo Ballard, Dalí era un genio incompreso dalla critica, penalizzato da troppe clownesche apparizioni tv. Come avrebbe reagito dinanzi alle mostre itineranti, senza fine, “immersive”, che hanno di fatto di Dalí una costante dell’arte popolare insieme a impressionisti, Banksy, persino Frida Kahlo? Ballard il collezionista di Delvaux, il fan sfegatato di Burroughs, il critico di Joyce perché l’Ulisse lo avrebbe frenato dall’approcciare la letteratura con più mestiere e meno ambizioni, il fanatico della mobilità insostenibile, l’oscillante sostenitore di Tony Blair. I testi di pubblicistica ballardiana sono una mostra permanente di quello che gli passava per la testa e la migliore chiave di lettura delle sue opere narrative, cui hanno sempre preparato il terreno. Sebbene una passione per il surrealismo non valga più come un grido di battaglia, la non fiction di Ballard ha il potere di rendere squisitamente interessante ogni cosa che tocca, da una biografia non autorizzata di Nancy Reagan ai motivi per cui Kingsley Amis dovrebbe starsene alla larga dalla fantascienza.

Ecco, tomi alla mano, cosa c’è in Selected Nonfiction 1962-2007 che non c’è anche in A User’s Guide to the Millennium. Innanzitutto la bella, concisa prefazione di Tom McCarthy, in cui i tre difetti cardine della letteratura ballardiana – evidenziati da chi Ballard non lo ama – assurgono a motivo principe per abbracciarla: “repetition, machinism, schizoid hypermnesia”. L’introduzione del curatore Blacklock ci introduce davvero, a trecentosessanta gradi, nella testa dell’autore, e non manca di citare il suo divulgatore degli ultimi anni, Simon Sellars, webmaster del sito ballardian.com, autore di Applied Ballardianism e adesso anche editore con Wanton Sun.

Il volume decolla con una splendida scelta di quattro Statements, tre dei quali assenti dalla Table of Contents del 1996: il già citato What I Believe (Interzone, 1984), Notes from Nowhere (New Worlds, 1966) e la formidabile prefazione all’edizione francese di Crash (Foundation, 1973). Notes from Nowhere è articolato in 24 brevi (ap)punti e contrassegna l’inizio della sua fase sperimentale, che raggiungerà il picco proprio con Crash – a volte dotato persino di punto esclamativo: “Throughout Crash! I have used the car not only as a sexual image, but as a total metaphor for man’s life in today’s society. As such the novel has a political role quite apart from its sexual content, but I would like still to think that Crash! is the first pornographic novel based on technology. In a sense, pornography is the most political form of fiction, dealing with how we use and exploit each other in the most urgent and ruthless way” (dalla prefazione del 1973).

Se il secondo blocco, New Worlds, propone testi già riportati su A User’s Guide, il successivo Commentaries è in gran parte inedito in forma di libro e contiene brevi riflessioni sulla propria opera, su altri autori (Nathanael West, Joyce, Greene, Huxley) e artisti figurativi (Paolozzi, Smithson, Ruscha, Bacon…). Particolarmente illuminanti sono i “commenti” sui propri lavori fantascientifici, tra i quali Ballard, nel 1977, considera il racconto The Voices of Time (1960) quello che meglio rappresenta tutta la sua produzione. Nella sezione Features and Essays spiccano The French Riviera Spoiled? Only by Fear and Snobbery (Mail on Sunday, 1995), Airports: The Cities of the Future (Blueprint Magazine, 1997) e Welcome to the Virtual City (Tate Magazine, 2001), imbevuti dello spirito disincantato degli ultimi romanzi. In The Prophet (Guardian, 2005) Ballard celebra il genio di Michael Powell, Shock and Gore (Guardian, 2007) è l’ennesimo omaggio a Dalí mentre sia A Handful of Dust (Guardian, 2006), sia The Larval Stage of a New Kind of Architecture (Guardian, 2007) parlano di architettura modernista e contemporanea. Il secondo articolo, incentrato sul quel giocattolone del Guggenheim di Bilbao, è anche l’ultimo mai pubblicato in vita da Ballard, e si conclude così: “From the far side of the Styx I’ll look back on it with awe”.

