ultraviolenza

Titoli di testa del corto Terrifier (2011) di Damien Leone.

Se son sempre qui a parlare di film è perché il 6 dicembre 1992 mia madre insistette per farmi vedere Arancia meccanica. Prendemmo la videocassetta a noleggio in zona Fossolo, a Bologna, in un negozietto tra i palazzi a un tiro di schioppo da uno di quei vecchi centri commerciali angusti e bui, di fatto un corridoio con delle vetrine, che ora si vedono solo nell’Europa dell’Est. Dopo la prima visione del film, a suo tempo vietato ai minori di anni diciotto, non ebbi scelta: fu la natura, non la cultura, a costringermi a rimediare la colonna sonora di Ludovico van con iniezioni psicotrope di Wendy Carlos. Sempre lei, la natura, mi fece rivedere il film almeno dieci volte nell’arco di pochi mesi, da solo o in compagnia di amici da contagiare con questa magnifica ossessione. Ricordo benissimo la qualità miserrima, eppure aurorale, della versione originale – sempre VHS – sulla quale riuscii a mettere le zampe scambiando videocassette come se non ci fosse un domani. Strati su strati di sabbia magnetica, audio distorto, colori sbavati, il tutto a causa della moltiplicazione analogica, quindi organica, quindi mortale come noi, di un master perso nella notte dei tempi. Ricordo benissimo anche la prima proiezione in pellicola di A Clockwork Orange al Lumière di via Pietralata, un evento epocale. Lunga fila per agguantare il biglietto e tutto il film, coi suoi centotrentacinque minuti in tre atti, visto in primissima fila all’estrema sinistra, cranio schiacciato nella nuca e mandibola a terra.

Prima di allora, da quando il videoregistratore si era annunciato nel salotto di casa nel giugno del 1990 in occasione dei Mondiali, avevo cominciato a saccheggiare il videonoleggio di via Massarenti con i miei amici di sempre, soprattutto Fabio, passando in rassegna la sezione horror con la medesima acribia di un bibliotecario alessandrino. Il primo film che riuscii a copiare collegando il VCR a un lettore fu Re-Animator (1985) di Gordon/Yuzna. Tra i nostri preferiti c’erano le due Case di Raimi (L’armata delle tenebre l’avremmo poi vista al cinema), ma anche Profondo rosso, Le colline hanno gli occhi, Zombi (1978), Society e, guilty pleasure prima ancora di conoscere il concetto, Il bosco 1 di Andrea Marfori, esempio da manuale di film così brutto da diventare bello. A tenere insieme tutti questi sanguinolenti tasselli filmici c’era un’idea di cinema vecchia come il cinema, la stessa che anima Häxan (1922) di Benjamin Christensen, Un chien andalou o Freaks (1932) di Browning. Non la violenza in sé, non l’intento pornografico di sbattere in faccia al pubblico immagini forti. Ma la volontà sperimentale, rischiosa e ossessiva di superare dei limiti, trasformando lo schermo in un tunnel risucchiante. Più che Gola profonda, Videodrome. Un approccio che spesso invecchia male, ma in certi casi – A Clockwork Orange è uno di questi – si conserva grossomodo intatto nel corso dei decenni. Se mia madre non avesse premuto, a scopi formativi, affinché vedessi il film di Edel su Cristiana F. in tv (sforbiciato), ora non batterei i tasti da questo appartamentino di Friedrichshain e probabilmente avrei sprecato ulteriori mesi della mia infanzia (avevo dieci anni) senza conoscere David Bowie. La distinzione che si tende a fare oggi tra un horror “elevated”, diciamo quello che fa Ari Aster, e uno colpevolmente basso e anale, è quanto di più vacuo. Lo dice anche John Carpenter. La vera domanda è: ti prende alle viscere oppure no? Ti cambia oppure no? Ti resta dentro, non ti fa dormire o scema insieme ai titoli di coda? Se il cinema non è come l’intestino della creatura aliena di Nope (2022), cinema non è.

