et consumimur igni

Due archivi che si rispecchiano come metà di un palindromo: quello pubblico della storia del cinema e quello privato, in espansione come l’universo, della famiglia Ghezzi, alimentato dall’uomo con la videocamera da presa. È da questi due magnifici maelstrom che nasce nel 2022, dopo quattro anni di lavorazione (e due di montaggio), un film con un titolo krausiano attuale come non mai: Gli ultimi giorni dell’umanità. Oggi peraltro, meglio ancora che nel 2022, sappiamo quanto siano contate le ore dell’umanità intesa come tribù organica, comunità di cervelli analogici.

Ho scoperto Fuori orario leggendo Emanuela Martini su Film Tv a partire dal 1993. Le notti selvagge di Rai3 hanno segnato la mia tarda adolescenza più delle bravate in giro per Bologna. E quando la realtà in carne e ossa non poteva aspettare, mi affidavo con le dita incrociate al timer del videoregistratore, puntandolo quei due minuti prima dell’una e dieci nella speranza che il programma non partisse troppo tardi e il film, i film, ma soprattutto l’intro ghezziana, cioè il nocciolo di Fuori orario, finissero magneticamente impressi nella cassetta da 240 minuti o in quel che ne restava. Molto spesso, anche nei giorni feriali, quando magari l’indomani mi aspettava una verifica sui banchi del liceo, restavo alzato col telecomando in mano per premere il pulsante rosso appena finivano i trailer e partiva il tuffo con Patti Smith. Inconcepibile che abbia lasciato passare quasi tre anni prima di vedere questo film di enrico ghezzi e alessandro gagliardo.

Di Ghezzi regista nel senso classico del termine conservo ancora, vhs digitalizzata, l’episodio Gelosi e tranquilli (1988) del film collettaneo Provvisorio quasi d’amore. Quando lo vidi per la prima volta, ovviamente passato da Fuori orario, rimasi colpito da un’improvvisa ripresa in elicottero più che dai morettismi nel mettere in scena il rapporto a due. L’obiettivo si alza dal Circo massimo ballonzolando intorno al volto di Simona Bonaiuto, mentre la colonna sonora passa da Out of Time dei Rolling Stones a Isabella Rossellini che canta Blue Velvet… in Blue Velvet (1986). In poco meno di venti minuti, l’energia del pastiche, del détournement e dell’amore puro per l’atto di vedere generano un’estasi destinata a sfuggire agli occhi (ciechi) di chi nutre una passione solo tiepida, schematica per il cinema.

I quasi duecento minuti degli Ultimi giorni dell’umanità puntano all’estasi herzoghiana dell’intagliatore Steiner e la raggiungono in più d’una occasione, anche se qualsiasi visione, e qualsiasi occhio, racconterebbe una storia diversa su questo magma di immagini in movimento e suoni persistenti. Il punto di riferimento era, e resta, Verifica incerta (1965) di Grifi e Baruchello, con la sua paratassi di frammenti di pellicola “piratati”, amorevolmente espropriati e rimescolati. E dalla Anna di Grifi intesa come musa si arriva ad Aura Ghezzi, una delle figlie di Enrico, protagonista assoluta delle poche riprese effettuate espressamente per Gli ultimi giorni, inquadrata come un oracolo bergmaniano, che quando parla cita Kafka. Il desiderio di diventare pellerossa. Gli spettatori impietriscono.

Cosa c’è in questo acquario di quello che manca, come recitano le prime parole di enrico ghezzi dopo alcuni minuti di film, tanto nero con vocalizzi, quando appare un paesaggio marino brumoso, giallino, solcato da un vascelletto degno di Marco Ferreri? Ci sono fiere e fuorilegge, King Kong e Matango, fuoco e lava, videocassette in ufficio e cianfrusaglie casalinghe. C’è, tra le prime immagini, il buco della serratura in cui la videocamera anni Novanta di Ghezzi scova il volto della figlia appena chiusasi in bagno per non farsi inquadrare. Un primo piano zoomato, piratato, nell’occhiello sfumato della serratura, che tornerà a chiudere il lunghissimo viaggio nell’immaginario del suo autore-ispiratore.