Il quinto capitolo è dedicato a Lists, Captions and Glossaries. In Collector’s Choice: Outer Limits (American Film, 1987) Ballard enumera i suoi film di fantascienza preferiti (ci sono anche Alphaville e Barbarella), mentre in What Makes a Classic? (1999) tocca ai romanzi in generale, con un’azzardatissima previsione su quelli che saranno in voga anche nel 2099. Ballard riporta nove titoli, tra cui The Alexandria Quartet di Lawrence Durrell e The Loved One di Evelyn Waugh. Questo spiega anche il suo radicamento, in senso positivo, nella cultura britannica. JG Ballard è uno scrittore di Shepperton nato e imprigionato a Shanghai.

Le recensioni coprono sessant’anni di lavoro “per arrotondare” e formano la maggioranza relativa del volume. Ballard ha recensito di tutto, dal lavoro di colleghi nel campo della fantascienza a manuali di educazione sessuale, fino – notoriamente – al Mein Kampf. Nel volume di Blacklock, di inedito c’è ad esempio il parere su Steven Spielberg: The Unauthorised Biography, apparso su Independent nel giugno del 1996. L’autore è John Baxter, famoso “biografo dei registi” che Ballard leggeva avidamente e che in questa sede critica nel suo approccio miope nei confronti dell’eterno ragazzino Spielberg, “Puccini del cinema”. Un altro inedito riguarda Chris Rodley e il suo Lynch on Lynch, recensione sull’Observer dell’agosto 1997. Interessante come spia di un’ossessione vera l’articolo su The Black Box: Cockpit Voice Recorder Accounts of In-Flight Accidents, a cura di Malcolm Macpherson (Daily Telegraph, agosto 1998). Se le cose vanno storte tra lamiere e tecnologia rampante, Ballard è sempre in prima linea.

Una minima parte dei testi critici apparsi sui giornali riguarda anche film e televisione. Qui si celano due chicche del 2005, vale a dire commenti entusiastici su A History of Violence e C.S.I. Se nel secondo caso l’autore è stupefatto dinanzi al potere ipnotico di una serie televisiva fondata sulla sottrazione, nel primo l’articolo è molto più di una recensione, arrivando a tracciare le coordinate dell’intera opera del regista canadese. “Existence, in Cronenberg’s eyes, is the ultimate pathological state. He sees us as fragile creatures with only a sketchy idea of who we are, nervous of testing our physical and mental limits. The characters in Cronenberg’s films behave as if they are inhabiting their minds and bodies for the first time at the moment we observe them, fumbling with the controls like drivers in a strange vehicle. Will it rise vertically into the air, invert itself, or suddenly self-destruct?”

Il settimo capitolo coincide col ritorno sulle pagine di New Statesman tra il 1999 e il 2006, una fase segnata da frequenti riflessioni sulla politica britannica e la ricetta blairiana del consenso. L’ottavo, dedicato a scambi e testi d’occasione, sfodera un ping-pong del 1998 su Week e Guardian in cui Ballard duella con Anne Atkins in tema di censura e libertà artistica. Il pretesto è nientemeno che Lolita in versione Adrian Lyne, ma la discussione si sposta alla svelta verso Crash e altri lidi più insidiosi, con Ballard sulle barricate libertarie come ai tempi di Why I Want to Fuck Ronald Reagan.

Il volume si conclude con una decima sezione dedicata a Memoir and Tributes, di fatto un’integrazione a Miracles of Life (2008) – e l’ultimissima frase, in coda a un coccodrillo di Burroughs, lamenta il dramma di essere lasciati alla mercé degli scrittori di professione. Puntuta e sorprendente la penultima sezione, Capsule Commentaries, che offre alcuni brevi testi tra cui uno dedicato alla Westway londinese. Le poche righe di Apocalypse Now?, uscite nel 1995 per Spin, recitano: “I dream of: Dying in a car crash with Madonna. Having sex with Hillary Clinton. Appearing in Zapruder frame 313 with Jackie Kennedy. Being transformed into a TV channel. Detonating a nuclear weapon over Disneyland. Having all the whores in Moscow call me on their mobile phones. Seeing time make a new beginning. Persuading Neil Armstrong to return to Earth. Meeting my younger selves on the virtual-reality highways of tomorrow. Being buried under the main runway at London’s Heathrow Airport”. Metafore estreme, professioni di fede.