Questo mese ho visto in sala due film diversissimi che toccano questi tasti. Il primo è IO di Jerzy Skolimowski. Il titolo scimmiotta il raglio dell’asino, quindi andrebbe mantenuto in originale malgrado circoli soprattutto la versione internazionale, anglicizzata, “EO”. È la storia, o meglio il viaggio in Europa di un somaro, animale a cui Jerzy è molto legato. Il cineasta polacco l’ha scritto insieme alla moglie Ewa Piaskowska, artefice del suo ritorno dietro la macchina da presa nel 2008 col formidabile Cztery noce z Anną, film girato letteralmente attorno a casa in un paesello della Masuria. Insieme hanno poi sfornato Essential Killing (2011), anch’esso un viaggio animalesco, con Vincent Gallo catturato in Afghanistan, sottoposto a waterboarding, in fuga nella neve grazie a un incidente automobilistico e alla macchia nelle foreste forse polacche, forse arcane – foreste e basta. Questa pellicola senza un filo di grasso, un tendine più che una pizza, resta nella memoria perché il protagonista non spiccica parola e si fa largo in uno stato di natura che non lo differenzia dagli altri animali che fanno capolino: lupi, cani, cavalli, persino le formiche che mangia per trarne proteine. L’ultraviolenza di Essential Killing sta tutta nella situazione immersiva e senza vie di mezzo. Girato a temperature ampiamente sotto lo zero con Gallo che brancola a piedi nudi, il film non ha bisogno di mettere in scena la violenza. La sequenza più forte è forse quella in cui il protagonista minaccia con la pistola una madre con neonato sul ciglio della strada per farsi allattare. Il sangue, in tutto il film, si vede a malapena, a parte quello sputato dal fuggitivo a cavallo quando il viaggio, finta fuga, volge al termine. Seppur influenzato dal clima dei primi anni Duemila, con la latenza del terrorismo e l’ombra di Guantanamo, con Essential Killing Skolimowski non fa un Redacted (2007) europeo. Fa, come sempre del resto, un film libero e selvaggio su un outsider, rinunciando ai lacciuoli narrativi che gli hanno sempre azzoppato i progetti meno memorabili.

IO è una versione ancor più distillata di Essential Killing. Stavolta il protagonista non è nemmeno bipede: è un asino, anzi sei asini visibilmente diversi (Marietta, Tako, Hola, Rocco, Ettore, Mela) in viaggio dalla Polonia all’Italia. A scatola chiusa verrebbe in mente Au hazard Balthazar di Bresson, ma Skolimowski non è un autore attento alla trascendenza. I suoi film sono terragni ed epicurei. Inoltre, IO è animato da uno slancio antispecista che l’apologo morale di Bresson non aveva. E sebbene nessuno dei due ceda al lieto fine, non è nemmeno l’amarezza a unirli. Il film di Skolimowski e Piaskowska ha un che di squisitamente vitalistico, di sghembamente visionario, che prescinde dalla sinossi. In questo è persino più potente di Essential Killing. E come nel film del 2011 appare Emmauelle Seigner nel prefinale, qui si palesa una Isabelle Huppert mangiapreti (ma non come ci si potrebbe immaginare). Apparizioni divine che non scombussolano tuttavia l’equilibrio del film, né scalzano il protagonista. L’asino è solo. Manca la sua Anne Wiazemsky. IO è un film sulla libertà della visione. Lasco nella logica, geniale nel tingere di rosso fuoco panorami esplorati col drone o nello scandagliare una foresta coi laser dei cacciatori, spiazzante ma coerente (una coerenza che si intuisce soltanto) nel buttare nel montaggio un cane robot di ultima generazione o una scena sugli sci senza alcun addentellato stringente con la trama. È un film che si sofferma sugli animali – tantissimi – ma non ha alcun problema, come in Essential Killing, a sparare a palla la musica heavy metal di un’autoradio. Ma a differenza di Essential Killing, IO mette davvero in scena l’ultraviolenza. Lo fa di punto in bianco, con la rapidità di un ceffone. Non ai danni degli animali, e soprattutto scansando il sadismo furbo di un Haneke in Caché. Se IO fa piangere, perché fa piangere, non è certo per questo flash che toglie di mezzo un personaggio, spendibile e provvisorio come tutti gli altri Huppert compresa, ma il baluginare di una violenza presentata come un rombo di tuono ci resta dentro e ci accompagna per il resto della visione. Torna in mente la lampada oscillante nel finale di Deep End, che toglie la vita con un “toc”. È il bussare della natura indifferente, al cui servizio siamo ogni tanto anche noi esseri umani, utili idioti.

Dalla natura indifferente ad Art the Clown il passo non è brevissimo, ma se Michael Myers, nelle intenzioni di Carpenter, è sempre stato solo e soltanto una buia forza naturale, allora anche l’assassino in costume di Damien Leone lo è. Che non a caso agisce sempre per Halloween. La saga di Terrifier merita perché ha il rarissimo pregio di imporsi, e funzionare, proprio come una saga nel senso autoriale del termine. Titoli come Halloween, Friday 13 th, Evil Dead, A Nightmare on Elm Street, Scream o Saw sono prima di tutto “content”, diritti che passano di mano e prendono via via forme dettate dai chiari di luna del mercato. Una forma che nel caso di Saw è spesso mutuata dai PowerPoint. Quello che Damien Leone è riuscito a fare fino ad ora, a quindici anni dal primo corto, è mantenere un controllo totale su un personaggio, e una concatenazione di eventi, che nel 2022 con Terrifier 2 sono entrati di diritto nella storia del genere slasher e del cinema viscerale. Se Buono Legnani nella Casa dalle finestre che ridono era un pittore di agonie, Leone è un inscenatore di carneficine. E qui l’analisi inizia e finisce, perché non c’è molto altro da dire. Il trucido in sé e per sé è già antiquariato, e per farsene un’idea bisogna proprio tornare a quegli anni Settanta che segnarono uno scatenamento, a volte da vomito, delle immagini sullo schermo. Ma a rendere unico il marchio Terrifier vi sono almeno due ingredienti: l’aura di Art, degna di Füssli, e la costruzione pezzo dopo pezzo di un immaginario efficace, a tratti davvero terrorizzante. Una graduale messa a fuoco. Nel “Nono girone”, il suo primo corto, Leone lancia subito in scena Art (interpretato da Mike Giannelli) nella forma di un clown-stalker che fissa la propria vittima, la provoca con una trombetta e dopo averla disgustata con un mazzo di fiori con bacarozzo la mette fuori gioco con una iniezione. Il resto di questa prima celluloid atrocity è meno ipnotico, e funge semmai da portfolio per l’arte artigianale di Leone. C’è, questo sì, una scena inguardabile e irraccontabile, paradigma che resterà in ogni singola opera del regista, ma in The Ninth Circle l’ultraviolenza fine a sé stessa fa un bel buco nell’acqua. La trombetta di Art arriva più sottopelle.

