Berlinali

Screenshot dallo streaming della Berlinale 74 per l’assegnazione dell’Orso d’oro alla carriera a Scorsese.

Quando nel gennaio del 2006 misi stabilmente piede a Berlino, il mio pensiero fisso era già al mese successivo, perché per la prima volta avrei avuto l’occasione di andare al festival. Ormai ci vado da quasi vent’anni, come pubblico e più spesso accreditato tramite Indie-Eye. In questa orecchia traccio un itinerario sghembo, assolutamente non rappresentativo, dei film che m’hanno scavato di più tra le pieghe del cervello e nei nervi ottici. Nessuno di questi titoli ha vinto il primo premio. Ho iniziato a frequentare la Berlinale in piena gestione di Dieter Kosslick, e col 2024 termina il non facile interregno Chatrian-Rissenbeek. Cresciuto con l’idea che dopo la Palma e il Leone venisse l’Orso, ora devo ammettere che questo terzo posto assoluto è più che mai traballante, anche se Berlino si conferma il primo festival di pubblico al mondo, dieci giorni durante i quali trovare i biglietti è spesso un’impresa e le sale sono sempre strapiene – a prescindere da quel che vi viene proiettato. Un risultato clamoroso che mette in ombra i consueti arbitri (circonflesso sull’ultima i) di selezionatori e giurie, nonché il costante calo delle prime mondiali – un fenomeno, quest’ultimo, che sta trasformando la Berlinale in uno sfavillante festival del riciclo.

Duemilasei. Il poster è sparato persino in copertina sulla miniguida alla Berlinale di Zitty, io non so chi sia Oskar Roehler ma Houellebecq lo conosco bene. Elementarteilchen (Le particelle elementari) è il primo film berlinalizio che mi fece friggere prima di approdare in sala. A colpirmi furono due cose: l’idea che un romanzo contemporaneo francesissimo venisse portato sullo schermo per vie crucchissime (produzione d’alto bordo di Bernd Eichinger), e la constatazione che anche in Germania esistesse uno star system. Alcune facce già note (Franka Potente, Moritz Bleibtreu), altre meno (Nina Hoss, Corinna Harfouch, Martina Gedeck, Michael Gwisdek, Christian Ulmen, Tom Schilling). Malgrado il film in sé non fosse epocale, la febbre per Roehler m’è rimasta per qualche anno, il tempo di vedere al cinema Lulu & Jimi (2008), rimasticazione senza vergogna di Wild at Heart, e due grotteschi schizzi autobiografici: Quellen des Lebens (2013) e Tod den Hippies! Es lebe der Punk (2015). Ho pure letto qualche suo romanzo, in particolare l’ottimo Herkunft (2011), spunto di Quellen des Lebens. Il maledettisimo sgarbato, sporco e cattivo di Roehler, spesso mal mutuato da Easton Ellis, è ormai ridicolo, e nella sua filmografia non mancano schifezze che pur di provocare finiscono per confondersi con la materia che trattano – tipo un film del 2018, di cui non cito nemmeno il titolo, tratto da un romanzo di Thor Kunkel, vicinissimo all’AfD.

Duemilasette. In concorso c’è The Walker di Paul Schrader, ma il mio cuore vola verso This Filthy World, teatro filmato a cura di Jeff Garlin che ci restituisce il one man show itinerante di John Waters. Non certo un gioiello della settima arte, ma per chi ama Waters questa testimonianza la dice lunga sulla sua capacità di sopravvivere anche in tempi di magra. Avevo visto A Dirty Shame (2004) in un cinemino parigino e dopo vent’anni il papa del trash deve ancora uscirsene con un nuovo film, anche se sta lavorando alla trasposizione del suo romanzo di debutto Liarmouth. Sapendo di essere ormai un aggettivo, anzi un mondo a parte (vedi titolo del docu), Waters capitalizza dai primi anni Ottanta la propria aura mitica con libricini e altre forme derivate di intrattenimento, ma nulla supera il suo talento naturale di stand-up comedian.

Duemilaotto. Happy-Go-Lucky di Mike Leigh, non nella rosa dei suoi film indimenticabili, ma ennesima dimostrazione di come l’autore britannico sappia raccogliere le sfide più disparate. Accusato di ripetersi con le sue storie popolane agrodolci, in presa diretta, schiacciate sulla contemporaneità, subito dopo la Palma d’oro Leigh fece un film di soli flashback (Career Girls, 1997), poi uno in costume su Gilbert & Sullivan (Topsy-Turvy, 2000). Analogamente, questo film delizioso dominato da Sally Hawkins arriva dopo il Leone d’oro e tenta una strada impervia, cioè quella della commedia senza inciampi. Happy-Go-Lucky di nome e di fatto. Leigh non sarà ricordato per questi esperimenti, ma la sua grandezza è fatta anche dal coraggio di alternare le mille variazioni di una formula perfetta a ribaltamenti traumatici della medesima formula.

