Welcome to Annexia

William Lee (Peter Weller) in Naked Lunch (1991) di David Cronenberg.

Luglio, col bene che ti voglio, mese allucinante. Lasciando da parte la sfera pubblica, nel privato mi ritrovo con sei libri tradotti e consegnati, ora in varie fasi di lavorazione, due milioni di battute michelangiolesche (and counting) in pieno smaltimento fino ad aprile, gli esami universitari finiti da pochi giorni col fiatone e tutto il resto che va umanamente, inevitabilmente accatastandosi. Quando ho avuto il covid a inizio mese, insieme alla febbre a 39 m’hanno steso gli attacchi di panico perché temevo di non farcela a reggere il calendario, o ancor peggio: di sprofondare in un annebbiamento mentale inconscio. Tra i fumi del corona, però, una cosa ha fatto breccia, ed è stata la visione dopo trent’anni di Naked Lunch. Il prossimo mese esce Crimes of the Future, e qui scrivo come arrivarci ben preparati, recuperando qualche leccornia.

L’accoglienza standard del nuovo film, presentato a Cannes, è stata positiva, secondo la falsariga di un ritorno alla forma, al body horror dantan. L’autore che si fa aggettivo di sé stesso. In realtà le cose sono più complesse, e l’impressione è che molto di quanto scritto finora su questo ritorno sia stato dettato dal marketing. Solo IndieWire azzarda un’interpretazione che smentisce la campagna e colloca il film in una nicchia molto più soffice rispetto alle promesse hardcore fatte circolare da Neon e dal regista in primis. Premesso che questa non è una recensione anche se ho potuto vedere il nuovo Crimes, l’intento è di spianare la strada verso la visione di un evento cinematografico molto intenso, che trae tuttavia la propria intensità dalle pieghe meno popolari del mondo cronenberghiano. A dargli il la è l’astrazione, la sottrazione dei film successivi a The Fly o precedenti a Shivers, non certo la solidità fracassona di classici come Scanners o Videodrome. Si torna quatti quatti alla House of Skin che impregna, a parole, il suo secondo lungometraggio, parimenti intitolato Crimes of the Future e uscito nel 1970. E si torna, soprattutto, a Cosmopolis (2012).

Cronenberg ha sempre parlato di corpi. Corpi infetti o infettabili (Shivers, Rabid, Videodrome), corpi che si riproducono o gemmano (The Brood, Scanners, The Fly, Maps to the Stars, il nuovo Crimes of the Future), corpi che si sdoppiano (Dead Ringers, Spider anche se su un piano solo mentale), corpi presentati come scandalosi da un punto di vista eteronormativo (Naked Lunch, M. Butterfly, Crash, Eastern Promises). Quest’ultimo punto riguarda soprattutto la messinscena di sessualità queer, o semplicemente omo, un tema che Cronenberg esplora fin dalle origini con esiti altalenanti e abbastanza problematici da un’ottica odierna. Se da un lato il suo primo attore feticcio, Ron Mlodzik, incarna anche a cinquant’anni di distanza una liberazione frocissima che non ha neanche bisogno di scene esplicite o spiegoni, basta Fast Company (1979), il film meno visto e più rilassato di Cronenberg, a chiarire una visione del mondo che di queer ha ben poco. Detto ciò, nel contesto scombiccherato di Naked Lunch ci sta anche una figura come Kiki (Joseph Scorsiani), con la fine orrida – e scadente sul piano degli effetti speciali – che fa nelle grinfie di Julian Sands. Inoltre, la rivelazione quasi argentiana del personaggio interpretato da Roy Scheider spacca perché flette il gender senza alcuna agenda ideologica, arrivando a contaminare, nel gesto e non nello scopo, l’ultima inquadratura di Grave (2016) di Julia Ducournau. M. Butterfly venne fatto a pezzi già nel 1993 per come racconta la storia d’amore tra un diplomatico e una spia-cantante d’opera che si traveste da donna. Premesso che la vicenda è ispirata a fatti veramente accaduti e che lo sceneggiatore, David Henry Hwang, è anche l’autore della pièce originaria, non certo tacciabile di orientalismo, a salvare il film dagli abissi della scarsa credibilità è la scena pazzesca nel cellulare della polizia penitenziaria, una tunnel vision tutta sensoriale. Altro che cecità dell’amore. Il finale fa piangere ogni volta perché la disperazione di René Gallimard è data dalla perdita, non dall’inganno dell’uomo che ha amato.