Risale al 2011 un secondo corto, intitolato Terrifier e incentrato unicamente sulla figura del clown. Qui si gettano le basi reali del personaggio, compreso il paradosso di fondo che lo rende così appetibile in ambito horror. Art è un uomo in carne e ossa vestito da clown, quindi non una creatura infernale come Pennywise, eppure non muore mai. Lo si può tramortire, gli si può far male, ma dopo un po’ si rialza sempre. E ovunque tu vada, a piedi o in auto, alla fine ti becca. Magari lo hai alle spalle e sta per rigirarti un coltellino nella caviglia. Dal punto di vista tecnico, il primo Terrifier sceglie una fotografia sgranata e tendente alla seppia che “antica” il digitale, simulando quasi un found footage risalente ai tempi dell’horror ruspante. Interessante poi come sia questo corto, sia il film del 2016 siano disponibili in alta qualità nell’Internet Archive. Il 2013 è l’anno del lungometraggio All Hallows’ Eve, progetto interessantissimo sotto il segno del non si butta via niente. Leone costruisce una cornice – sempre la notte di Halloween – in cui due ragazzini accuditi da un’amica dei genitori trovano nella sacca delle caramelle una videocassetta misteriosa, contenente… Il nono girone, il primo Terrifier e un segmento nuovo, imbarazzante nella sua bruttezza, con un alieno assassino che sembra uscito dai film di Ed Wood. Ma questo il regista lo sa, tant’è che Ed Wood è proprio tra le citazioni scoperte (insieme al Romero anno 1968) che filtrano dagli schermi guardati dai vari protagonisti dei suoi film. Questa videocassetta non si limita però a spaventare, e come in Lost Highway finisce per contaminare la realtà. L’arrivo soprannaturale di Art nell’hic et nunc del film si accompagna a un erroraccio e a una scena finale, ancora una volta, inguardabile, anti-woke e, come si diceva anni fa, da denuncia. L’erroraccio, che non si ripeterà più, è la risata udibile di Art mentre tenta di spaccare dall’interno lo schermo televisivo. Art the Clown è un Marcel Marceau dedito agli smembramenti. Parla solo coi gesti. Non emette gemiti nemmeno quando si ritrova con la sua stessa mazza chiodata in testa. È questo suo silenzio tombale, accompagnato a un’espressività da commedia dell’arte, a renderlo un incubo ambulante. Il suo superpotere? Le risate mute che si fa reagendo allo sconcerto di chi assiste ai suoi macelli.

Terrifier (2016) è il vero gioiello della serie. Da questo momento, sotto il costume bianco e nero c’è David Howard Thornton, che raffina la fisicità di Art. Il pagliaccio umorale col sacco della spazzatura in spalla, sacco che lo trasforma in un Eta-Beta ammazzasette, si fa strada per i seminterrati, i cessi e le altre location laide del film come una figura perfettamente definita, un archetipo horror che attrae e respinge. Art è un bambino che si succhia il pollice in grembo a una specie di Log Lady con bambola appresso, Art si atteggia a donna indossando – letteralmente – il busto e lo scalpo della sua ultima vittima, Art spunta dalla terra come una talpa primordiale e, a mo’ di zombi risorto in base a regole che non c’interessano, torna in campo nell’ultima scena con una pallottola nel cranio dopo una tempesta elettrica, escamotage non dissimile da quello adottato per Mr C. nella Part 8 di Twin Peaks – The Return (2017). Molto meno esplicito di Terrifier 2, il primo capitolo ufficiale della serie lavora sulla tensione e presenta la final girl a metà film, sacrificando la protagonista iniziale in base al medesimo minutaggio di Psycho. La scena inguardabile non manca ed è, be’, inguardabile.

