ultraviolenza

Titoli di testa del corto Terrifier (2011) di Damien Leone.

Se son sempre qui a parlare di film è perché il 6 dicembre 1992 mia madre insistette per farmi vedere Arancia meccanica. Prendemmo la videocassetta a noleggio in zona Fossolo, a Bologna, in un negozietto tra i palazzi a un tiro di schioppo da uno di quei vecchi centri commerciali angusti e bui, di fatto un corridoio con delle vetrine, che ora si vedono solo nell’Europa dell’Est. Dopo la prima visione del film, a suo tempo vietato ai minori di anni diciotto, non ebbi scelta: fu la natura, non la cultura, a costringermi a rimediare la colonna sonora di Ludovico van con iniezioni psicotrope di Wendy Carlos. Sempre lei, la natura, mi fece rivedere il film almeno dieci volte nell’arco di pochi mesi, da solo o in compagnia di amici da contagiare con questa magnifica ossessione. Ricordo benissimo la qualità miserrima, eppure aurorale, della versione originale – sempre VHS – sulla quale riuscii a mettere le zampe scambiando videocassette come se non ci fosse un domani. Strati su strati di sabbia magnetica, audio distorto, colori sbavati, il tutto a causa della moltiplicazione analogica, quindi organica, quindi mortale come noi, di un master perso nella notte dei tempi. Ricordo benissimo anche la prima proiezione in pellicola di A Clockwork Orange al Lumière di via Pietralata, un evento epocale. Lunga fila per agguantare il biglietto e tutto il film, coi suoi centotrentacinque minuti in tre atti, visto in primissima fila all’estrema sinistra, cranio schiacciato nella nuca e mandibola a terra.

Prima di allora, da quando il videoregistratore si era annunciato nel salotto di casa nel giugno del 1990 in occasione dei Mondiali, avevo cominciato a saccheggiare il videonoleggio di via Massarenti con i miei amici di sempre, soprattutto Fabio, passando in rassegna la sezione horror con la medesima acribia di un bibliotecario alessandrino. Il primo film che riuscii a copiare collegando il VCR a un lettore fu Re-Animator (1985) di Gordon/Yuzna. Tra i nostri preferiti c’erano le due Case di Raimi (L’armata delle tenebre l’avremmo poi vista al cinema), ma anche Profondo rosso, Le colline hanno gli occhi, Zombi (1978), Society e, guilty pleasure prima ancora di conoscere il concetto, Il bosco 1 di Andrea Marfori, esempio da manuale di film così brutto da diventare bello. A tenere insieme tutti questi sanguinolenti tasselli filmici c’era un’idea di cinema vecchia come il cinema, la stessa che anima Häxan (1922) di Benjamin Christensen, Un chien andalou o Freaks (1932) di Browning. Non la violenza in sé, non l’intento pornografico di sbattere in faccia al pubblico immagini forti. Ma la volontà sperimentale, rischiosa e ossessiva di superare dei limiti, trasformando lo schermo in un tunnel risucchiante. Più che Gola profonda, Videodrome. Un approccio che spesso invecchia male, ma in certi casi – A Clockwork Orange è uno di questi – si conserva grossomodo intatto nel corso dei decenni. Se mia madre non avesse premuto, a scopi formativi, affinché vedessi il film di Edel su Cristiana F. in tv (sforbiciato), ora non batterei i tasti da questo appartamentino di Friedrichshain e probabilmente avrei sprecato ulteriori mesi della mia infanzia (avevo dieci anni) senza conoscere David Bowie. La distinzione che si tende a fare oggi tra un horror “elevated”, diciamo quello che fa Ari Aster, e uno colpevolmente basso e anale, è quanto di più vacuo. Lo dice anche John Carpenter. La vera domanda è: ti prende alle viscere oppure no? Ti cambia oppure no? Ti resta dentro, non ti fa dormire o scema insieme ai titoli di coda? Se il cinema non è come l’intestino della creatura aliena di Nope (2022), cinema non è.