L’universo cronenberghiano è anche nutrito dalla tecnologia e dalle macchine. L’automobile, in tutte le sue forme, stimola la libido (Fast Company, Crash, Cosmopolis), e al di là dei motori la tecnologia in generale crea dipendenza e scardina la realtà (Videodrome, Naked Lunch, eXistenZ, il nuovo Crimes of the Future). Questa tecnologia non dev’essere per forza attaccata alla corrente, come il segnale televisivo e le videocassette di Videodrome o i videogiochi immersivi (nel corpo) di eXistenZ. Per tacere dei pod per il teletrasporto di The Fly, che fondono tutto – anche sé stessi. Di fatto, basta una macchina da scrivere usata sotto effetto di droghe (scarafaggi polverizzati), oppure un dispositivo organico (!) per autopsie. Vivian Sobchack – un ringraziamento a Michele Faggi per lo spunto – critica l’adattamento ballardiano di Cronenberg nel suo libro Carnal Thoughts – Embodiment and Moving Image Culture (University of California Press, 2004). Nel capitolo Beating the Meat / Surviving the Text lamenta: “What the film Crash shows us – quite unlike the novel – is people having sex in cars, not with them” (p. 177). Ballard venne estromesso dal lavoro di sceneggiatura, forse anche per via della sua graduale presa di distanza da Crash: da opera di avanguardia volontariamente pornografica, amorale e pansessuale a “cautionary tale” guardata con occhi non più febbrili. Il fatto che il film del 1996, a suo tempo pompatissimo come a un passo dal porno, risulti meno escoriante di quanto ci si possa aspettare, rientra però in pieno nella manovra di astrazione che Cronenberg persegue con coerenza dai tardi anni Ottanta. Gli incidenti vengono privati di qualsiasi spettacolarità à la Zabriskie Point, e in linea con la filosofia di Antonioni Cronenberg tenta di vedere “l’effetto che fa” smontando la propria body horror machine, il proprio “film-tipo”, pezzo per pezzo. Riguardando Crash, sembra che l’elemento dell’auto più sexy in assoluto sia la cintura ossessivamente inquadrata in una scena. E il suo film più ballardiano, che sembra quasi anticipare High-Rise, resta quel capolavoro di Shivers (1975). Quanto al sesso con le macchine, tema più forte sulla carta che sullo schermo, qualcun altro nel frattempo ha imboccato questa strada, zigzagando nei meandri della famiglia.

Corpi, macchine, politica. Un aspetto poco esplorato della filmografia di Cronenberg, forse perché meno viscerale rispetto ai “bottoni morbidi” e alle ferite eccitanti, riguarda proprio la cornice sociale. I complotti in grande stile interessano già le trame di Scanners e Videodrome, ma solo in The Dead Zone, adattamento kinghiano, appare per la prima volta un politicante (Martin Sheen) che visto oggi sembra un Trump ante litteram. In M. Butterfly il tema della dittatura e delle rivolte studentesche è centrale, anche se un po’ stereotipato, mentre in Cosmopolis, altro adattamento (da DeLillo), irrompe un clima da crisi finanziaria, con tafferugli degni di Occupy e gente che brandisce e lancia topastri, auspicando una nuova valuta mondiale: il ratto. Molto presente anche nel nuovo Crimes of the Future, il tema politico come cornice minacciosa e absurdista raggiunge in Cosmopolis una dimensione propriamente cronenberghiana. La tecnologia diventa (flusso di) capitale, un assassinio trasmesso nel televisorino della limousine bianca del protagonista ricorda sia l’estetica da scantinato di Videodrome, sia la Cina cartolinesca di M.Butterfly (c’è un ritratto-icona di Mao sullo sfondo), e il corpo più massacrato di tutto il film non è quello di Robert Pattinson, bensì la stessa limousine, che arranca per New York come un carrarmato capitalista.