Tra i gesti ghezziani che mi sono rimasti più impressi c’è quello dell’accensione astratta di un fiammifero. Gli ultimi giorni dell’umanità funziona davvero come una catena di scintille, un innesco che oscilla tra il placido, l’ipnotico e il magmatico. Durante la prima ora, interi minuti sono sovraimpressi a un’eruzione dell’Etna, creando un senso di Big Bang che ricorda la full immersion nella detonazione dell’atomica, Part 8 di Twin Peaks – The Return. Di questa incandescenza si nutre tutto il film, sia che mostri il rogo delle pellicole egiziane a Torino nel 2002, una valanga degna di Fanck o Herzog o un satellite orbitante inseguito manualmente dentro e fuori dall’inquadratura per quasi dieci minuti. Un’altra lunga sequenza presa da un’agenzia spaziale: degli astronauti giocano con una bolla d’acqua in sospensione. Decenni fa, uno dei formati di Fuori orario s’intitolava Eveline e mostrava found footage di questo tipo, NASA senza commento, sport e conflitti, l’indifferenza della natura captata da un occhio giornalistico. Tutto questo, insieme a Paradžanov e Wakamatsu, Iosseliani e Peckinpah (il Billy the Kid di Dylan), home movies su home movies, improvvisazioni con Marco Melani, un corto comico-trucido dei Lumière, Carmelo Bene macchina attoriale, tutto questo s’inserisce nell’ordito degli Ultimi giorni.

Eppure, sebbene ci siano tutte le magnifiche ossessioni di enrico ghezzi, questo film non è né un testamento, né un best of, né tanto meno un montaggione autocelebrativo e autosufficiente. L’acquario di quello che manca non può avere una capienza finita. Il desiderio di vedere non può placarsi mai. Nel suo alternare “cinema di durata” e montaggio a scheggia, il film dichiara un metodo e ci chiede, tra le righe, di adottarlo e svilupparlo con nuove mutazioni. A volte, più che giustapporre, arriva a un plateau. La prima sequenza lunga è tratta da X (1963) di Corman, con Ray Milland, in assoluto l’attore più presente in queste tre ore e un quarto. Anche Jean-Marie Straub, insieme a Danièle Huillet, irrompe per quasi dieci minuti sparlando, all’apparenza, della letteratura. Altri dieci minuti di camera statica a Charlottesville, luogo del massacro neonazi del 2017. Altrove le immagini sono montate a ritroso, fermate, accelerate (celebri i film del cuore sparati da Fuori orario in moviola video), imperfette con tutte le sbavature e i glitch dei supporti antichi, magnetici, ormai modernariato – eppure caldi di un calore che il 4K non avrà mai.

Schegge sonore. Le parole “fuori orario” pronunciate per la prima a 28’15”, l’audio del finale di Dillinger è morto (1968) che zufola di punto in bianco su tutt’altre immagini, la voce di Lydia Simoneschi, doppiatrice di Ingrid Bergman, in Europa ’51 durante il test di Rorschach (“Non so, sono solo delle macchie”), David Lynch beccato a un bancone del bar, sigaretta in mano, che dice – forse – “Ciao amigo”. A un’ora, ventisette minuti e nove secondi. Qui il montaggio è di un jazz rapinoso, tra le piste sonore c’è il circuito di Monza, e allora Lynch potrebbe anche aver detto Now a Vigo, dando il via alla sigla con L’Atalante. Cose (mai) dette. E, scheggia video tra schegge di ogni tipo, c’è pure la sigla di Fuori orario col tuffo e Because the Night, ma solo per un millisecondo, quasi subliminale. Impossibile non vederla, impossibile non completarla nella propria testa fino alla fine, Jean Dasté uscito fradicio dal canale che si guarda intorno.

A due ore e venticinque minuti di film arriva la title card, che è poi quella della versione video della messinscena di Ronconi ispirata al dramma di Kraus, anno 1991. Seguono quasi venti minuti col monologo del “criticone” (der Nörgler) interpretato da Massimo De Francovich, quinto atto, scena cinquantaquattro. A intervallare il primissimo piano dell’attore intervengono lampi da Fuego en Castilla di José Van del Omar, le facce azzurre dei soldati post-apocalittici dei sogni di Kurosawa. Poi la marcia in bianco e nero, lercia e senza fine, del Kárhozat (1988) di Tarr Béla.