Duemilanove. Schrader in gran forma – e la partita si chiude. Adam Resurrected, dal romanzo di Yoram Kaniuk, è una delle prove migliori dello Schrader autonomo. Sta lì con Hardcore, Light Sleeper, Auto Focus. Tema rovente (Shoah), messinscena sempre in bilico tra il sublime, l’infimo e il Jerry Lewis clown straccione. Jeff Goldblum a quattro zampe va digerito con calma.

Duemiladieci. Primo anno di accredito via Indie-Eye, con l’emozione delle proiezioni al Berlinale Palast delle otto di mattina per i film in concorso. Uno di questi è Der Räuber di Benjamin Heisenberg, storia criminale vera, e austriaca, ripresa dal libro di Martin Prinz. La pulizia del cinema di Heisenberg si tuffa nel sudore cutaneo di un maratoneta col vizio delle rapine. Un piccolo classico di cui nessuno si ricorda più.

Duemilaundici. Tutti a parlare di 3D, tutti a parlare di eBook. Un po’ come oggi, tutti a parlare di AI/IA/KI. Probabilmente a vanvera. Zitto zitto, Werner Herzog si fa spiegare come funziona una macchina da presa 3D e ottiene il permesso di addentrarsi nella grotte di Chauvet. Lezione autoesplicativa e ludica sull’uso sensato delle tecnologie, Cave of Forgotten Dreams è Herzog allo stato puro, egomaniaco ed esploratore, estatico e concretissimo. Il momento in cui gioca con la camera manco fosse un trenino appena ricevuto per Natale è una dichiarazione politica sulla libertà del documentario, sulla porosità dei suoi confini e soprattutto sulla necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Brividi paleolitici.

Duemiladodici. Formatosi sotto la DDR, Andreas Dresen è tuttora uno dei più validi registi tedeschi, altalenante negli esiti ma sempre sincero. Il taglio politico può ricordare Ken Loach, ma con qualche tonnellata di ideologia in meno. Lo dimostra ad esempio il documentario Herr Wichmann aus der dritten Reihe, seconda puntata di un improbabile character study iniziato con Herr Wichmann von der CDU (2003). Dresen racconta la quotidianità di un giovane politico democristiano fino al midollo eletto in Brandeburgo, Bundesland dove la CDU non ha mai avuto vita facile. Empatici senza furberie né melassa, i due piccoli film su Wichmann vanno a comporre un trattatello sulla politica tedesca pre-AfD, e dimostrano che un documentario può anche non avere la schiuma alla bocca e lo schemetto pronto in stile Michael Moore. Altri tempi, davvero.

Duemilatredici. Philibert ha vinto la Berlinale nel 2023, ma anche nei vent’anni successivi a Être et avoir ha continuato a fare il suo lavoro di documentarista “di servizio pubblico”, puntuale, informativo e sempre attento al dato umano. Lo dimostra anche La maison de la radio, perlustrazione del Pentagono radiofonico francese, vale a dire Radio France. Non c’è argomento che Philibert non sappia rendere interessante.

Duemilaquattordici. Vedi alla voce Roehler, anzi peggio. Per un periodo sono cascato nelle trappolucce tese da Dietrich Brüggemann, tipo Renn, wenn du kannst (2010) o anche il buffo Heil (2015), ma Kreuzweg avrebbe dovuto valere come un avvertimento chiaro. Esempio da manuale di virtuosismo fumogeno, questo film antireligioso mutua la struttura per tableaux dell’esordio Neun Szenen (2006) e punta all’applauso intellettualoide. Durante la pandemia, Brüggemann si è fatto riconoscere come mente (?) di un gruppo di artisti contrari a qualsiasi misura di contenimento, nel nome della libertà (?). Punti interrogativi che diventano puntini di sospensione.

Duemilaquindici. Forse il film berlinese per eccellenza degli anni Duemila, che regge anche a una seconda visione dopo lo choc della prima. Choc motivato dal fatto che il film, narrativo e in continuo movimento nella notte di Kreuzberg e Mitte, è un unico piano sequenza di più di due ore senza trucco né inganno. Brüggemann, hold my beer! Ma a rendere speciale Victoria, oltre a questo escamotage, è la credibilità di un flusso d’incoscienza tra balli, flirt e rapine sgrause, capace di rappresentare lo spirito di una città davvero libera e manigolda. Sono passati nove anni, e il clima che trasuda dal film è già fantascienza.

Duemilasedici. Primo film berlinalizio che vidi con Yassien, per giunta all’Admiralpalast e in presenza dell’amatissimo Terence Davies. A Quiet Passion segna il ritorno di Davies alla sceneggiatura dopo molti anni, e a posteriori vale come una prova generale del suo ultimo capolavoro, Benediction (2021). Malgrado le tante crinoline e una perfezione formale che può distrarre, quel che conta è la disperazione che pulsa sia in Emily Dickinson, sia nell’occhio che la sta filmando.