Questo mese ho visto in sala due film diversissimi che toccano questi tasti. Il primo è IO di Jerzy Skolimowski. Il titolo scimmiotta il raglio dell’asino, quindi andrebbe mantenuto in originale malgrado circoli soprattutto la versione internazionale, anglicizzata, “EO”. È la storia, o meglio il viaggio in Europa di un somaro, animale a cui Jerzy è molto legato. Il cineasta polacco l’ha scritto insieme alla moglie Ewa Piaskowska, artefice del suo ritorno dietro la macchina da presa nel 2008 col formidabile Cztery noce z Anną, film girato letteralmente attorno a casa in un paesello della Masuria. Insieme hanno poi sfornato Essential Killing (2011), anch’esso un viaggio animalesco, con Vincent Gallo catturato in Afghanistan, sottoposto a waterboarding, in fuga nella neve grazie a un incidente automobilistico e alla macchia nelle foreste forse polacche, forse arcane – foreste e basta. Questa pellicola senza un filo di grasso, un tendine più che una pizza, resta nella memoria perché il protagonista non spiccica parola e si fa largo in uno stato di natura che non lo differenzia dagli altri animali che fanno capolino: lupi, cani, cavalli, persino le formiche che mangia per trarne proteine. L’ultraviolenza di Essential Killing sta tutta nella situazione immersiva e senza vie di mezzo. Girato a temperature ampiamente sotto lo zero con Gallo che brancola a piedi nudi, il film non ha bisogno di mettere in scena la violenza. La sequenza più forte è forse quella in cui il protagonista minaccia con la pistola una madre con neonato sul ciglio della strada per farsi allattare. Il sangue, in tutto il film, si vede a malapena, a parte quello sputato dal fuggitivo a cavallo quando il viaggio, finta fuga, volge al termine. Seppur influenzato dal clima dei primi anni Duemila, con la latenza del terrorismo e l’ombra di Guantanamo, con Essential Killing Skolimowski non fa un Redacted (2007) europeo. Fa, come sempre del resto, un film libero e selvaggio su un outsider, rinunciando ai lacciuoli narrativi che gli hanno sempre azzoppato i progetti meno memorabili.

IO è una versione ancor più distillata di Essential Killing. Stavolta il protagonista non è nemmeno bipede: è un asino, anzi sei asini visibilmente diversi (Marietta, Tako, Hola, Rocco, Ettore, Mela) in viaggio dalla Polonia all’Italia. A scatola chiusa verrebbe in mente Au hazard Balthazar di Bresson, ma Skolimowski non è un autore attento alla trascendenza. I suoi film sono terragni ed epicurei. Inoltre, IO è animato da uno slancio antispecista che l’apologo morale di Bresson non aveva. E sebbene nessuno dei due ceda al lieto fine, non è nemmeno l’amarezza a unirli. Il film di Skolimowski e Piaskowska ha un che di squisitamente vitalistico, di sghembamente visionario, che prescinde dalla sinossi. In questo è persino più potente di Essential Killing. E come nel film del 2011 appare Emmauelle Seigner nel prefinale, qui si palesa una Isabelle Huppert mangiapreti (ma non come ci si potrebbe immaginare). Apparizioni divine che non scombussolano tuttavia l’equilibrio del film, né scalzano il protagonista. L’asino è solo. Manca la sua Anne Wiazemsky. IO è un film sulla libertà della visione. Lasco nella logica, geniale nel tingere di rosso fuoco panorami esplorati col drone o nello scandagliare una foresta coi laser dei cacciatori, spiazzante ma coerente (una coerenza che si intuisce soltanto) nel buttare nel montaggio un cane robot di ultima generazione o una scena sugli sci senza alcun addentellato stringente con la trama. È un film che si sofferma sugli animali – tantissimi – ma non ha alcun problema, come in Essential Killing, a sparare a palla la musica heavy metal di un’autoradio. Ma a differenza di Essential Killing, IO mette davvero in scena l’ultraviolenza. Lo fa di punto in bianco, con la rapidità di un ceffone. Non ai danni degli animali, e soprattutto scansando il sadismo furbo di un Haneke in Caché. Se IO fa piangere, perché fa piangere, non è certo per questo flash che toglie di mezzo un personaggio, spendibile e provvisorio come tutti gli altri Huppert compresa, ma il baluginare di una violenza presentata come un rombo di tuono ci resta dentro e ci accompagna per il resto della visione. Torna in mente la lampada oscillante nel finale di Deep End, che toglie la vita con un “toc”. È il bussare della natura indifferente, al cui servizio siamo ogni tanto anche noi esseri umani, utili idioti.

Dalla natura indifferente ad Art the Clown il passo non è brevissimo, ma se Michael Myers, nelle intenzioni di Carpenter, è sempre stato solo e soltanto una buia forza naturale, allora anche l’assassino in costume di Damien Leone lo è. Che non a caso agisce sempre per Halloween. La saga di Terrifier merita perché ha il rarissimo pregio di imporsi, e funzionare, proprio come una saga nel senso autoriale del termine. Titoli come Halloween, Friday 13 th, Evil Dead, A Nightmare on Elm Street, Scream o Saw sono prima di tutto “content”, diritti che passano di mano e prendono via via forme dettate dai chiari di luna del mercato. Una forma che nel caso di Saw è spesso mutuata dai PowerPoint. Quello che Damien Leone è riuscito a fare fino ad ora, a quindici anni dal primo corto, è mantenere un controllo totale su un personaggio, e una concatenazione di eventi, che nel 2022 con Terrifier 2 sono entrati di diritto nella storia del genere slasher e del cinema viscerale. Se Buono Legnani nella Casa dalle finestre che ridono era un pittore di agonie, Leone è un inscenatore di carneficine. E qui l’analisi inizia e finisce, perché non c’è molto altro da dire. Il trucido in sé e per sé è già antiquariato, e per farsene un’idea bisogna proprio tornare a quegli anni Settanta che segnarono uno scatenamento, a volte da vomito, delle immagini sullo schermo. Ma a rendere unico il marchio Terrifier vi sono almeno due ingredienti: l’aura di Art, degna di Füssli, e la costruzione pezzo dopo pezzo di un immaginario efficace, a tratti davvero terrorizzante. Una graduale messa a fuoco. Nel “Nono girone”, il suo primo corto, Leone lancia subito in scena Art (interpretato da Mike Giannelli) nella forma di un clown-stalker che fissa la propria vittima, la provoca con una trombetta e dopo averla disgustata con un mazzo di fiori con bacarozzo la mette fuori gioco con una iniezione. Il resto di questa prima celluloid atrocity è meno ipnotico, e funge semmai da portfolio per l’arte artigianale di Leone. C’è, questo sì, una scena inguardabile e irraccontabile, paradigma che resterà in ogni singola opera del regista, ma in The Ninth Circle l’ultraviolenza fine a sé stessa fa un bel buco nell’acqua. La trombetta di Art arriva più sottopelle.