Fuori orario è (stata) la Fackel di enrico ghezzi. Gli ultimi giorni dell’umanità si alimenta di quello spirito per tentare un’ibridazione di archivi, azzardare una sintesi impossibile, ribadire un metodo – sempre Grifi, sempre Debord – e trasformarlo, somministrarcelo, vedere l’effetto che fa. “E che questo sia uno spettacolo” canta Battiato nell’inedito del 1996, dedicato a Fuori orario, che fa partire i titoli di coda. In cui si trova l’elenco di tutte (?) le opere citate, intessute, mutate nel quadro degli Ultimi giorni. Elenco dovuto, ma che non risolve al cento per cento la sublime incertezza di non sapere quel che si è visto o sentito. Un elenco che Fuori orario non ha mai offerto. Mi ci sono voluti letteralmente trent’anni per capire che un frammento utilizzato in un montaggio dedicato a Pasolini era tratto dai Cannibali di Manoel de Oliveira. Ogni tanto penso ancor ad altri frammenti misteriosi. È la bellezza di un flusso anaccademico che rinuncia a didascalie e piè di pagina, un taglia e cuci che fa molto più di citare. Ricrea, ribalta, lancia su un nastro di Moebius. Un vagare, un naufragare e un ardere. Andiamo in giro di notte e ci lasciamo consumare dal fuoco.

Aura Ghezzi negli Ultimi giorni dell’umanità (2022) di enrico ghezzi e alessandro gagliardo.

toste verità (enraha)

Sally Hawkins sul trampolino in Happy-Go-Lucky (2008) di Mike Leigh

Bilancio del primo trimestre. All’università ho dato l’esame di polacco C1, per il quale ho dovuto lottare con la burocrazia (il mio piano di studi arriverebbe fino al B2), e ne sono uscito con un corrusco 1,3. Più un 1 secco per una tesina sul dialetto casciubo. Mi bacio i gomiti non per approfittare di questo safe space digitale di mia proprietà, ma mosso da un’emozione sincera e incredula, visto che studio il polacco da esattamente dieci anni, cinque alla Humboldt (ovviamente part-time), e in più di un’occasione una delle voci che ho in testa, rappresentante della vecchia, non sempre sana sindrome dell’impostore, m’ha sussurrato con distacco ‘non ce la farai mai’. E invece, almeno fino a questo punto, fatta ce l’abbiamo. L’ironia dei tanti progetti paralleli è che son tornato all’università per tuffarmi nel mondo nuovo della slavistica, imparare a raffica, perdermi e scovare sotto il segno della serendipity e alla fine aggiungere una lingua alle mie combinazioni di lavoro. Nel frattempo, il lavoro di traduttrice è diventato diafano come Marty McFly con la chitarra in mano, e la via maestra ha assunto i connotati di un posto fisso da bibliotecario in Prussia. Ovvero il piano B del mio studio alla Humboldt. Evviva i piani B.

Durante l’ultimo corso di polacco, insieme a commilitoni madrelingua abbiamo rivitalizzato un blog universitario nato un paio di anni fa, Polska nad Sprewą (la Polonia sulla Sprea), la cui idea di fondo è rintracciare orme e segnali culturali polacchi a Berlino. Per questa piattaforma polskoberlińska, tra le altre cose, ho recensito sia Kobieta z… di Małgosia Szumowska e Michał Englert, sia il sorprendente Vika! di Agnieszka Zwiefka, incentrato su Wirginia Talan Szmyt, dj ottuagenaria. Ho anche fatto qualche ricerca sugli autori polacchi che hanno scritto di Berlino.

Alla Tricianale, cioè la prima Berlinale a firma Tricia Tuttle, mi sono imbattuto nell’ultimo pastiche di genere di Cattet e Forzani, in un gustoso mediometraggio animato e ipercasalingo di Michel Gondry e soprattutto nel nuovo film di Edgar Reitz, che ho anche avuto il privilegio di intervistare per Indie-Eye. La prima all’Haus der Berliner Festspiele è stata un’esperienza indimenticabile, anche a causa di un incidente per fortuna non grave che l’ha interrotta di punto in bianco, aggiungendo pathos al pathos. Pubblico delle grandi occasioni, Tuttle a sorpresa sul palco prima della proiezione, proiezione – il film è un capolavoro tranciafiato – e coda con tutta la banda sul palco, così fitta che Lars Eidinger è rimasto ai bordi (immagino soffrendo come un cane). Al centro come la famosa roccia dell’Hunsrück, inscalfibile ed eloquente, lui, la memoria storica del cinema tedesco dai tempi di Oberhausen. La discussione è terminata perché un uomo accanto a Reitz è letteralmente carambolato giù dal palco come un birillo, preda di un improvviso svenimento. Dalla seconda fila centrale dov’ero ho visto il corpo scomposto, il saltello degli occhiali e ho temuto il peggio. Che non si è verificato. Ma è con questo episodio lancinante che è calato ex abrupto il sipario sulla presentazione di Leibniz, festa solenne per Edgar Reitz.

