in bocca al lotto

Titoli di testa di Coup de chance (2023), immagine al negativo.

A dieci minuti dalla fine di Radio Days (1987), Diane Keaton si esibisce nella canzone You’d Be So Nice to Come to. Il montaggio interpola una breve scena domestica in cui Dianne Wiest, di solito in giro per locali, fa un solitario in salotto ascoltando il pezzo in sottofondo. Dopo l’ultima nota, l’inquadratura successiva resta nella balera dove Keaton si è esibita in diretta radiofonica e mostra un tavolo a cui è seduta Mia Farrow, glamorosissima, presto raggiunta da Wallace Shawn. Questa adiacenza di muse (e musi) del cinema di Woody Allen non si era mai vista prima, né è stata ripetuta fino a oggi. La speranza che esca almeno un’ultima rom-com wasp, un’ultima tragicommedia newyorkese con i volti, e le voci, che hanno reso imprescindibile il cinema di Allen nell’arco di svariati decenni è destinata a schiattare malamente. Lui stesso ha detto in più occasioni di voler radunare in un unico film, congiunture permettendo, le sue attrici predilette (aggiungendo Judy Davies alla lista). Coup de chance, ben lontano da questa prospettiva, rischia di essere l’ultimo titolo della sua filmografia.

Allen è da sempre una macchina da scrivere vivente, capace di imbastire un film all’anno (girato dopo l’estate come “untitled Woody Allen fall project”) senza eccezioni, anzi a volte con gradevoli surplus, dal 1982 al 2016. Questa sua serialità è stata facile preda della critica ogni volta che i risultati hanno deluso le aspettative, una tendenza intensificatasi nell’ultimo quarto di secolo. Rispetto ai fasti di Crimes and Misdemeanors (1989), i film alleniani degli anni Duemila mostrano l’osso sempre di più, scarnificandosi nella trama e nella messinscena, come si vede con spiazzante chiarezza in Irrational Man (2015). Se questa semplificazione sia anche un’involuzione è argomento di dibattito. Sta di fatto che dopo Midnight in Paris (2011), o volendo dopo Blue Jasmine (2013), la risonanza delle produzioni alleniane in quanto tali, cioè al netto delle tristi faccende di cronaca, ha registrato un drammatico calo. In compenso, Allen ha pubblicato di più su carta. Il memoir Apropos of Nothing (2020) è una lettura spassosa e appagante, tutt’altro che autocelebrativa, che disamina con sintetico rigore una carriera lunghissima, salvo concedere fin troppe pagine alle magagne di cui sopra. La raccolta di racconti e simpaticherie Zero Gravity (2022), che va al traino di Mere Anarchy (2007), dimostra invece due cose: il suo cassetto dei manoscritti è peggio delle braghe di Eta Beta, e quando si tratta di fiction tout court Allen ama caricare la prosa con un lessico ricercato alla lunga stancante, che poco ha a che spartire col suo istinto infallibile da stand up comedian.

Coup de chance è l’ultimo capitolo di una sparizione a rate. Woody Allen non recita da tempo, e la sua assenza fisica davanti alla macchina da presa è sempre stata un peccato. Tralasciando il coraggio, o la presunzione, di dare seguito ad Annie Hall con Interiors (1978), i film in cui Allen non compare sono un filone a sé stante, meglio se nobilitato da una solida protagonista – Mia Farrow, Gena Rowlands, Cate Blanchett – o dal ricorso a un proxy dell’autore. John Cusack in Bullets over Broadway (1994), Kenneth Branagh in Celebrity (1998), Jason Biggs in Anything Else (2003), Larry David in Whatever Works (2009), grossomodo anche Chalamet in A Rainy Day in New York (2020) e Shawn in Rifkin’s Festival (2021) “fanno” Allen al posto suo, fungendo da ingranaggi ben oliati in un tipo di sceneggiatura costante dal 1977 – con moderate variazioni e caratteri mobili. Woody non si vede dal primo episodio di To Rome with Love (2012), e non si sente come voce narrante dai tempi di Café Society (2016). Al 2016 e al suo fallimentare contratto con Amazon risale anche la miniserie Crisis in Six Scenes, una sorta di Casa Vianello con Elaine May e Miley Cyrus, al momento ultima apparizione di Allen attore. Per quanto trascurabile, la sitcom contiene almeno una chicca stellare nel terzo episodio, quando il protagonista Sidney Munsinger, scrittore dalle altalenanti fortune, menziona il proprio romanzo Let There Be Light, storia di un proctologo che trova dio nei posti più impensati.