Dopo il finale straziante di The Fly, cristallizzazione perfetta di un sottogenere che riesce a diventare mainstream senza perdere smalto, Cronenberg cambia strada. Il che non vuol dire solo meno sangue, meno trucco e meno trucchi, ma anche e soprattutto un approccio sghembo ai generi affrontati, a cominciare dall’idea stessa di adattamento. Naked Lunch è un cut-up cronenberghiano su William Burroughs, cioè dell’opera e dell’uomo. Del romanzo in sé resta solo un vago esoscheletro, molti elementi – come le macchine da scrivere in versione scarafaggio parlante e ingrifato – sono farina del sacco del regista-sceneggiatore, altri vengono dal resto della produzione burroughsiana o addirittura dalla sua vita personale, come l’uxoricidio in stile “Gugliemo Tell” ripetuto anche in chiusura. L’atmosfera generale è finta, quasi pauperistica, come la Cina di M.Butterfly. Anche eXistenZ e Spider spostano l’azione su un piano squisitamente soggettivo, allucinatorio, e nel film del 2002 scritto da Patrick McGrath (già autore del romanzo) Ralph Fiennes si trascina dall’inizio alla fine mormorando parole incomprensibili – un habitus malaticcio, quasi da burnout in attesa di salvezza, che sarà ripreso da Viggo Mortensen / Saul Tenser in Crimes of the Future. In Cosmopolis, corpi e amplessi vengono mostrati con la medesima freddezza di Crash, ma a contare sono i dubbi su quello che sta accadendo al loro interno. Il protagonista Eric Packer scopre con sconcerto di avere la prostata asimmetrica; il suo avversario-stalker depresso, Benno Levin (Paul Giamatti), a volte crede che il pene gli si stia ritirando nello stomaco, e al bel Packer spiega che il controllo non serve a nulla dinanzi all’imperversare dell’imperfezione. In Maps to the Stars (2014), scritto da Bruce Wagner, Julianne Moore / Havana Segrand chiede a Robert Pattinson / Jerome Fontana, stavolta chauffeur e non yuppie scarrozzato: “Do you like my skin? And my holes?”. Colpisce più la frase della trombata che ne segue. È come se Cronenberg volesse smentire il motto Show, don’t tell. Gli effetti speciali, questo già in Naked Lunch, non nascondono la loro origine artigianale, e quando diventano digitali come le proiezioni appiccicate ai finestrini interni della limousine all’inizio di Cosmopolis, o nella famosa scena “buttata lì” di Olivia Williams avvolta dalle fiamme sul finale di Maps to the Stars, non puntano alla soluzione elegante, semmai alla pecionata. Lo si vede nel BreakFaster di Crimes of the Future. Budget o non budget, non ci si vergogna dell’imperfezione. Tu chiamala, se vuoi, sottrazione.

Questi aspetti si colgono meno in due dei film più solidi di Cronenberg, A History of Violence (2005; sceneggiato da Josh Olson a partire dalla strepitosa graphic novel di Wagner e Locke) e Eastern Promises (2007, scritto da Steven Knight), importanti anche per via della collaborazione con Viggo Mortensen. Meno rischiose nella loro classicità “criminale”, anche se memorabili per le scene di violenza, le due pellicole richiamano l’immediatezza dei classici del regista senza tuttavia rielaborare oltre i temi di cui sopra. Discorso diverso, in negativo, per A Dangerous Method (2011), scritto da Christopher Hampton, che si traduce in un centone piuttosto gelido del rapporto tra Freud e Jung.