Duemiladiciassette. Anno epocale per Raoul Peck, che sbarca a Berlino con un film di finzione sul giovane Marx e con I Am not Your Negro, magnifico documentario su James Baldwin. Baldwin chi? – una domanda grossomodo lecita fino al 2017, che questo film presentato nella sezione Panorama Dokumente (forse la migliore di tutto il festival) ha definitivamente messo fuorilegge. Politica e attivismo per i diritti civili allo stato puro, con un recupero di materiale audiovisivo poi divenuto virale. Ricordo extra di questa Berlinale: la visione di un film davvero nuovo per linguaggio e impostazione drammatica, Félicité di Alain Gomis.

Duemiladiciotto. Riesco a intervistare Szumowska & Englert, con Twarz in concorso, ma il colpo di fulmine avviene tra le corsie di una Metro teutonica: In den Gängen di Thomas Stuber, da un racconto di Clemens Meyer. Se c’è un momento in cui Franz Rogowski e Sandra Hüller fanno il grande salto, è questo, grazie anche al sostegno del coprotagonista Peter Kurth. Stuber mai più così in forma nel portare sullo schermo la sua Lipsia dolente e proletaria. Una delle prime scene, il ballo dei carrelli elevatori a suon di Bach, è roba da pianto dirotto come l’utilizzo del medesimo brano all’inizio di After Hours, in un contesto diverso ma pur sempre lavorativo. Lo sapevate che il meccanismo pneumatico di un carrello imita il rumore del mare?

Duemiladiciannove. Un altro s-consiglio, che però a suo tempo mi rimase in testa molto più dei bei film. Der goldene Handschuh di Fatih Akin, da Heinz Strunk. Prima di trasferirmi in Germania, per me Akin rappresentava il meglio del cinema tedesco contemporaneo. Dopo aver visto questa celluloid atrocity senza ironia decisi di non vedere più film fatti da lui. Nel 2023 ho infranto il comandamento andando a vedere Rheingold – mannaggia a me. In compenso, sempre nel 2023, infrangendo il von-Trier-ban, ho visto la terza stagione di Riget e non me ne pento. Chiusa parentesi. Il filmazzo di Akin sul serial killer amburghese, malgrado la scenografia impeccabile, è un esempio perfetto di come non vada inscenata la violenza al cinema, cioè con un livello di laidume che pervade lo sguardo in maniera acritica, forse complice. Uno dei film più brutti mai visti in vita mia, e mi si perdonerà l’estrema personalizzazione.

Duemilaventi. Ormai rarissimi dato che con la serie Walker si è abbonato alle gallerie d’arte, i film “narrativi” di Tsai Ming-liang aumentano di valore col passare del tempo. Rizi è – finora – l’ultimo di questa maravigliosa graffa, e mantiene intatte tutte le ossessioni, tutte le compulsioni, tutte le squisite ripetizioni del cinema di Tsai, a cominciare dall’eterno protagonista Lee Kang-sheng. In sala, contai le inquadrature (quarantasei). Quanto di più vicino al porno ci possa essere nel cinéma d’auteur come lo intendeva Bazin.

Duemilaventuno. Festival virtuale azzoppato dalla pandemia, sfida non indifferente per Chatrian e Rissenbeek. Il programma è quel che è ma qualche perla c’è, come Una película de policías di Alfonso Ruizpalacios, pseudodocumentario che lancia domandone feconde a noi spettatori. Nella sua frammentarietà, quasi un saggetto sulla metamorfosi del cinema in questi anni di crisi in senso lato.

Duemilaventidue. Dopo tante incertezze, una certezza: Ulrich Seidl. Con Rimini, l’autore austriaco porta alla Berlinale la prima parte non dichiarata di un dittico destinato alla conclusione – choc – con Sparta. In assoluto uno dei migliori film narrativi di Seidl, e forse l’unico al mondo a captare la riviera romagnola senza alcun senso d’inferiorità rispetto a Fellini. La riviera d’inverno come sfondo di un’umanità sfatta e finita.

Duemilaventitré. Qui l’Orso dorato ci sarebbe stato di brutto, ma è comunque un bene che l’abbiano agguantato Nicolas Philibert e i suoi matti. Con Roter Himmel, Christian Petzold torna a una forma smagliante che non si vedeva da Yella e sforna un gioiello che parla di letteratura, editoria e altre miserie. Facendo ridere e piangere.

Duemilaventiquattro. Settantaquattresima Berlinale appena finita, impressioni troppo fresche, ma è impossibile sbagliare segnalando quello che passerà alla storia come l’ultimo film di Edgar Reitz, Filmstunde_23. Qui si apre, potenzialmente, una parentesi lunga come un’enciclopedia vecchio stile su Heimat. Ma forse conviene fare solo un commento di superficie. Con la sua serie infinita, tre “stagioni” e mille bellissimi rivoli, Reitz utilizzò un termine, Heimat, dalla chiara accezione romantica, salvandolo dalle grinfie dell’ideologia nazi e dal genere conciliante degli Heimatfilme. Ora, nel 2024, anno di rischiosissime elezioni a iosa, Die Heimat è il nuovo nome di un partito neonazi fondato nel 1964, la merdace NPD. A questo punto, alas, siamo (di nuovo) arrivati.