Un’altra sorpresa, meno bella ma grimaldella, è stata la visione di Hard Truths (2024), il ritorno di Mike Leigh all’Inghilterra contemporanea dopo i fastosi tuffi nel passato di Mr Turner (2015) e Peterloo (2020). Non un ritorno qualsiasi. La protagonista è Marianne Jean-Baptiste, indimenticabile in Secrets and Lies (1996) nonché compositrice per il successivo Career Girls (1997). Anche il titolo del film riffa la vecchia Palma d’oro, ormai splendida trentenne, che segnò il trionfo dell’immaginario sociologico di Leigh mettendolo al contempo in stand-by. Da sempre cineasta tradizionale nella forma ma rivoluzionario nel metodo, Leigh dopo il punto fermo di Secrets and Lies ha spesso alternato le sue classiche narrazioni umane più vere del vero a esperimenti variegati, negazioni puntuali della “maniera” sviluppata fino al 1996. Ecco allora che con Career Girls per la prima volta usa massicciamente il flashback, con Topsy-Turvy (1999) fa sia un film in costume, sia un fim-operetta sugli amati Gilbert e Sullivan, e con Happy-Go-Lucky una pellicola in cui, all’apparenza, manca il dramma e tutto va bene. All’apparenza. Perché il film con Sally Hawkins ed Eddie Marsan passato in concorso alla Berlinale del 2008 è la vera pietra di paragone per comprendere le ombre di Hard Truths.

La Pansy dell’ultimo film va ad arricchire la galleria dei personaggi femminili “devised by” Mike Leigh insieme alle proprie attrici protagoniste. Dalla finta acqua cheta Sylvia (Anne Raitt) di Bleak Moments (1971) passando per il ciclone Alison Steadman e i suoi personaggi frivoli ma non troppo (Nuts in May, 1976; Abigail’s Party, 1977; Life Is Sweet, 1990), il trio composto da Brenda Blethyn, Marianne Jean-Baptiste e Claire Rushbrook in Secrets and Lies, le amiche ritrovate Katrin Cartlidge e Lynda Steadman di Career Girls e la sconvolgente Imelda Staunton di Vera Drake (2004), Mike Leigh ha sempre mostrato un genio per la ritrattistica femminile. Il che non è sinonimo di empatia melodrammatica à la Cukor, Fassbinder, Almodóvar o Haynes. Le asperità di Naked (1993), che si apre con uno stupro, così come la messinscena impietosa di caratteri borderline, hanno suscitato critiche femministe e sospetti di cinismo, se non vera e propria exploitation. Hard Truths fa ben poco per smentire questo coro di giudizi impietosi: è il primo film all-black di Leigh, cineasta bianchissimo, la sua protagonista è negatività allo stato puro e la trama non svolta verso la speranza.

Personalmente, ritengo che i film di Leigh vadano lentamente appannandosi da trent’anni. Questo malgrado l’indubbia solidità di titoli come Another Year (2010) o Mr Turner. Gli anni Settanta delle Play for Today targate BBC non sono ovviamente ripetibili, né gli anni Ottanta thatcheriani fatti a pezzi in affreschi urbani viscerali e spietati come Meantime (1983) e High Hopes (1988), rispettivamente una delle primissime produzione del nascente Channel 4 e il primo titolo Thin Man Films creato insieme a Simon Channing Williams. Il compositore Andrew Dickson ha accompagnato Leigh per sei film, con la sua viola d’amore e temi tra l’ironico e il malinconico, partendo proprio da Meantime. Topsy-Turvy segna la rottura più evidente con un modus operandi ormai divenuto leggendario: budget più elevato, ambientazione storica, attenzione maniacale ai dettagli. Ma il Leigh che rapisce e sconvolge è quello sincronizzato con la contemporaneità, che trascorre settimane con gli attori per plasmare i personaggi sulla base di esperienze reali.