“Long live the new flesh!” recitava il motto rivoluzionario di Videodrome. Con Crimes of the Future, Cronenberg ne lancia uno nuovo, “Surgery is the new sex”, e accoppia la chirurgia all’arte, facendoci fare un balzo all’indietro ai tempi in cui Orlan era all’avanguardia e in libreria si poteva trovare una rivista di nome Virus. In realtà, la sceneggiatura del nuovo film non è affatto nuova, e questo spiega il suo legame culturale con gli anni Novanta. Cronenberg ha ribadito in più occasioni che si tratta di una sceneggiatura recuperata, forse risalente allo stesso periodo di eXistenZ, e che nel 2003 stava per entrare in produzione col titolo di Painkillers. Se l’andamento tossicchiante, e le atmosfere decadenti, ricordano il primo Crimes of the Future (con un interessante parallelo Mortensen-Mlodzik) o addirittura Spider (con la Grecia al posto di King’s Cross), Il legame strettissimo con l’arte e la cornice distopica in cui si svolge l’azione creano un ponte con Cosmopolis, film “militante” prodotto da Paulo Branco che fa un uso particolare dei titoli di testa e di coda. Cronenberg ha sempre fatto molta attenzione ai titoli, trasformandoli in texture capaci di riassumere lo spirito del film. Al brulicare indistinto di The Fly, agli allegri cartoncini anni Cinquanta di Naked Lunch, ai disegni anatomici di Dead Ringers, alle maschere, le farfalle e i ventagli digitali di M. Butterfly, alle macchie di Rorschach di Spider fanno seguito, in Cosmopolis, dei titoli di testa ispirati a Pollock e dei titoli di coda ispirati a Rothko, artista citato nel corso del film. In Crimes of the Future il protagonista non colleziona opere d’arte come Packer: le fa, anzi le produce col proprio corpo, espellendole mediante un complesso rituale. Body is reality.

Il corpo è l’unica cosa vera nei film di Cronenberg. Quello di Rose (Marilyn Chambers) in Rabid, che in seguito a un trapianto di pelle sviluppa un pungiglione vampirizzante sotto l’ascella sinistra. Quello tabù dei bambini, creature assassine in The Brood, morituri in Maps to the Stars e nel nuovo Crimes of the Future. Quello stanco, pensoso, inespressivo di William Lee in Naked Lunch, che nel finale arriva alla frontiera di un paese protosovietico guidando uno strano mezzo cingolato con in sottofondo il sax di Ornette Coleman in libera uscita. A bordo c’è anche la moglie Joan (Judy Davis). Le guardie col colbacco gli chiedono una prova del fatto che è scrittore, lui mostra il “writing device” (la stilografica) ma non basta, e allora ripete la scenetta di Guglielmo Tell impallinando la fronte della moglie che nel frattempo s’è svegliata, mettendosi un bicchiere sul capo. Solo allora, con una lacrima che gli scende dall’occhio azzurrissimo mentre tiene la testa di lei, William è Welcome to Annexia. Ominosi, come si conviene, i titoli di coda musicati da Howard Shore.

Cosmopolis (2012), titoli di testa e di coda.

je suis là

Ancora su Titane, e mi si perdoni qualche spoiler. Il film l’ho rivisto mentre ero a Bologna. Lo davano all’Arlecchino, schermo gigante, qualche proiezione persino in originale coi sottotitoli. Vedendo che era uscito in Italia col marchio d’infamia v.m. 18 m’è venuta voglia di tornarci per rafforzarne la leggenda in fieri, e ne è valsa la pena. La palma di Ducournau regge alla seconda visione, si consolida e s’arricchisce. Anche stavolta ho dovuto chiudermi manualmente la bocca a fine film. Centodieci minuti d’una potenza rintronante. Con qualche eccezione e un dettaglio musicale – dettaglio per modo dire – al quale non avevo fatto molto caso la prima volta.