Risale al 2011 un secondo corto, intitolato Terrifier e incentrato unicamente sulla figura del clown. Qui si gettano le basi reali del personaggio, compreso il paradosso di fondo che lo rende così appetibile in ambito horror. Art è un uomo in carne e ossa vestito da clown, quindi non una creatura infernale come Pennywise, eppure non muore mai. Lo si può tramortire, gli si può far male, ma dopo un po’ si rialza sempre. E ovunque tu vada, a piedi o in auto, alla fine ti becca. Magari lo hai alle spalle e sta per rigirarti un coltellino nella caviglia. Dal punto di vista tecnico, il primo Terrifier sceglie una fotografia sgranata e tendente alla seppia che “antica” il digitale, simulando quasi un found footage risalente ai tempi dell’horror ruspante. Interessante poi come sia questo corto, sia il film del 2016 siano disponibili in alta qualità nell’Internet Archive. Il 2013 è l’anno del lungometraggio All Hallows’ Eve, progetto interessantissimo sotto il segno del non si butta via niente. Leone costruisce una cornice – sempre la notte di Halloween – in cui due ragazzini accuditi da un’amica dei genitori trovano nella sacca delle caramelle una videocassetta misteriosa, contenente… Il nono girone, il primo Terrifier e un segmento nuovo, imbarazzante nella sua bruttezza, con un alieno assassino che sembra uscito dai film di Ed Wood. Ma questo il regista lo sa, tant’è che Ed Wood è proprio tra le citazioni scoperte (insieme al Romero anno 1968) che filtrano dagli schermi guardati dai vari protagonisti dei suoi film. Questa videocassetta non si limita però a spaventare, e come in Lost Highway finisce per contaminare la realtà. L’arrivo soprannaturale di Art nell’hic et nunc del film si accompagna a un erroraccio e a una scena finale, ancora una volta, inguardabile, anti-woke e, come si diceva anni fa, da denuncia. L’erroraccio, che non si ripeterà più, è la risata udibile di Art mentre tenta di spaccare dall’interno lo schermo televisivo. Art the Clown è un Marcel Marceau dedito agli smembramenti. Parla solo coi gesti. Non emette gemiti nemmeno quando si ritrova con la sua stessa mazza chiodata in testa. È questo suo silenzio tombale, accompagnato a un’espressività da commedia dell’arte, a renderlo un incubo ambulante. Il suo superpotere? Le risate mute che si fa reagendo allo sconcerto di chi assiste ai suoi macelli.

Terrifier (2016) è il vero gioiello della serie. Da questo momento, sotto il costume bianco e nero c’è David Howard Thornton, che raffina la fisicità di Art. Il pagliaccio umorale col sacco della spazzatura in spalla, sacco che lo trasforma in un Eta-Beta ammazzasette, si fa strada per i seminterrati, i cessi e le altre location laide del film come una figura perfettamente definita, un archetipo horror che attrae e respinge. Art è un bambino che si succhia il pollice in grembo a una specie di Log Lady con bambola appresso, Art si atteggia a donna indossando – letteralmente – il busto e lo scalpo della sua ultima vittima, Art spunta dalla terra come una talpa primordiale e, a mo’ di zombi risorto in base a regole che non c’interessano, torna in campo nell’ultima scena con una pallottola nel cranio dopo una tempesta elettrica, escamotage non dissimile da quello adottato per Mr C. nella Part 8 di Twin Peaks – The Return (2017). Molto meno esplicito di Terrifier 2, il primo capitolo ufficiale della serie lavora sulla tensione e presenta la final girl a metà film, sacrificando la protagonista iniziale in base al medesimo minutaggio di Psycho. La scena inguardabile non manca ed è, be’, inguardabile.