Terrifier 2 (2022) va visto in sala. A colpire, in questo film graziato dal passaparola, è prima di tutto la durata. Due e ore e venti. Normale per un film di Kubrick o Lynch, rarissimo per un film horror che sguazza senza tema nell’alveo del genere. Ma in tempi di crisi delle sale, anche la quantità conta. E stavolta Leone piazza pure una sequenza fondamentale in mezzo ai titoli di coda, strizzando l’occhio alla più grossa fabbrica di blockbuster degli ultimi vent’anni. Impeto anni Settanta, colonna sonora che flirta con gli Ottanta, giochini meta degni del Wes Craven anni Novanta e una confezione che non disdegna le regole di mercato del nuovo millennio. Ciliegina (in realtà un occhio strappato) sulla torta: un clown che fa paura e che, incredibile ma vero, non esce dalle pagine di Stephen King e non è nemmeno un pupazzo come quelli, pericolosissimi, provenienti dallo spazio profondo. E mentre Alex DeLarge canticchiava Singin’ in the Rain, in questo lungo tunnel dell’orrore serpeggia la melodia del Clown Café. Legittimo aspettarsi un terzo episodio ancora più azzardato, e dopo il terzo un bel cofanetto – di VHS.

Titoli di testa di Terrifier (2016) di Damien Leone.

the horse is the white of the eyes

Il palo della luce numero 6 che fa capolino nella parte 14 di Twin Peaks: The Return (visione di Andy)

Doveva succedere prima o poi, è successo. Il 16 dicembre 2022 David Lynch ha girato col telefono gli ultimi due clippini del suo canale YouTube. Come tutti i giorni, ogni maledetto giorno dall’agosto 2020, una previsione meteo per la giornata corrente e l’estrazione di un numero tra 1 e 10. Del canale ho già parlato qui, quando ormai la fase scoppiettante dei primi mesi aveva ceduto il passo alla solidità di un rito sempre uguale. Allora, l’orizzonte era un’interruzione dovuta alle riprese di Wisteria / Unrecorded Night, per Netflix. Ipotesi accantonata in questa forma. Intanto, la febbre lynchiana continua a oscillare generando a intervalli regolari passaparola su nuovi progetti, film in camuffa per Cannes, vecchi trucchi inseriti in nuovi formati ibridi. Mai i fatti di adesso, fine dicembre 2022, parlano solo di un rito lunghissimo interrotto di punto in bianco.

Il colpo d’occhio del canale è impressionante dal punto di vista quantitativo. 850 video del lotto numerologico – in realtà 853 – e 950 previsioni del tempo, a partire da quell’11 maggio 2020 di lockdown. E ancora: la ripresa di Rabbits, diciotto irresistibili clip con David al lavoro su qualcosa (il cosa non conta), un video isolato e svogliato di Q&A, l’unico peraltro in cui compare la vera artefice del canale, cioè la produttrice esecutiva e tuttofare Sabrina S. Sutherland, e undici corti. Alcuni recuperati dalle pieghe dell’immensa officina del cineasta di Missoula, tra cui il più cliccato in assoluto, Fire (Pożar), ufficialmente senza diacritico malgrado il titolo originale sia polacco e scaturisca da una delle collaborazioni gemmate dalle riprese a Łódź di Inland Empire. Altri nuovi, letteralmente fatti in casa, api, ragni e bacarozzi, una spiazzante ripresa lampo dell’immaginario di Dumbland e un omaggio volutamente analfabeta ad Alan Splet, fautore dei primi suoni lynchiani prima ancora che esistesse l’aggettivo. In tutto, quasi duemila video da moltiplicare per una media di un minuto e mezzo ciascuno. Si va verso le 40 ore di materiale.

Dopo l’opus magnum di The Return, questo canale nato in reazione al covid e per mantenere vivo il contatto con i fan durante un periodo di magra è a sua volta una grande opera, potabile non solo per gli appassionati hardcore. Per più di due anni e mezzo ha fornito un piccolo rituale quotidiano a migliaia di persone, me compreso. L’esatto contrario dell’I’m Not There di Dylan: eccomi qua, ci sono. Mi mostro tutti i giorni dicendo sempre le stesse cose e facendo sempre le stesse mosse. Con minime variazioni, vi ipnotizzo. Un margine filiforme di evoluzione e creatività che ricorda il discorso accademico. Gli ultimi mesi, con la metafora infantile del Fun Work Train dai vagoni sempre nuovi sfoderata ogni fine settimana, un po’ di corda l’hanno mostrata. Ma ora che il rito è finito c’è solo una tristezza abissale.

Il primo dicembre 2022 Lynch ha caricato un video “unlisted”, che non si trova né nelle playlist, né nell’elenco cronologico dei clippini caricati. Eccolo. S’intitola PEACE, tutto maiuscolo, ed è quanto di più semplice e sessantottino ci si possa immaginare. Sarà sicuramente piaciuto a Donovan, e come colonna sonora ha Fire to the Stars di Angelo Badalamenti, dal film The Edge of Love (2008) di John Maybury. Il lutto per Badalamenti ha segnato l’ultima settimana di pubblicazione dei clippini. La fine della musica annuncia anche la fine dei video.