Il picco della pellicola resta, a mio modesto giudizio, il primo ballo dei pompieri al suono di Light House dei Future Islands. Più del bussare alla porta della Cadillac in una delle primissime sequenze, intinta nell’olio motore di Christine. Più della metamorfosi in bagno o delle scene a due Rousselle-Lindon. Il motivo me lo spiego così, effettuando un carotaggio (proiettante) dalla mia vita di adesso. In questa sequenza musicata, il pompiere capo Vincent (ri)diventa padre. “Adrien” è ormai integrato nella caserma-famiglia-parrocchia dei pompatissimi pompieri agli ordini di Vincent. Ha partecipato con successo, forse suo malgrado, a una prima azione durante la quale ha fatto la respirazione bocca a bocca a un uomo seguendo i consigli del padre-capo-dio, cioè il ritmo della macarena (in francese). Poco tempo prima Vincent l’aveva beccato in camera con addosso un vestito estivo giallo da donna, comodo per coprire il pancione. Ma è tale il suo desiderio di riavere il figlio – o un figlio – che si aggrappa a qualsiasi dettaglio pur di ridefinire la situazione come meglio crede. E infatti, dopo l’iniziale sgomento aveva tirato fuori un vecchio album di foto dove si vede il piccolo Adrien intento a giocare con un vestitino simile. La “tunnel vision” di Vincent non ammette interferenze: non solo questa persona è suo figlio, ma ha anche dimostrato di saper fare il pompiere.

Le prime battute di Light House risuonano nel camion d’ordinanza, quando Alexia/Adrien lancia un sorriso di sfida al collega Rayane (Laïs Salameh) che gli chiede da dove salti fuori dopo aver intravisto sul telefonino l’identikit della serial killer in fuga. Da quel momento, Rayane rappresenta un ostacolo per la formazione della nuova famiglia voluta sia dall’ossessivo Vincent, sia da Alexia in fuga e incinta (di chi o cosa, non lo sa). Il montaggio c’immerge in una luce bluastra. Un pompiere nero si gusta la sigaretta ballando piano insieme agli altri. Vincent è al settimo cielo, occhi chiusi e stato di abbandono musicale come quando ha affrontato per la prima volta Adrien, finendo per dargli le chiavi di casa. Alexia/Adrien lo ha già scelto come padre, vedendolo privo di sensi in bagno. Una fragilità che irradiata da quel corpaccione con le natiche illividite dalla siringhe ha reso Vincent irresistibile, o meglio un fratello dei cani, un parente delle tante incrinature che segnano Alexia. Lui però sa, sotto sotto, che quello non può essere suo figlio. Fin dall’agnizione alla centrale di polizia, l’approccio di Vincent è ideologico, un sì prima del crollo da confermare a tutti i costi per poter restare in vita. E al momento di ballare, le conferme sembrano essere arrivate a sufficienza. Chiunque sia, è suo figlio. Forse non crede davvero al ricongiungimento, ma sente dentro di sé che l’adozione ha funzionato. Il processo è finito, gli incartamenti archiviati. Vincent, padre desiderante, è felice. Tanto da sollevare di peso Adrien e fargli fare una piroetta che gli mozza il fiato.

Nel corso del film, Alexia/Adrien è prima una figlia infelice, poi un’amante postumana, un’assassina iperbolica, un figlio, una figlia, di nuovo un’amante, e madre. La trama di Titane non funziona in base alla logica, bensì alla fede nella trasformazione in parallelo di Alexia e Vincent, che finiscono per rifondare una famiglia.

Ciò detto, la pellicola ha qualche cedimento nella seconda parte. Tre esempi. Il secondo ballo dei pompieri che sfocia nell’esibizione “femminile” di Adrien, memore del suo passato di lap dancer, stona quando mostra le reazioni troppo perplesse o addirittura disgustate dei colleghi, di fatto ridotti a macchiette. Poi c’è un ennesimo rapporto sessuale con un veicolo, inutile come il bridge di una canzone troppo lunga e che conosciamo già. Che bisogno c’è di ricordarci che Alexia scopa con le macchine? La breve scena serve solo a mostrarla in crisi, a un tiro di schioppo da un parto nell’ignoto. E infatti il film si riprende, anche grazie alla scelta delle inquadrature, quando conduce Alexia/Adrien all’ultimo incontro con Vincent. Scivola forse in un accenno d’incesto dovuto alla confusione di Vincent, e quando arriva il climax spara Bach. Per l’esattezza, le prime note della Passione secondo Matteo, Kommt, ihr Töchter, helft mir klagen.