Terrifier 2 (2022) va visto in sala. A colpire, in questo film graziato dal passaparola, è prima di tutto la durata. Due e ore e venti. Normale per un film di Kubrick o Lynch, rarissimo per un film horror che sguazza senza tema nell’alveo del genere. Ma in tempi di crisi delle sale, anche la quantità conta. E stavolta Leone piazza pure una sequenza fondamentale in mezzo ai titoli di coda, strizzando l’occhio alla più grossa fabbrica di blockbuster degli ultimi vent’anni. Impeto anni Settanta, colonna sonora che flirta con gli Ottanta, giochini meta degni del Wes Craven anni Novanta e una confezione che non disdegna le regole di mercato del nuovo millennio. Ciliegina (in realtà un occhio strappato) sulla torta: un clown che fa paura e che, incredibile ma vero, non esce dalle pagine di Stephen King e non è nemmeno un pupazzo come quelli, pericolosissimi, provenienti dallo spazio profondo. E mentre Alex DeLarge canticchiava Singin’ in the Rain, in questo lungo tunnel dell’orrore serpeggia la melodia del Clown Café. Legittimo aspettarsi un terzo episodio ancora più azzardato, e dopo il terzo un bel cofanetto – di VHS.

Titoli di testa di Terrifier (2016) di Damien Leone.

the horse is the white of the eyes

Il palo della luce numero 6 che fa capolino nella parte 14 di Twin Peaks: The Return (visione di Andy)

Doveva succedere prima o poi, è successo. Il 16 dicembre 2022 David Lynch ha girato col telefono gli ultimi due clippini del suo canale YouTube. Come tutti i giorni, ogni maledetto giorno dall’agosto 2020, una previsione meteo per la giornata corrente e l’estrazione di un numero tra 1 e 10. Del canale ho già parlato qui, quando ormai la fase scoppiettante dei primi mesi aveva ceduto il passo alla solidità di un rito sempre uguale. Allora, l’orizzonte era un’interruzione dovuta alle riprese di Wisteria / Unrecorded Night, per Netflix. Ipotesi accantonata in questa forma. Intanto, la febbre lynchiana continua a oscillare generando a intervalli regolari passaparola su nuovi progetti, film in camuffa per Cannes, vecchi trucchi inseriti in nuovi formati ibridi. Mai i fatti di adesso, fine dicembre 2022, parlano solo di un rito lunghissimo interrotto di punto in bianco.

Il colpo d’occhio del canale è impressionante dal punto di vista quantitativo. 850 video del lotto numerologico – in realtà 853 – e 950 previsioni del tempo, a partire da quell’11 maggio 2020 di lockdown. E ancora: la ripresa di Rabbits, diciotto irresistibili clip con David al lavoro su qualcosa (il cosa non conta), un video isolato e svogliato di Q&A, l’unico peraltro in cui compare la vera artefice del canale, cioè la produttrice esecutiva e tuttofare Sabrina S. Sutherland, e undici corti. Alcuni recuperati dalle pieghe dell’immensa officina del cineasta di Missoula, tra cui il più cliccato in assoluto, Fire (Pożar), ufficialmente senza diacritico malgrado il titolo originale sia polacco e scaturisca da una delle collaborazioni gemmate dalle riprese a Łódź di Inland Empire. Altri nuovi, letteralmente fatti in casa, api, ragni e bacarozzi, una spiazzante ripresa lampo dell’immaginario di Dumbland e un omaggio volutamente analfabeta ad Alan Splet, fautore dei primi suoni lynchiani prima ancora che esistesse l’aggettivo. In tutto, quasi duemila video da moltiplicare per una media di un minuto e mezzo ciascuno. Si va verso le 40 ore di materiale.

Dopo l’opus magnum di The Return, questo canale nato in reazione al covid e per mantenere vivo il contatto con i fan durante un periodo di magra è a sua volta una grande opera, potabile non solo per gli appassionati hardcore. Per più di due anni e mezzo ha fornito un piccolo rituale quotidiano a migliaia di persone, me compreso. L’esatto contrario dell’I’m Not There di Dylan: eccomi qua, ci sono. Mi mostro tutti i giorni dicendo sempre le stesse cose e facendo sempre le stesse mosse. Con minime variazioni, vi ipnotizzo. Un margine filiforme di evoluzione e creatività che ricorda il discorso accademico. Gli ultimi mesi, con la metafora infantile del Fun Work Train dai vagoni sempre nuovi sfoderata ogni fine settimana, un po’ di corda l’hanno mostrata. Ma ora che il rito è finito c’è solo una tristezza abissale.

Il primo dicembre 2022 Lynch ha caricato un video “unlisted”, che non si trova né nelle playlist, né nell’elenco cronologico dei clippini caricati. Eccolo. S’intitola PEACE, tutto maiuscolo, ed è quanto di più semplice e sessantottino ci si possa immaginare. Sarà sicuramente piaciuto a Donovan, e come colonna sonora ha Fire to the Stars di Angelo Badalamenti, dal film The Edge of Love (2008) di John Maybury. Il lutto per Badalamenti ha segnato l’ultima settimana di pubblicazione dei clippini. La fine della musica annuncia anche la fine dei video.