Lynch ha sempre realizzato i contenuti per il canale da casa sua, a Los Angeles. Tutti i giorni, senza eccezioni. Una sola volta ha attivato lo smartphone prima dell’alba, precisando che aveva un impegno di lavoro. Probabile che si sia trattato del giorno in cui si recò sul set di The Fabelmans per girare la sequenza [spoiler] che lo vede nei panni di John Ford. Chi ha visto il film sa che si tratta degli ultimi minuti, un colpo di coda da maestro che corona uno dei film di Spielberg più affabulatori degli ultimi anni. A fuoco come Bridge of Spies o Ready Player One, ma senza un’impalcatura storica stringente o effetti in ogni dove. Spielberg si mette pericolosamente davanti allo specchio, come Rylance nei primi fotogrammi di Bridge of Spies, raccontando una storia di famiglia nei confronti della quale si può legittimamente alzare le spalle. Ma il film funziona, e a meraviglia, come storia di un’ossessione che ammutolisce. E questa ossessione, va da sé, è il cinema come racconto, come malta vitale e come luogo. Spielberg ha realizzato a sua volta un clippino introduttivo al film in cui ringrazia gli astanti di essere usciti di casa, di essere venuti fin lì, nel buio, col fascio di luce sopra la testa, per inocularsi due ore e mezza di droga buona. Lynch è l’ultima dose di questa iniezione spielbeghiana al cubo.

John Ford irrompe in scena come Phillip Jeffries / David Bowie in Fire Walk With Me (1992): svelto da sinistra, sbucando da una porta lignea invece che da un ascensore. Persino la segretaria (Jan Hoag) sembra uscita da Twin Peaks o da The Straight Story. Gli corre dietro e torna alla scrivania con dei kleenex pieni di chiazze vermiglie. Rossetto appena ripulito. Dopodiché, ladies and gentlemen, il film diventa The Cowboy and The Fabelman. Un solo dettaglio: la statuetta metallica del cavallo alle spalle di John Ford, su un tavolino alla sua sinistra. Questa immagine, ancor più del rito lunghissimo di accendersi un sigaro con lo zolfanello o del cappellino con visiera che Lynch usa sempre sul set, fa sì che il film più personale di Spielberg (parola di Spielberg) si tramuti, nel finale!, in un omaggio scoperto al “più grande regista mai vissuto”… cioè, diciamo, John Ford.

Oltre a essere una componente essenziale dell’immaginario western, il cavallo bianco è anche uno dei segnali di sventura di Twin Peaks. Apparso sottotraccia nel pilot della seconda stagione, poi ancora nell’episodio in cui Maddie viene uccisa da Bob, in una boutade di Windom Earle, in Fire Walk With Me (poche ore prima dell’assassinio di Laura) e nelle parti 2 (Loggia nera) e 8 (flashback del 1956) di The Return, il cavallo – ora in forma di statuetta – è il simbolo del male nell’ultimissimo episodio di Twin Peaks, la parte 18. Dale Cooper / Richard si ferma al diner di Odessa Eat at Judy’s, davanti al quale campeggia un cavalluccio, e a casa di Carrie Page, mentre conversa con lei, ce n’è un altro sulla mensola. Lynch stesso gioca col topos del cavallo pernicioso nel video realizzato nel 2017 per il Comic-con, mentre The Return usciva gradualmente su Showtime. La scelta, spiazzante e idiosincratica, di fare del cavallo bianco non un vettore di salvezza ma un presagio di rovina, è uno degli Acheronti sotterranei che perturbano la visione senza dover ricorrere al ghigno demoniaco di Bob. Sulla stessa linea d’onda, ma con un mutatis mutandis bello grosso, i nitriti dietro le nuvole in Nope (2022) di Jordan Peele. Col cavallino alle spalle di John Ford, Spielberg fa entrare l’universo lynchiano nel proprio, così come vent’anni fa con A.I. aveva abitato una fantasia incompiuta di Kubrick.

In Twin Peaks, il cavallo anticipa il male onnipresente, poco importa se nascosto tra i fili d’erba o dietro una cortina rossa che sventola nel bosco. Non c’è viaggio “dall’altra parte” che tenga. Qui si annida una critica a uno degli escamotage più facili degli ultimi anni, il proliferare delle dimensioni, che nella sua forma più riuscita è ludico e stimolante (Rick and Morty), ma più spesso (dalla Marvel a Pandora, passando per certi filoni di Dylan Dog) rivela escapismo puro e salto dello squalo. Ovunque tu vada, qualunque sia la tua identità, checché tu faccia, questo il messaggio, finirà / inizierà sempre così. Laura continuerà a morire. Sarah Palmer continuerà a vedere cavalli bianchi. È la medesima intuizione alla base di Lost Highway: non un rizoma infinito, bensì una letale striscia di Moebius. Cavalcate liberatorie verso l’orizzonte? Inani.