Distante anni luce dagli smussamenti retorici hollywoodiani o britannici in stile Richard Curtis, Leigh non ha mai fatto sconti con i suoi ensemble attoriali. La sofferenza è sofferenza, il trauma è trauma, il tic è tic. I suoi film grondano personaggi, anche in primo piano, con comportamenti vistosi, angolosi, fragili, talvolta nauseabondi. Allo stesso tempo non mancano momenti lirici, di speranza pura. Il finale di High Hopes, con Edna Doré che dice di essere sul tetto del mondo osservando i gasometri di King’s Cross. La zoppia quasi eroica di David Thewlis in Naked. I dialoghi in giardino che concludono Life Is Sweet e Secrets and Lies. Se non closure, almeno uno spiraglio. Un guizzo di vita. Hard Truths nega tutto questo con una programmaticità a tratti superflua, e pur dispensando qua e là leggerezza, non riesce a sconquassare davvero sul piano della sintonia umana. Un peccato, che ha tuttavia il pregio di mettere in luce ancora meglio uno dei titoli più ignorati di Mike Leigh: Happy-Go-Lucky.

Se la Pansy di Hard Truths vede tutto bigio e nulla è in grado di piegarla, la Poppy interpretata da Sally Hawkins è una inguaribile ottimista. Sempre col sorriso, sempre con la battuta pronta, mai un cruccio anche se le rubano la bici. In una delle scene più belle, Poppy vaga nella periferia londinese notturna e s’imbatte in un senzatetto che blatera in maniera incomprensibile. Lui è grande, grosso, mentalmente instabile e oggettivamente imprevedibile, ma lei non ha un briciolo di paura e gli parla senza batter ciglio, spinta da un’empatia che non è a sua volta follia o martirio, ma voglia reale di confrontarsi con l’altro. La stessa apertura che concede a Scott (Marsan), il suo istruttore di guida, con conseguenze – se non tragiche – almeno inquietanti. Se nel 2008 Scott poteva solo sembrare un disadattato razzista, omofobo e ammalato di solitudine, rivisto oggi fa suonare una batteria di campanelli, perché il personaggio incarnato da Marsan è lo specchio sputato dell’odierna tipologia incel, complottista, anti-tutto, credulona ed elettrice di populisti e dittatori che soprattutto negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere piuttosto bene. Sebbene non riesca a danneggiare la protagonista, basta la sua presenza – a volte grandioso innesco umoristico: enraha! – per cambiare di segno l’intero film. Oltretutto, c’è un chiaro parallelo tra Scott e uno degli scolari di Poppy, manesco poiché “inoltra” violenze domestiche. Da sorridente ritratto al femminile con tanto di esilaranti lezioni di flamenco, Happy-Go-Lucky diventa un film di denuncia sul maschilismo vittimista. E tra le righe, aggiungerei, anche se si tratta di un’impressione assolutamente soggettiva, fino all’allegro finale in barca vibra il sospetto che il nuovo fidanzato di Poppy, anche lui educatore, possa rivelarsi nocivo quando meno ce lo si aspetta.

Ecco allora un livello superficiale e uno profondo. Chiacchiere e sorrisi, balli scatenati al ritmo di Common People, letture confidenziali dei palmi come in Secrets and Lies o il rituale bröntiano di Career Girls, ma in filigrana c’è una minaccia latente, abissale, insanabile come l’ottimismo saltellante di Poppy. Due dimensioni che si toccano senza contaminarsi. Non c’è redenzione nei film di Mike Leigh, al massimo un colpo di fortuna, così come non c’è dannazione. Vera Drake finisce in carcere perché aiuta altre donne ad abortire, senza nemmeno chiedere un penny in cambio. L’espressione di incredulità e sconcerto quando parla con due carcerate cui è stata comminata la medesima pena, e che hanno sempre usato metodi ben più pericolosi dei suoi, è una daga in pieno petto. Attenta a dove vai, Drake, le dice la guardia-cerbera che incrocia lungo le scale. Dove deve mai andare? Da nessuna parte.

Titoli di coda di A Mug’s Game (1973), corto didattico sul gioco d’azzardo prodotto dalla BBC.

Rambo è un cane

Essam Omar in Al bahs an manfaz i khoroug al sayed Rambo (Seeking Haven for Mr Rambo, 2024) di Khaled Mansour.