Lynch ha sempre realizzato i contenuti per il canale da casa sua, a Los Angeles. Tutti i giorni, senza eccezioni. Una sola volta ha attivato lo smartphone prima dell’alba, precisando che aveva un impegno di lavoro. Probabile che si sia trattato del giorno in cui si recò sul set di The Fabelmans per girare la sequenza [spoiler] che lo vede nei panni di John Ford. Chi ha visto il film sa che si tratta degli ultimi minuti, un colpo di coda da maestro che corona uno dei film di Spielberg più affabulatori degli ultimi anni. A fuoco come Bridge of Spies o Ready Player One, ma senza un’impalcatura storica stringente o effetti in ogni dove. Spielberg si mette pericolosamente davanti allo specchio, come Rylance nei primi fotogrammi di Bridge of Spies, raccontando una storia di famiglia nei confronti della quale si può legittimamente alzare le spalle. Ma il film funziona, e a meraviglia, come storia di un’ossessione che ammutolisce. E questa ossessione, va da sé, è il cinema come racconto, come malta vitale e come luogo. Spielberg ha realizzato a sua volta un clippino introduttivo al film in cui ringrazia gli astanti di essere usciti di casa, di essere venuti fin lì, nel buio, col fascio di luce sopra la testa, per inocularsi due ore e mezza di droga buona. Lynch è l’ultima dose di questa iniezione spielbeghiana al cubo.

John Ford irrompe in scena come Phillip Jeffries / David Bowie in Fire Walk With Me (1992): svelto da sinistra, sbucando da una porta lignea invece che da un ascensore. Persino la segretaria (Jan Hoag) sembra uscita da Twin Peaks o da The Straight Story. Gli corre dietro e torna alla scrivania con dei kleenex pieni di chiazze vermiglie. Rossetto appena ripulito. Dopodiché, ladies and gentlemen, il film diventa The Cowboy and The Fabelman. Un solo dettaglio: la statuetta metallica del cavallo alle spalle di John Ford, su un tavolino alla sua sinistra. Questa immagine, ancor più del rito lunghissimo di accendersi un sigaro con lo zolfanello o del cappellino con visiera che Lynch usa sempre sul set, fa sì che il film più personale di Spielberg (parola di Spielberg) si tramuti, nel finale!, in un omaggio scoperto al “più grande regista mai vissuto”… cioè, diciamo, John Ford.

Oltre a essere una componente essenziale dell’immaginario western, il cavallo bianco è anche uno dei segnali di sventura di Twin Peaks. Apparso sottotraccia nel pilot della seconda stagione, poi ancora nell’episodio in cui Maddie viene uccisa da Bob, in una boutade di Windom Earle, in Fire Walk With Me (poche ore prima dell’assassinio di Laura) e nelle parti 2 (Loggia nera) e 8 (flashback del 1956) di The Return, il cavallo – ora in forma di statuetta – è il simbolo del male nell’ultimissimo episodio di Twin Peaks, la parte 18. Dale Cooper / Richard si ferma al diner di Odessa Eat at Judy’s, davanti al quale campeggia un cavalluccio, e a casa di Carrie Page, mentre conversa con lei, ce n’è un altro sulla mensola. Lynch stesso gioca col topos del cavallo pernicioso nel video realizzato nel 2017 per il Comic-con, mentre The Return usciva gradualmente su Showtime. La scelta, spiazzante e idiosincratica, di fare del cavallo bianco non un vettore di salvezza ma un presagio di rovina, è uno degli Acheronti sotterranei che perturbano la visione senza dover ricorrere al ghigno demoniaco di Bob. Sulla stessa linea d’onda, ma con un mutatis mutandis bello grosso, i nitriti dietro le nuvole in Nope (2022) di Jordan Peele. Col cavallino alle spalle di John Ford, Spielberg fa entrare l’universo lynchiano nel proprio, così come vent’anni fa con A.I. aveva abitato una fantasia incompiuta di Kubrick.

In Twin Peaks, il cavallo anticipa il male onnipresente, poco importa se nascosto tra i fili d’erba o dietro una cortina rossa che sventola nel bosco. Non c’è viaggio “dall’altra parte” che tenga. Qui si annida una critica a uno degli escamotage più facili degli ultimi anni, il proliferare delle dimensioni, che nella sua forma più riuscita è ludico e stimolante (Rick and Morty), ma più spesso (dalla Marvel a Pandora, passando per certi filoni di Dylan Dog) rivela escapismo puro e salto dello squalo. Ovunque tu vada, qualunque sia la tua identità, checché tu faccia, questo il messaggio, finirà / inizierà sempre così. Laura continuerà a morire. Sarah Palmer continuerà a vedere cavalli bianchi. È la medesima intuizione alla base di Lost Highway: non un rizoma infinito, bensì una letale striscia di Moebius. Cavalcate liberatorie verso l’orizzonte? Inani.