Ma Spielberg non sa cosa sia una brutta fine. E The Fabelmans si conclude con un semplice movimento di macchina, visibilmente manuale, che concilia all’ultimo secondo e apre nuovi orizzonti. Come se nel 1956 un boscaiolo con la faccia di carbone e la sigaretta in bocca avesse bofonchiato questa nenia nel microfono dell’emittente KPJK: This is the water / And this is the well. / Drink full and descend. / The horse is the white of the eyes and light within.

Lahar

“Mich hat vom Kaukasus geträumt” annuncia Kaspar Hauser (Bruno S.) al minuto sessantotto del film di Werner Herzog uscito nel 1974 e dedicato a Lotte Eisner, per la quale il regista era andato a Parigi a piedi, “camminando nel ghiaccio”. In sottofondo, da alcuni minuti, risuona l’adagio di Albinoni. Kaspar è stato salvato dal crudele imbonitore che aveva voluto fare di lui un fenomeno da baraccone insieme al re che va rimpicciolendosi (Helmut Döring), al Mozart bambino che fissa i buchi nella terra, al mangiafuoco, all’orso rotolino e all’affabile indiano Hombrecito (Kidlat Tahimik) col suo flauto. Ha sognato il Caucaso, racconta Kaspar con lo sguardo tendente all’infinito – e noi questo sogno lo vediamo: sono immagini sfarfallanti di un panorama indistinguibile tempestato di costruzioni piramidali che sembrano ziggurat. L’anacoluto è poesia.

Kaspar Hauser è l’Uomo elefante della storia tedesca, un mistero ottocentesco che Herzog ebbe il genio di portare sullo schermo ingaggiando Bruno da Friedrichshain, un musicante di strada passato per troppe cliniche psichiatriche. Sul corpo di Bruno, sulla pronuncia scandita e visionaria, su quello sguardo abissale s’imperniano due dei film narrativi più efficaci di Herzog, realizzati nel corso degli anni Settanta. L’altro è Stroszek (1978), film-balade che brancola tra Berlino e l’America profonda, posticcia e aliena già captata da Herzog in How Much Wood Would a Woodchuck Chuck (1976), documentario sui battitori d’asta dei mercati delle vacche che, parlando a mitraglietta, asfaltano qualsiasi rapper del futuro. Si cita sempre Kinski, ma senza Bruno Schleinstein Herzog non sarebbe mai riuscito a imporsi, aura personale compresa, in quella manciata d’anni. E non è un caso che la sua musa di allora, Eva Mattes, compaia in Stroszek tragicamente accanto all’avanzo di galera Bruno e pochi mesi dopo, in Woyzeck, sia la moglie dell’acqua cheta (insidiosa e omicida) impersonata da Kinski. Questi totem attoriali, insieme ad apparizioni fulminanti come Volker Prechtel, Alfred Edel, Clemens Scheitz, lo stesso Herbert Achternbusch, hanno consentito a Herzog di qualificarsi, prima ancora che come documentarista, come regista di sogni a occhi aperti con qualche addentellato narrativo. Un film come Auch Zwerge haben klein angefangen (1970), col suo cast di soli nani, avrebbe rischiato di farlo sprofondare alla svelta dal Nuovo Cinema Tedesco all’exploitation tout court. E il fascino di Herz aus Glas (1975), con gli attori ipnotizzati e la fotografia degna di Caspar David Friedrich, sarebbe risultato semplicemente oscuro e inafferrabile.

Di recente, Herzog ha pubblicato un volume di memorie intitolato come il vecchio film su Kaspar Hauser, Jeder für sich und Gott gegen alle, motto tedesco che ribalta la versione italiana Ognuno per sé e Dio per tutti trasformando la divinità in elemento avverso. Edgar Reitz, di dieci anni precisi più anziano di Herzog (novanta invece di ottanta), è a sua volta uscito con un libro autobiografico, Filmzeit, Lebenszeit. È una coincidenza che fa riflettere, perché malgrado le differenze sostanziali entrambi rappresentano il meglio del cinema tedesco da sessant’anni a questa parte. Reitz, si pensi solo al monumentale progetto Heimat, è da sempre il cineasta organico, locale con le sue profondissime radici nell’Hunsrück, capace di rielaborare interi decenni di storia tedesca fino a giungere, con Die andere Heimat (2013), al Vormärz ottocentesco e all’epoca della migrazione. Per tacere del suo ruolo nell’ideazione del manifesto di Oberhausen. Herzog, pur avendo come prima lingua il bavarese, è il simbolo stesso del regista apolide e vagabondo che porta sullo schermo tutto il pianeta. Ma il suo approccio non è quello di un David Attenborough. Il suo è lo sguardo ossessivo, extraterrestre, estatico di Bruno S.