Visto che il film è ben permeato dalla colonna sonora cupissima di Jim Williams e da alcune composizioni del sound designer Séverin Favriau (come quella che anticipa i titoli di coda), Bach rischia di passare inosservato. Anche perché come scelta, verrebbe da dire d’istinto, è di una banalità allucinante. Un po’ come la Quinta di Beethoven suonata da Alain Cuny all’organo nella Dolce vita, con tanto di suspense. Il che, beninteso, non basta a spodestare il film di Fellini dal vertice assoluto del cinema italiano. In Titane, il pezzo bachiano va e viene confermando un uso particolare della “musica citata” da parte di Ducournau, evidente anche con Caterina Caselli e i Future Islands. Ma è impossibile non vedere l’adozione del brano di Bach nel contesto più ampio dell’irruzione della musica sacra nel cinema d’autore come lo intendeva Bazin.

Restando a Kommt, ihr Töchter… ci sono almeno due esempi lampanti, cioè il recente A Hidden Life (2019) di Malick, che lo usa all’inizio, e l’esordio di Lucas THX 1138 che lo usa alla fine. Pasolini è stato forse il primo ad adottare La passione secondo Matteo in maniera solo apparentemente dissonante, per portare il sublime tra la povere così come Kubrick, in 2001, porterà il Danublio blu tra astronavi giocose. La rissa finale di Accattone si accompagna alla corale che conclude la Passione (Wir setzen uns mit Tränen nieder), pezzo usato anche nel Vangelo secondo Matteo insieme all’aria Erbarme dich, mein Gott. Scorsese utilizza a meraviglia “Wir setzen uns” in apertura (e in chiusura) di Casino sovrapponendo il sublime della musica alla texture del fuoco e alle meravigliose geometrie di Elain e Saul Bass.

Nel suo ultimo film, un capolavoro da piangere, Tarkovskij inserisce due volte l’aria per contralto tratta dalla Passione secondo Matteo. “Erbarme dich” apre e chiude Offret, quindi risuona nei titoli di coda e negli ultimi minuti, da 2h24′. Un ragazzino ora orfano innaffia un alberello che aveva piantato col padre, ci si stende accanto e si chiede: “In principio era il verbo. Che vuol dire, papà?”. Titane si conclude con la rivelazione di un nome e con la piena rinascita di un padre, che si rivolge a noi col bimbo tra le braccia e ripete, ripete, ripete: Je suis là.

immagini viscerali

Sarà perché sto per tornare all’università nei panni dello studente lavoratore e tardone, sarà perché anni or sono le ho voluto tanto bene. Per farla breve, ho ripescato la mia vecchia tesi di laurea e le ho fatto il tagliando. S’intitola Linee di massima pendenza e parla di cinema e filosofia. Spunto, l’immagine-pulsione accennata da Gilles Deleuze nel primo dei suoi trattati scopofili degli anni Ottanta. Obiettivo d’antan: discutere la tesi – correva l’anno 2001 – infliggendo una celluloid atrocity in forma di videocassetta alla commissione accademica.

Ricordo ancora il momento in cui, a casa di mia nonna paterna, lessi il capitoletto striminzito di Cinema 1 – L’immagine movimento che tratta l’immagine-pulsione. Doveva essere il 1998, a suo tempo ero un collezionista ossessivo e corsaro di film in formato analogico, e le poche righe che Deleuze dedica a questo tassello difettoso della sua tassonomia mi lasciarono a bocca aperta. Seppi subito di aver trovato l’incrinatura attraverso la quale passa la luce. Mi attrezzai per un lavorone e ne uscirono quattrocentocinquantamila battute tra il visionario e la schiuma alla bocca. Abituato com’ero a scrivere a mano (a caratteri maiuscoli, come se non peggio di un serial killer), l’esperienza di usare Word sul pc attrezzato con Windows Millennium Edition è stata formativa nel senso agghiacciante del termine. Le tesine le avevo scritte tutte su un computer accessibile via Norton Commander. Refusi e sbavature a balùs.