Ma Spielberg non sa cosa sia una brutta fine. E The Fabelmans si conclude con un semplice movimento di macchina, visibilmente manuale, che concilia all’ultimo secondo e apre nuovi orizzonti. Come se nel 1956 un boscaiolo con la faccia di carbone e la sigaretta in bocca avesse bofonchiato questa nenia nel microfono dell’emittente KPJK: This is the water / And this is the well. / Drink full and descend. / The horse is the white of the eyes and light within.

è notte

Esterno notte (2022), episodio 4: Valerio Morucci (Gabriel Montusi) guarda dallo spioncino in stato sonnambolico.

La commedia, sostiene l’untuoso Lester (Alan Alda) in Crimes and Misdemeanors (1989), è tragedia più tempo. E il sublime cos’è? Forse una tragedia collettiva, compressa nel sangue di uno statista e della sua scorta, reinterpretata a intervalli regolari tanto da diventare una vicenda biblica. Marco Bellocchio non ha sempre aspettato per affrontare temi scottanti come le tesi di Basaglia (il documentario a più mani Matti da slegare, 1975) o il caso Englaro (Bella addormentata, 2012). Ma in alcuni casi il tempo se l’è preso, sia per rielaborare un trauma, sia per tornare sul luogo del delitto. Chiamiamolo così. Nel 1982, con Gli occhi, la bocca, ha azzardato un sequel impossibile dei Pugni in tasca. E nel 2021 ha racchiuso in un documentario decenni di riflessioni e traumi familiari. Un ritornare che non ha nulla a che spartire con la serialità tentacolare e industriale da MCU o da Netflix, e nemmeno con la coazione a ripetere di Woody Allen. I suoi ritorni sono dolenti e pensosi. Come l’Inserto girato a Lisca Bianca (1983), col quale Antonioni torna per meno di dieci minuti sull’isola della scomparsa di Anna nell’Avventura, mostra solo rocce e flutti a colori e lascia l’audio del film del 1960. Oppure, Krzysztof Zanussi. Che nel 2000 gira Życie jako śmiertelna choroba przenoszona drogą płciową (La vita come malattia fatale sessualmente trasmessa), storia di un medico (Zbigniew Zapasiewicz) ammalato di tumore, e un anno dopo, con Suplement, racconta la medesima vicenda adottando il punto di vista di un comprimario del primo film – mantenendone intatte intere sequenze. Suplement integra e approfondisce i contenuti di Życie, offrendo un’ottica meno lugubre. Con la serie Esterno notte, in sei episodi, Marco Bellocchio torna letteralmente sul luogo del delitto Moro, già affrontato in Buongiorno, notte (2003). Un supplemento? Forse. Ma per togliere ogni speranza.

Il film di vent’anni fa, realizzato dopo il formidabile ritorno alla forma de L’ora di religione, era liberamente tratto da un libro, Il prigioniero, di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella. La nuova serie si basa su un soggetto originale di Bellocchio, Stefano Bises e Giovanni Bianconi sceneggiato insieme a Ludovica Rampoldi e Davide Serino. Buongiorno, notte (d’ora in poi senza virgola) si concentrava sul nucleo di brigatisti responsabili del sequestro Moro, in particolare Chiara / Adriana Faranda (Maya Sansa). Celebre, e ormai non è uno spoiler, il finale sognato con lo statista (Roberto Herlitzka) che esce dall’appartamento mentre tutti dormono e passeggia spensierato all’Eur, solo ma libero. Un sogno attribuibile a Faranda e alle sue remore circa l’uccisione del presidente democristiano. Esterno notte, che invece di durare un’ora e quaranta ne dura quasi sei, è inevitabilmente una tela più spaziosa. L’idea scardinante del film monopolizza, di fatto, tutto l’episodio 4, con Daniela Marra nei panni di Faranda. Il primo e il sesto vedono protagonista Moro (Fabrizio Gifuni), il secondo Cossiga (Fausto Russo Alesi), il terzo Paolo VI (Toni Servillo) e il quinto Eleonora Moro (Margherita Buy). Gli episodi 2-5 ripropongono quindi i mesi del sequestro da diverse prospettive. Torna la tentazione di liberare Moro – nel sogno a occhi aperti di uno dei protagonisti – proposta qui all’inizio della serie, tanto da creare aspettative forse ingannevoli. Ma alla fine è sempre la storia a prendere il sopravvento, mediante il ricorso spietato a materiali di repertorio.

