Pietro Marcello ha dedicato un documentario a Dalla. Si chiama Per Lucio, dura meno di un’ora e venti ed è bellissimo. L’ho visto nella cornice, quest’anno sbilenca e semidigitale, della Berlinale, e sono rimasto colpito da due aspetti. Il primo è stilistico. Marcello affonda entrambe le braccia fino alla clavicola in filmati amatoriali e d’archivio, facendone il motore da Nuvolari di un documentario né agiografico né tanto meno esaustivo sul cantautore bolognese. Il vero protagonista è Bologna, come dimostra la pausa deferente al passaggio del 2 agosto 1980. Il colloquio tra il manager “Tobia” e Stefano Bonaga non avrebbe la stessa forza se non fosse ambientato alla trattoria da Vito, in Cirenaica. E il recupero geniale di Dalla ospite dello Zecchino insieme alla madre sul finire degli anni Sessanta ci ricorda che da decenni sono i frati felsinei dall’Antoniano a dettare l’agenda melodica dei nostri cinni. Un documentario da vedere, quello di Marcello, con un incipit fulminante – che non rivelerò – e un excipit struggente nella sua semplicità – che non rivelerò.
Il secondo motivo per cui questo documentario mi ha spiazzato è lo spazio riservato a Roberto Roversi. In termini di minutaggio, l’esplorazione audiovisiva dei tre album scritti per Dalla dal libraio antiquario occupa la maggioranza relativa del film. Il quale film non si degna neanche di arrivare a Caruso, figuriamoci Merdman. Si chiude con grazia poco dopo aver constatato l’autonomia compositiva di Lucio, con titoli come Futura (guarda caso, eponimo del prossimo lavoro narrativo di Marcello). C’è tanto Roversi in questo film, eppure lui non si vede. Né lo vedrete in azione andando su youtube. Conformemente al suo carattere schivo, R.R. appare solo in voce – un estratto da una rara intervista radiofonica in cui si parla della metamorfosi di Bologna. Da centro rurale a città industriale sempre più anonima e povera di riti, aromi, odori stagionali. Roversi lo lamentava più di mezzo secolo fa.
Io Roversi l’ho conosciuto nel 2004 perché lavoravo alle edizioni Pendragon. Il cui editore, Antonio Bagnoli, è suo nipote (di zio). Al tempo, la leggendaria libreria antiquaria Palmaverde gestita da Roversi esisteva ancora, sebbene si avviasse alla chiusura. Pendragon è tuttora l’unico marchio italiano che continua a pubblicare, recuperare, curare i testi roversiani. Quando misi piede in via Albiroli in veste di galoppino factotum, l’apertura dell’armadio a muro che fungeva da magazzino insieme al garage equivalse alla stura di una curiosa cornucopia. C’erano gemme che ti tagliavano la cornea, bellissime da tenere in mano e ardue da decifrare. L’integrale anastatica della rivista Officina (1955-1959), i successivi numeri di Rendiconti fino al 1993 (n. 32, con un contributo di Alessandro Bergonzoni), le nuove edizioni critiche dei testi teatrali di Roversi: Unterdenlinden, Il crack, La macchina da guerra più formidabile, l’inedito La macchia d’inchiostro. Più di recente, la riedizione del romanzo d’esordio Caccia all’uomo. Roversi in casa editrice non l’ho mai visto. Lui stava vicino a San Domenico, nei locali in penombra della Palmaverde.
Un pomeriggio d’autunno Bagnoli m’ha spedito dallo zio per aiutarlo a inscatolare dei libri. E insieme abbiamo inscatolato libri per tre ore. Volumi di ogni tipo da spedire in ogni angolo del globo, o anche solo a Casalecchio di Reno. Per Roversi, il maneggiar libri era un’attività spirituale. I cartoni erano normalissimi cartoni, già usati, e per foderare i testi non c’era nulla di meglio della carta da giornale. Componevamo questi cartoni come se fossero ikebana. Ogni tanto prendeva un libro, lo rigirava, lo collocava in un gioco di tetris quasi completo e mi chiedeva: “Cosa ne pensa?” “Meglio verticale o orizzontale?” “E se facessimo così?” Un cartone chiuso era un trastullo finito, un addio. Alla fine, malgrado gli avessi spiegato che mi pagava già suo nipote, insistette per darmi cinquanta euro. Li ho infilati nella copia di Registrazione di eventi che avevo adocchiato fin dall’inizio entrando nella penombra scaffaliforme, e che mi concesse come emolumento vero. Sono ancora lì.
All’epoca scrivevo recensioni su un sito che non c’è più, o che almeno non si chiama più lankelot punto com. Ne scrissi una abbastanza lunga sul secondo romanzo di Roversi e sul pianeta Roversi. Questa.
Gliela sottoposi. Il 10 febbraio 2005 ricevetti una sua lettera autografa nella quale, tra l’altro, si leggeva: “Non ho ancora potuto (e saputo leggere) perché sono qui intubato, col naso fratturato e abbastanza nel corpo ammaccato per via di una brutta caduta per strada”. Lesse un mese dopo, il carteggio proseguì. Nel frattempo la Pendragon aveva aperto una libreria, stampando sulle tesserine un verso roversiano tratto dalle Descrizioni in atto. La libreria non c’è più. L’articolo di Fucine mute in cui Roversi parla di Sclavi non c’è più. R.R. non c’è più. Nemmeno le Edizioni del Catalogo ci sono più. In autunno gli scrissi mettendo alla sua attenzione un volumetto di poesie (Paolo Diliberto, Questo trovare) prossimo alla pubblicazione per i tipi delle Edizioni del Catalogo di Roma, di Gianfranco Franchi e Marco Fressura. Reagì con entusiasmo, come faceva spesso nei confronti dei progetti microscopici e aurorali, con la letteratura che innervava gli occhi di verde speranza. Scrisse una nota ora leggibile alla seconda pagina delle prefazioni/postfazioni sul ricchissimo sito-archivio curato dal nipote.
Roversi non c’è più. A un anno dalla morte, nel 2013, la Pendragon ha pubblicato in duecento esemplari un suo libricino di componimenti dedicati ai libri. S’intitola Libri – e contro il tarlo inimico e come Registrazione di eventi è ora integralmente fruibile in linea. Parla dei libri come se fossero animali da compagnia, cani fedeli, gattoni ronfanti. E parla dei vili tarli traditori, divoratori, avidi infami, ubiqui, tarli tarletti golosi del Mississippi, tarlacci di lingua inglese, falsi arlecchini, malcreati, indisponenti, luciferini, ballerini, avari assassini, avidi di fame, voraci non ancora sazi, fantasmi bianchi immersi nel fondo delle pagine, diavoli su onde leggere, bevitori di carta, astuti, maledetti, traditori, pellegrini, viaggiatori, poco sapienti, killer mistificatori, assassini di parole, tarli della malora, disadorni e oscuri, “disonore del mio tempo”.
La poesia numero 50 fa così:
Ehi, ehi, come nasce il libro
come scompare il libro? Questo
è un assillo vero.
Addio, è notte. Non c’è risposta. Il cielo
è nero. La
notte è un mistero.
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