Questo spiega il tagliando a vent’anni tondi di distanza. Riaprendo il file, l’orrore ha spalancato le sue fauci lovecraftiane fin dal frontespizio, al che mi son detto diamogli una scorsa. Ora il testo è più leggibile, ha delle pagine in meno – roba compilativa inutile – e sebbene le norme adottate siano quelle che sono, stanno in piedi. Il rizoma è salvo, anche se sbuffa e sferraglia come un marchingegno steampunk. Qua e là ho anche aggiustato l’argomentazione e inserito dei passi che portano l’immagine-pulsione negli anni Venti di questa nostra millennium edition. Il file sta qui:

A mo’ di abstract, c’era una volta Gilles Deleuze senza Félix Guattari. Deleuze era un cinefilo compulsivo, e tra il 1983 e il 1985 pubblicò l’opera in due volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Traduzione italiana rispettivamente di Jean-Paul Manganaro e Liliana Rampello, edita da Ubulibri (ora Einaudi dopo auspicabile revisione). Non una storia del cinema, bensì una tassonomia, o meglio una cassetta degli attrezzi – metafora che aiuta a capire l’intero costrutto del pensiero deleuziano. Prima di approdare a una dimensione più cerebrale e postmoderna (quella di cui si occupa Cinema 2), in Cinema 1 il filosofo individua delle “immagini” che vanno pian piano a comporre la sintassi filmica classica. Parte dal primo piano (immagine-affezione, possibilità pura) ma s’inceppa subito in quello che rappresenta lo snodo negativo, devastante e malfunzionante che ostacola il raggiungimento dei solidi stilemi del cinema hollywoodiano (l’immagine-azione). Questo passo falso, che disfa invece di imbastire, che fa terra bruciata e non ci fa uscire dalla sala con un senso di appagamento e conferma, questo Odradek riottoso del grande schermo è l’immagine-pulsione.

Come riconocerla? Da pezzi, abbozzi, sintomi e feticci, dai Triebe freudiani che ci squassano impedendoci di pensare razionalmente. Vettori che puntano al sesso – quasi mai riproduttivo -, alla morte (propria e altrui), al denaro. Storie viscerali che finiscono male. Congegni narrativi carichi come molle, che ti esplodono in mano. Dischi rotti. Ambienti esauriti, corpi sfiniti. È il naturalismo, versione grezza del realismo e al contempo più vera del vero. Perché neanche la realtà ha la battuta pronta e un lieto fine dietro l’angolo.

Deleuze individua due maestri della pulsione al cinema: Erich von Stroheim e il Luis Buñuel allo stato brado, tra Las Hurdes (1932) e la rinascita con Viridiana (1961). In mezzo ci sono i famigerati “film messicani”, allora in parte reperibili solo grazie a Fuori orario. Stroheim rappresenta la forma più pura di immagine-pulsione, autodistruzione compresa. Greed (1924), tratto dal romanzo McTeague dello “Zola americano” Frank Norris, segna il punto di non ritorno per un cinema non solo inguardabile da parte del pubblico di massa, ma soprattutto improducibile a livello finanziario. Non a caso, il film circolò in una versione vergognosamente monca per interi decenni, e col sonoro Stroheim dovette appendere la cinepresa al chiodo. Solo Billy Wilder in Sunst Blvd. avrà il genio e la riconoscenza di farlo riapparire sullo schermo, lui e un altro martire delle metamorfosi produttive di nome Buster Keaton. Nella tesi parlo ampiamente sia di tutti i film diretti da Stroheim, sia del Buñuel costretto alla sua traversata nel deserto. Pur di lavorare, il regista spagnolo accettò infatti per un quarto di secolo progetti spesso alimentari, nei quali riuscì tuttavia a infilare dei semini. Autentica sabbia negli stessi ingranaggi che andava ordendo. Con Buñuel l’immagine-pulsione diventa inserto disturbante, sabotaggio. A una messinscena tutto sommato piana si aggiungono elementi come un cazzotto (o un rasoio) nell’occhio. Los olvidados (1950) ingannò tutti con l’etichetta neorealista quando invece il neo era nero, le scene oniriche invadevano la realtà sotto forma di polli minacciosi e il grottesco, la cattiveria, da marchi d’infamia diventavano semplicemente la misura del mondo. Per sicurezza, Buñuel aveva pure girato un happy end. Altrimenti rischiava di finire lui nella Tierra sin pan.