Dick Laurent is dead. Incenerito, DL, da centinaia di migliaia di sigarette, stecchito da un’aria incendiata di gennaio che l’ha costretto a lasciare le mura domestiche. Quelle che si vedono, sempre uguali, nei clippini caricati giornalmente durante la pandemia. Persino nei panni di John Ford lo si vede aggrappato a un sigaro come a una mammella. Per capire la fisarmonica dei suoi tentativi di smettere basta leggere quanto scrive Emily Stofle nel memoir lynchiano Room to Dream. Ma non son certo qui a fare la morale o facili battute sulla cretineria ipocrita della meditazione di ‘sta cippa. Come tanti, la cesura del 16 gennaio è valsa come una rasoiata nell’occhio, uno spartiacque che fa male e trasforma le visioni, finora, salvifiche, in un’opera chiusa, riguardabile sì all’infinito, ma senza più margine di espansione. Questo fa male. Così come fa male ripensare agli anni dopo l’urlo belluino di Carrie Page. I clippini, la fine dei clippini, l’emergere di un nome in codice soffiato dal vento – Wisteria – e la conferma che esistono tredici sceneggiature originali per una serie, probabilmente episodica, un decalogo+3 di narrazioni libere e sfrangiate, intitolata Unrecorded Night. Serie picciata a Netflix che causa covid, e causa enfisema, in pratica ha detto un no-grazie nella forma di una procrastinazione alla calende greche. O meglio, ad sepulcrum. Insieme al progetto del film di animazione Snootworld, questi testi sono l’unico, vero punto interrogativo residuo nell’opera di David Lynch. Che vengano pubblicati, e lasciati in pace come uno spartito insuonabile.

La vera fine dei clippini non coincise col dicembre 2022 e l’uscita di The Fabelmans. Nel 2024 Lynch ha riattivato il suo teatrino nel radiatore di youtube. L’ha fatto per recuperare un vecchio Interview Project (2009) teleguidato, una sorta di appendice on the road a The Straight Story, e promuovere un nuovo disco collaborativo. L’ultimissimo di questi video casalinghi rippa e ridoppia Detour (1945) di Ulmer, chiudendosi con una formica fulminata mentre canta Row Your Boat. Immagine, questa, proposta come schermo di computer con tanto di barre ben visibili del software di editing. Formiche animate alla meno peggio… Era già capitato nell’ottavo e ultimo episodio di Dumbland (2002), che insieme a Rabbits costituì il materiale clou del sito davidlynch.com negli anni eroici di internet. Le formichine in flash cantano, ballano e s’infilano nel gesso dell’energumeno protagonista, facendolo urlare belluinamente. Belle fini lynchiane, quelle con urla belluine. Titolo del clippino del luglio 2024: Will There Be Anything Else?

And now for something completely different. Quando eravamo ancora al Cairo abbiamo visto un gran bel film. Si chiama – titolo internazionale – Seeking Haven for Mr Rambo, è passato al Lido nel 2024 e per quel che mi riguarda è il primo film egiziano di una certa levatura dai tempi di Yacubian Building (2006) di Marwan Hamed, tratto dal romanzo di Alaa al-Aswani. Meravigliosamente bagnato da Ahmed Tarek Bayoumi in una luce urbana verdastra, bluastra, notturna, che mischia la sabbia e le luci al neon, il film è una sorprendente storia animalista in un paese dove il randagismo è ancora molto visibile. Il protagonista Hassan (Essam Omar) vive con la madre (Samma Ibrahim) in una modesta palazzina il cui proprietario unico è il brutale meccanico Kareem (Ahmed Bahaa). Questi vuole dar loro lo sfratto e arriva alle minacce fisiche, quand’ecco che il cane di Hassan, Rambo, lo azzanna alle palle. Kareem chiede soddisfazione e pretende di avere la bestiola – per ucciderla. Hassan si tuffa in un’odissea cairota allo scopo di trovare, appunto, un porto sicuro dove lasciare Rambo. Ad aiutarlo interviene la ex fidanzata Asmaa (Rakeen Saad). Sceneggiatura ridotta all’osso, trascurabilissima, eppure la resa è sorprendente. Il regista Khaled Mansour conosce il Cairo come le proprie tasche – da sempre piene di spiccioli e non di verdoni – e il suo occhio per le location, la messa in scena e l’empatia nei confronti dei personaggi crea una favola contemporanea capace di strappare lacrime e stupore.