Nel 2022, Werner Herzog ha completato il lavoro su Die innere Glut / The Fire Within, un documentario che in occasione di una serata col regista al cinema Arsenal di Berlino egli stesso ha definito come una delle sue opere più personali. Agevolo il link al film su arte, sperando che sia visibile anche fuori dalla Germania. Si tratta di una pellicola straordinaria e sfacciata, che conclude un percorso filmico iniziato quarantacinque anni fa con La Soufrière e proseguito con Grizzly Man (2005) e Into the Inferno (2016). Nel 1976 Herzog andò a girare sull’isola di Basse-Terre, dove stava per eruttare un vulcano. Uno stunt da Jackass ante litteram che cementò il mito del regista scavezzacollo, pronto sia a cucinarsi una scarpa se Errol Morris fosse riuscito a finire il documentario di debutto Gates of Heaven, sia, come tutti sanno, a far scavallare una collina amazzonica a un barcone mentre Kinski rischiava di farsi ammazzare dagli indios (e da Herzog stesso). Celebre da questo punto di vista anche la pallottola beccata in diretta durante un’intervista.

Ai tempi della Soufrière, Katia e Maurice Krafft erano già all’opera come vulcanologi. La coppia alsaziana, autrice di riprese mai osate prima di fenomeni vulcanici in tutto il mondo, è tra i riferimenti principali di Into the Inferno, documentario sul medesimo tema che Herzog ha realizzato pochi anni fa con l’amichevole collaborazione di Clive Oppenheimer, una sorta di link tra il personaggio Herzog e il britannico aplomb di un Attenborough. Into the Inferno illustra a meraviglia quello che è diventato il cinema di Herzog negli ultimi anni. Passando – e non è una critica – dall’urgenza al completismo, il regista bavarese ha mantenuto alta la produttività affrontando temi à la Herzog senza mai rinunciare alla propria presenza vocale (off) e fisica. Consapevole di essere diventato un aggettivo come pochi altri hanno saputo fare (Hitchcock, Fellini, Lynch, forse Tarantino), Herzog continua a mostrarci il mondo con gli occhi di un alieno dandoci anche quello che ci aspettiamo da lui, cioè un moderato gigioneggiamento. Lo si vede, ad esempio, nel film in 3D sulle grotte di Chauvet, quando gioca letteralmente con la nuova tecnologia. I dieci minuti dedicati ai Krafft nel documentario sui vulcani non si dimenticano. E contengono solo materiale girato da loro. Qui si spiega come mai, nella genesi di The Fire Within, ci sia tanto Grizzly Man, il film herzoghiano forse più visto degli ultimi anni. In Grizzly Man si ricostruisce la storia folle di Timothy Treadwell, wannabe stella del piccolo schermo appassionata a tal punto di orsi da andare a vivere con loro, isolato come Christopher McCandless ma con la videocamera sempre accesa in modalità diario. Oggi diremmo: selfie. La fine di Treadwell è nota, e a colpire nel lavoro di Herzog è la preponderanza del materiale girato dal defunto rispetto ai contributi originali, che di fatto si limitano a poche scene in cui il regista parla con l’ex fidanzata e ascolta, via cuffie, la registrazione della morte in diretta. La voce off fa il resto. Ecco, in The Fire Within c’è solo quella. Herzog non ha girato un singolo fotogramma.

I Krafft sono morti nel 1991 a causa di uno zoom rotto. Recatisi sull’isola di Kyushu per filmare l’eruzione del monte Unzen insieme a una troupe giornalistica, sul posto si accorsero che lo zoom della macchina da presa non funzionava più. Al che Maurice propose di avvicinarsi alla bocca ignorando qualsiasi precauzione. Sulla collinetta che scelsero come avamposto finiranno inceneriti dal mostruoso flusso piroclastico emesso dal vulcano, cioè una rapidissima ondata di ceneri roventi. Questo l’antefatto che non vale come spoiler, perché a Herzog non interessa la loro storia in chiave sensazionalistica. Il discorso che costruisce nel suo, di documentario, è squisitamente cinematografico. Il sottotitolo è Requiem per Katia e Maurice Krafft, e nella colonna sonora, oltre agli immancabili Popol Vuh, c’è proprio Mozart. Ma anche questo depista, perché più che omaggiare degli scienziati pronti a tutto, Herzog intende celebrarne le doti filmiche. The Fire Within è un saggio su una coppia di registi mai nati, perché oltre a girare immagini inimmaginabili non hanno mai montato nulla. E Herzog questo fa: piomba sull’archivio a trent’anni dalla morte e compone il film che loro non hanno mai avuto l’intenzione di fare. I corti didattici imbastiti dal solo Maurice contano il giusto.