Buongiorno notte è classic Bellocchio: rigoroso, sfacciato, a volte ieratico – o schematico. Dedicato “a mio padre”, il film mette in scena un Moro-sfinge che non riesce davvero a svincolarsi dal magnetismo di Herlitzka. Anche Luigi Lo Cascio nel ruolo di Mario Moretti è più robotico che inquietante, tant’è che quando conciona col passamontagna sembra Diabolik. Debole anche la sottotrama “meta” con Paolo Briguglia (Enzo Passoscuro, classico nome finzionale da film di Bellocchio) che fa la corte a Faranda ed è autore di una sceneggiatura eponima del titolo. Meglio, nella serie, l’inserimento plausibile dell’instant movie studentesco sul sequestro, col cameo di Ruggero Cappuccio. In Buongiorno notte ci sono tuttavia dei colpacci: i brigatisti che mormorano come in trance “la classe operaia deve dirigere tutto” e si fanno il segno della croce prima di mangiare; i Pink Floyd di Dark Side of the Moon sparati sui servizi dei tg, su spezzoni di Paisà (1946) e su filmati stalinisti; l’idea di mettere in scena Moro come un condannato a morte della resistenza, suffragata dalla presenza fisica del libro Einaudi con le lettere dei partigiani ammazzati. Le lettere di Moro sono la spina dorsale tanto del film, quanto della serie. Sia per i loro pregi letterari, sia perché le sceneggiature di Bellocchio sembrano voler trovare spazio tra le loro righe, arrivando a integrarle. Esterno notte si apre infatti con una sbalorditiva lettera fittizia in cui Moro si dimette dalla DC.

Nella pellicola, la condanna a morte viene pronunciata dopo un servizio televisivo che parla della chiusura dei manicomi. La follia, o presunta tale, è un filo rosso che attraversa tutta la vita familiare e l’opera cinematografica di Bellocchio. Moro venne spacciato per pazzo dalla politica e dai giornali dopo la divulgazione della prima lettera, una mossa forzata dalla strategia della fermezza che Esterno notte illustra meticolosamente. Quanto ai brigatisti, Bellocchio non commette mai l’errore di appiattire l’ossessione ideologica per la lotta armata a mera psicopatia. Non tutti sono consumati dai dubbi di Faranda, ma anche nella figura monolitica di Moretti (reso alla perfezione da Davide Mancini nella serie), più che la volontà omicida colpisce semmai la strenua cecità dinanzi alle contraddizioni. Moretti è lucidamente ottuso. Nella miniserie, nell’arco di un minuto ignora un mendicante e resta indifferente dinanzi a uno scippo: a lui interessa solo la difesa di una classe operaia assoluta e contumace, alla quale peraltro non appartiene. E che non conosce. Anche lui padre, nel film ammette di non vedere il figlio da anni per portare avanti la causa rivoluzionaria. Il “proletario” finisce per collimare col sol dell’avvenire. Il brigatismo assume la forma di un’autoipnosi di minoranza, decisa a vendicare l’orrore della catena di montaggio. È una religione, il brigatismo, che ammazza per sentirsi viva. Bellocchio riesce sempre a toccare il tema della fede, non importa in cosa, evitando sbavature nonostante le tinte fortissime. Quando i suoi personaggi si scagliano contro l’istituzione della famiglia, lo fanno nel quadro di un discorso che eleva la famiglia. Lo stesso vale per il cattolicesimo, per lo Stato, per l’ideologia.

Esterno notte, prodotto televisivo per caso, ricorda molto da vicino la grande narrazione del Traditore (2019). Attori mimetici, ampio respiro, il coraggio di sfidare l’intrattenimento all’americana. Bellocchio ultraottantenne somiglia sempre di più al Coppola trentenne. Questo si vede non solo nelle scene più esplicite, o in quelle che investono il potere e la famiglia – temi da sempre cari a entrambi. Il secondo, straordinario episodio, incentrato su Cossiga, rievoca 1:1 le atmosfere paranoiche della Conversazione. L’ex ministro degli Interni, ciclotimico e sposato alla DC, con la vitiligine incipiente, trova un’inutile valvola di sfogo nelle cuffie per le intercettazioni. Dà ascolto persino a un veggente. Tutto si mischia nel ventre della Balena bianca eternamente al governo, a suo tempo con Andreotti primo ministro e i comunisti di Berlinguer a dare un sostegno esterno – l’obiettivo del centro-sinistra storico di matrice morotea. Le ore di Esterno notte, il ritmo ciclico degli episodi centrali, gli esiti scoranti della cosiddetta Notte della repubblica raccontano un naufragio collettivo e insensato, senza possibilità di redenzione.

Ma è passato del tempo, anche rispetto al film del 2003. E in Esterno notte Moro non è più un resistente morituro, bensì una figura cristologica. Regge la croce durante una via crucis immaginaria, con la compagine democristiana al posto dei fedeli. Tradotto: sulla figura di Moro si può ricamare con maggiore libertà. Come quando era ancora vivo. Nel 1976, l’anno di Todo modo di Elio Petri, da Sciascia, lo scrittore paragonò la pellicola a un’esecuzione, definendola nei termini di una cupio dissolvi pasoliniana. Nel film, sconclusionato e invecchiato male come tutti gli ultimi di Petri, Gian Maria Volonté interpreta un Moro non dichiarato, muovendosi in un’atmosfera tra il kafkiano e la dark room democristiana. Una scelta che a posteriori (cioè dopo il sequestro) non piacque, facendo quasi scomparire Todo modo per alcuni anni e spingendo Volonté a rivestire i panni del segretario DC nello scolastico Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara. Esterno notte è anche una risposta a decenni di cinema di impegno civile italiano. Col suo tema abissale, con la sua sceneggiatura che non ha paura di mostrare e aggiungere, col suo cast perfettamente equilibrato, la miniserie di Bellocchio riassume il meglio del cinema civile degli ultimi anni, scansando sia gli eccessi stilistici (vedi Sorrentino), sia il piattume benintenziato (vedi Amelio).