Tanto per cominciare, Seeking Haven for Mr Rambo ci restituisce il Cairo com’è oggi, nel qui e ora, nella realtà non sempre garbatissima dei suoi angoli e delle sue situazioni sociali. L’azione si svolge sia negli slum, sia tra le villette di Zamalek, passando per il centro malfamato di Downtown e spingendosi fino alle autostrade nel deserto che portano alla nuova capitale, orlate di tralicci degni della Part 18. Si vede anche un cimitero (abitato), teatro di una rarissima scena di sesso per la cinematografia egiziana. Niente di grafico, per carità d’allah, ma il cattivo si porta comunque l’amante Zuzu fin lì in un suv per consumare in auto, e lei nota che il morso di Rambo ha lasciato delle tracce evidenti. Una situazione al limite della censura, così come i molti momenti eroticamente tesi tra Hassan e Asmaa – ora impegnata con un altro uomo – anche se queste strizzate d’occhio a base di sguardi languidi e magliette (maschili) tolte possono benissimo rientrare in una forma di soft porn consentito e commercialmente spendibile. Comunque notevole il fatto che il nuovo fidanzato di lei sia un uomo divorziato con figlia, peraltro simpatico, che non vede in Hassan una minaccia. Qualche stonatura qui e là. L’attore protagonista è molto noto, e molto palestrato, tant’è che resta a petto nudo più spesso di quanto ce ne sia realmente bisogno. Al cane, che ama fortissimamente, dà anche della roba dolce, un errore che qualsiasi canaro non farebbe. Durante una scena evidentemente girata senza bestiolo sul set, Rambo “dorme” ma non reagisce in alcun modo a un bicchiere che cade e si rompe. Impossibile, anche perché l’inquadratura abbraccia uno spazio piccolo. E la sottotrama che vede Hassan recuperare, e digitalizzare, una vecchia audiocassetta con registrazioni paterne, s’infrange contro il fatto che l’uomo, angelicato nel film, abbia abbandonato la famiglia senza alcuna spiegazione. Possiamo chiamare buona parte di queste dissonanze “incrostazioni di patriarcato”. E fino a qui, contando l’aria che tira a livello planetario, tutto bene.

Il meglio arriva quando il Cairo assurge a personaggio, e la fuga di Hassan & Rambo reca i tratti di una spirale infernale. Now it’s dark. Facciamo visita a un’area periferica dove si svolgono combattimenti tra cani, una sequenza forse troppo breve non per i combattimenti in sé (per fortuna lasciati sullo sfondo) ma per la cricca umana che s’intravvede. Quello che sembra un idilliaco santuario-pensione si tramuta in un incubo con un’apparizione-lampo del cattivo (cattivissimo, in questo senso bidimensionale) armato di pistola e con la schiuma della vendetta alla bocca. Hassan cerca rifugio – per sé – in una moschea buia che sembra un bagno pubblico, e invece di inginocchiarsi si stende a terra e inizia nevroticamente a grattare col coltellino le lettere restanti della sua divisa da guardiano notturno: S CU ITY. Lo scontro finale tra Hassan e Kareem, tra una chiave inglese e un falò, ha un che di ancestrale.

Il lieto fine non c’è. Il rifugio trovato per Rambo farà di lui un migrante d’oltreoceano destinato a spassarsela bene sradicandosi però dagli umori pulsanti della vita cairota, e dall’amore di Hassan. Una metafora tragica sull’abbandono della propria terra, qualunque essa sia. Hassan e la madre finiscono randagi tra i randagi, anche perché – dettaglio non ozioso – nessuno di loro ha cercato un’altra soluzione abitativa malgrado le evidenti minacce di Kareem. L’intero film si fonda sul salvataggio di un cane che tutti vorrebbero morto pur di placare la furia di un energumeno senza scrupoli. Anche da questo punto di vista il film di Mansour è una favola visionaria, con i personaggi tagliati con l’accetta e una prima immagine – iene che si scannano sullo schermo di una tv digitale – assorbente e ipnotica come la neve di un canale che non esiste.

Al bahs an manfaz i khoroug al sayed Rambo si conclude con un classico nubiano cantato da Mohamed Mounir, albero di limone. E così finisce anche questa orecchia recisa, trovata e speleologicamente adoperata.