Die innere Glut è allora la storia di due cineasti con un’ossessione, che dai primi filmini quasi vacanzieri a Vulcano sul finire degli anni Sessanta hanno pian piano trovato la loro voce figurativa. La svolta nella qualità delle riprese avviene nel 1973, e negli anni Ottanta, divenuti ormai delle celebrità, i Krafft decidono di sfruttare l’attenzione mediatica in chiave etica, facendosi portavoce della necessità di preallertare la popolazione qualora i sismografi lancino certi segnali. Un aspetto bizzarro e non trascurabile della storia produttiva di questo documentario è la realizzazione in parallelo di un secondo film, Fire of Love, identico per impostazione di base e materiale di repertorio (il medesimo archivio). Diretto da Sara Dosa, il film ha beneficiato di ben altro battage rispetto a quello di Herzog – il quale, sempre all’Arsenal il 20 ottobre, non ha mancato di menzionarlo sostenendo di non esserne stato a conoscenza e aggiungendo, con un filo di acida megalomania herzoghiana, che il fulcro dell’altro lavoro sarebbe unicamente biografico. Una sorta di Lava Love col vulcano come amante di entrambi. Giudizio ingeneroso, malgrado il limite di “Love” stia proprio nel voler erigere un monumento alla coppia in quanto tale. Comunque la si voglia girare: il film di Herzog è già in streaming gratis, mentre quello prodotto da National Geographic è in sala.

Pur con tutto l’amore per il cinema di Herzog, unico per genere e potenza, l’elemento dell’exploitation emerge qui con una certa chiarezza. Soprattutto quando si ha l’impressione che il montaggio sulla base dell’archivio dei Krafft si basi, qui e là, su indubbie somiglianze d’immaginario. Come se Herzog peschi riprese che avrebbe potuto, o voluto, fare in prima persona. La distanza di trent’anni rispetto alla morte dei Krafft, coi quali in vita non ha mai collaborato, crea un cuscinetto salvagente. Questo punto, ovviamente soggettivo, pulsa con insistenza quando vediamo una scena nella giungla con un’automobile che viene trascinata oltre una collina a forza di carrucole. Come dire: ehi, bravi, ma io ho l’ho fatto con una barca. E ho acceso pozzi di petrolio. E ho avuto, e licenziato, Mick Jagger nel ruolo del galoppino di Fitzcarraldo. Il lato positivo di questo processo è sempre l’obiettivo di ricreare, sullo schermo, una grande estasi. Poco importa se questo avvenga con immagini altrui, riappropriate come se gli appartenessero di diritto. Estasi, e sogni.

Il contrasto tra l’impatto di un documentario come Die innere Glut e l’ultimo film narrativo di Herzog, Family Romance LLC (2019), è purtroppo nettissimo. Guardando il film che parla delle agenzie giapponesi che affittano impersonatori di membri della famiglia, il desiderio di passare al genere documentario è forte. Ed è un filo rosso che attraversa la filmografia herzoghiana da quarant’anni, cioè da quel Fitzcarraldo più interessante per la storia produttiva che per la resa in sé. Anche questa non è una critica, semmai la constatazione che il cinema estatico di Herzog non abbia bisogno di una sovrastruttura narrativa. La finzione è superflua: basta il suo sguardo a scaraventarci in un’altra dimensione. E quando non guarda direttamente, introietta i sogni altrui. Gli Spielfilme di Herzog sono pieni di immagini, spesso finali, che salvano impalcature fragili. Dalla lotta di Kinski col barchino in conclusione di Cobra verde alla cima raggiunta in Schrei aus Stein, fino alle riprese delle dune mosse dal vento in Queen of the Desert (2015), o del deserto sudamericano in Salt and Fire (2016). Eccezioni positive sono My Son My Son What Have Ye Done (2010), bizzarria lynchiana girata in quattro e quattr’otto back to back rispetto all’assurdo sequel del Cattivo tenente, presentata a Venezia a sorpresa insieme a quest’ultimo; e soprattutto Invincibile (2001). Non tutto Invincible, che come film storico fluttua tra la fiction televisiva e la forzatura della Storia stessa, tanto da cambiare la vita del suo protagonista Zishe Breitbart. No, a rendere Invincible una vera esperienza herzoghiana è la scelta dell’attore principale, il finnico Jouko Ahola, forzuto come i forzuti a cui il regista dedicò il suo primissimo corto Herakles (1962), insieme a due scene ipnagogiche che salvano l’impianto generale. Queste scene sono state girate sull’isola di Natale, nell’oceano Indiano, l’unica in cui ci sono i granchi giganti rossi.

Un lahar è una valanga di fango, detriti e materiale vulcanico causata da un’eruzione. Inoculandosi film come The Fire Within ci si sente come travolti da immagini inarrestabili che paiono non essere di questo mondo. Invincible si conclude col fratellino di Zishe, Benjamin, che spicca il volo verso il mare lasciandosi alle spalle scogli ricoperti di granchi rossi. Prima di morire, Kaspar Hauser racconta l’unica storia che ha inventato, quella di una carovana di berberi nel Sahara guidata da un cieco che, assaggiando la sabbia, non si lascia ingannare dai miraggi. Ancora immagini sfarfallanti. La favola è tronca: manca la fine. Bruno S. è stato seppellito a Schöneberg, a pochi metri dai fratelli Grimm.