Il terzo esempio deleuziano di immagine-pulsione, meno presente in Cinema 1, è dato da Marco Ferreri, il fisiologo per eccellenza del cinema italiano. Nella tesi ne parlo con particolare attenzione al corto Il professore, alla Donna scimmia e allo straordinario Break up, versione lunga dell’Uomo dei cinque palloni. In Ferreri l’immaginario pulsionale diventa più pop e stravagante rispetto alle classiche ossessioni stroheimiane o buñueliane per i piedi o gli animali selvatici. Break up racconta la storia di un industriale del cioccolato (Marcello Mastroianni) che s’incaponisce per capire fino a che punto si possa gonfiare un palloncino. A casa ne ha cinque, e quando anche il quinto esplode frustrando il suo intento scientifico – che nel frattempo gli ha desertificato la vita – non gli resta che buttarsi dalla finestra, spiaccicandosi su una macchina nella Milano prenatalizia. Analoghi percorsi verso il fondo, in un assurdo che fa male, si assistono nei ben noti Dillinger è morto e La grande abbuffata. Ferreri è stata una figura mastodontica del nostro cinema, spesso presa sottogamba per via della presunta sciatteria o della bassezza incomprensibile dei suoi temi.

Con Ferreri termina la parte di ricerca classica della tesi e inizia quella sperimentale con la sigaretta nelle narici. Puntando tutto sul verde della roulette, azzardo nomi nuovi nel prosieguo dell’immagine-pulsione secondo la buona vecchia politica degli autori baziniana. Questi nomi sono David Lynch (in primis l’incipit di Blue Velvet, ma anche la striscia di Moebius decerebrata di Lost Highway), Peter Greenaway (che fonde barocco digitale, ossessioni idiosincratiche e carnezzeria) e Jan Švankmajer, surrealista come Buñuel, maestro nel far rivoltare gli oggetti e nel ridurre gli esseri umani a insetti sragionanti. In coda, un cenno a Tsai Ming-liang e a qualche nome – anche nuovissimo – che fa collidere la pulsione col cervello, la fame da zombi con l’emicrania, il genre col gender.

Mentre ero sotto tesi ho avuto il privilegio di intervistare di persona, a Ostia, l’unico accademico italiano che all’epoca aveva sposato con slancio la tassonomia deleuziana: Roberto De Gaetano. La lunga chiacchierata con lui ha segnato il momento più alto di un periodo altrimenti caotico, con un drone in testa e troppi eventi in contemporanea per lanciarsi nell’ascensore senza fili della concentrazione vera. Tant’è che nella versione finale della tesi uno dei nomi ricorrenti compariva col nome di battesimo sbagliato (Roberto Grande invece di Maurizio), Buñuel aveva un segno diacritico ceco sulla n invece della bisciolina giusta e i refusi, anche nei paragrafi chiave, spuntavano come ovolacci. Tutto questo, dopo il tagliando, non c’è più. È rimasto qualcos’altro. Il giorno della discussione proiettai una vhs assemblata poche ore prima con due videoregistratori. Si vedeva questo:

Pure la data di realizzazione di Queen Kelly avevo sbagliato, 1919 invece di 1928-9. Non so cosa dissi, alla fine strinsi la mano solo al relatore capo – che non avevo chiamato chiarissimo sui volumi sfornati in copisteria – tornai a casa in vespa e vidi una mail di De Gaetano che lamentava la cattiva citazione dell’amico Grande. Già lavoravo a tempo pieno da un anno e mezzo: decisi che l’accademia non faceva per me. E rieccoci, come un disco rotto al ralenti, rieccoci qui vent’anni dopo con le stesse immagini in testa, e quache drone in meno.