Un mélange non facile. Scegliere Toni Servillo per rianimare una figura come Paolo VI (che in Buongiorno notte è praticamente un manichino) significa sfidare l’intero immaginario sorrentiniano, col suo intruglio di papi, porporati, pretonzoli e suorine, Napoli e Roma al cubo. Per tacere del coraggio di rimettere in scena, tra il grottesco e il realistico-mimetico, tutto lo stato maggiore democristiano di quei tempi, non dissimile da quello che si vede nel Divo (2008). Ecco allora Andreotti (Fabrizio Contri, volutamente trattenuto), Zaccagnini (Gigio Alberti), il presidente Leone (Nello Mascia) e altri mostri, fino al realpolitischer Berlinguer di Lorenzo Gioielli. Il quarto episodio si apre col gruppo di terroristi che spara in riva al mare, direttamente nell’acqua. Un gesto inane e smargiasso che ricorda una scena di Gomorra (2008) di Garrone. Bellocchio frulla tutto questo, ci lancia dentro un attore feticcio come Bruno Cariello (già religioso per Sorrentino nelle due serie pontificie) nei panni di un prete e pure il figlio Pier Giorgio, brigatista in Buongiorno notte, qui con le mostrine da capo della Digos. È un frullato che sa di tempo che passa, digerito e ruminato. Nel primo episodio, sullo sfondo dei tafferugli, compare il poster di Anima persa di Dino Risi col ghigno mefistofelico di Gassman. Nel quarto, Valerio Morucci va al cinema a vedere Il mucchio selvaggio. Nel quinto, i servizi televisivi sulle ricerche nel Lago della Duchessa, al ralenti, sembrano uscire da un documentario di Herzog. La cronaca di allora, brutta sporca e cattiva, diventa il sublime di oggi.

Con gli anni, Bellocchio è diventato un visionario mite. Ora non ha più bisogno dei Pink Floyd per creare una dissonanza. Esterno notte sfoggia una sigla tarantolata – da Après la pluie di René Aubry – che dà subito un’idea di serialità ossessiva e ritornante. Il resto è farina del sacco di Fabio Massimo Capogrosso e, come già in Buongiorno notte, di Verdi. Anche il finale evita la svirgolata ottimistica del film, proponendo coraggiosamente cinque minuti di filmati di repertorio. L’ultima immagine di girato immortala Eleonora Moro al funerale privato nella cappella di famiglia, acquistata dal marito pochi mesi prima. Un dettaglio all’apparenza ininfluente, se non addirittura morboso, che però dimostra una vicinanza alla morte che il film non ha. Herlitzka che scende in strada serafico è quasi un’anticipazione dei finali antistorici, o meglio utopici, di film come Inglorious Basterds o Once Upon a Time in Hollywood. Al Moro allettato e vivo che si vede all’inizio di Esterno notte, disgustato dalla visita dei colleghi di partito, manca qualsiasi slancio vitale. È un sogno in linea con la realtà.

Sul finire del quarto episodio, i cadaveri di Moro e degli altri satrapi democristiani vengono portati vie dalla corrente di un fiume che potrebbe essere tanto il Tevere quanto il Trebbia. È un’immagine livida, come i sogni di Faranda in Buongiorno notte con lo statista che si aggira per casa e pesca i libri dagli scaffali mentre i brigatisti dormono. O come, nella miniserie, il buio pesto in cui si muove Valerio Morucci sonnambulo, con Faranda che lo segue e lo protegge. Oppure la carrellata notturna che mostra per un attimo il monticello di banconote vaticane (settanta miliardi delle vecchie lire) rimaste inutilizzate dopo il fallito tentativo di abboccamento con le BR. È il buio del confessionale, quando Eleonora racconta a don Giuseppe (Cariello) che non si sente più amata, mentre fuori risuonano già gli elicotteri. La penombra perenne della sala delle intercettazioni dove Cossiga capta il papa intento a conversare con un giovane sacerdote che vive in carcere. Il nero in cui si dissolve Paolo VI sullo scranno alla fine di Buongiorno notte, prima di restituirci le immagini di Herlitzka/Moro in un mattino presto che sembra novembre invece di maggio.

Un sogno. In Buongiorno notte, Chiara / Adriana confida a Ernesto / Germano Maccari che va spesso a guardare “lui” dallo spioncino della cella dietro la libreria per assicurarsi “che non sia tutto un sogno”. “Perché, vorresti che fosse tutto un sogno?” – “Non so, una cosa o l’altra” – “Io ho già risolto,” taglia corto Ernesto. “Non sogno più”. Vent’anni più tardi, ai templi supplementari, sognerà qualcun altro.

Titoli di testa del film di Zanussi del 2001.