Malgrado la rarefazione degli ultimi anni, qualche zampata qui e là s’è vista. La prima sequenza di Café society, con un sontuoso movimento di macchina che abbraccia anche Sheryl Lee, e la dissolvenza incrociata Kirsten Stewart / Jessie Heisenberg sul finale di questo piccolo dramma dall’atmosfera à la Fitzgerald. L’ambientazione a Coney Island di Wonder Wheel (2018), plastico sfavillante che raduna l’amarcord scenografica di tanti altri film. Il finale commovente di A Rainy Day in New York. Lo sberleffo bergmaniano con Christoph Waltz che conclude la sequela di “classici rifatti” in bianco e nero tra le pieghe di Rifkin’s Festival. Coup de chance sorprende sulla carta, meno in sala. Ma è già un miracolo che il film esista e abbia trovato una distribuzione in vari paesi.

Allen ha sempre detto che l’ottanta per cento del successo è dato dal “farsi vedere”, quindi dalla perseveranza unita al presenzialismo. L’altro ingrediente magico è la fortuna. E in Apropos of Nothing ribadisce di essere stato molto fortunato, a cominciare dal primo film Take the Money and Run (1969) salvato in corsa dal montatore aggiunto Ralph Rosenblum, che modificando un quinto delle scene e introducendo una musica più briosa (jazz) trasformò un mockumentary semi-improvvisato in un marchio di fabbrica. In un certo senso, Allen ha cercato di sfaccettare il proprio talento per la comicità iniettandovi sia il gusto felliniano per le mitologie private, sia i dilemmi morali in salsa quotidiana a marchio Bergman. La seconda operazione ha richiesto più anni, e più film, per funzionare davvero. Crimes and Misdemeanors amalgama alla perfezione dramma e leggerezza, lasciando un sapore amaro che Allen ha recuperato in Match Point (2005) con un supplemento di fatalismo e cinismo. Questo supplemento è la fortuna.

Nientemeno che Variety, nella persona di Owen Gleiberman, ha parlato di trilogia del “killer inside me” dopo la presentazione di Coup de chance al Lido nel 2023. È evidente che questo fosse anche l’intento di Allen: tornare alla ribalta con un film che per struttura drammatica ricorda da vicino due delle sue opere più apprezzate. Da questo punto di vista le somiglianze non mancano. Il tema della fortuna collega immediatamente Match Point a Coup de chance, così come il ricorso al fucile e, in generale, il milieu riccone – stavolta non a Londra, ma a Parigi. Sia Coup de chance, sia Crimes and Misdemeanors sono “due film in uno”, anche se il primo lo è in chiave più modesta. Se il titolo del 1989 si regge su due trame parallele che s’incrociano in chiusura mediante l’incontro casuale dei due protagonisti e il loro dialogo filosofico con un drink in mano, Coup de chance si spacca nettamente in due parti, la seconda delle quali molto più interessante. Allen non è nuovo a questi esperimenti di sceneggiatura: basti pensare alle sliding doors programmatiche di Melinda & Melinda (2004) o ai due atti di Small Time Crooks. A legare Coup de chance con Crimes and Misdemeanors è anche l’attrito stridente tra l’alta società e i criminali da lei assoldati per togliere di mezzo gli impicci. Ma mentre il classico del 1989, così come quello del 2005, scodellano un dramma assoluto quando si tratta di far fuori qualcuno, il nuovo film mette in scena l’omicidio in maniera ambigua, e i criminali sono a un passo dal diventare da strapazzo. Malgrado i presupposti neri come la pece, Coup de chance sembra optare per la leggerezza – e soprattutto non termina col cinismo trionfante, nonchalant, del villain impunito. Questo è lo scarto più chiassoso rispetto agli altri due capitoli della presunta trilogia. Il primo e probabilmente unico film francese di Woody Allen assomiglia di più a Cassandra’s Dream… o a Small Time Crooks.

Coup de chance è un film con la calza davanti all’obiettivo più che con la calzamaglia in testa. Un film filtrato, perché è un film tradotto alla radice. Leggendo “écrit et réalisé” alla fine dei titoli di testa sorge spontaneo il dubbio che manchi qualcosa, cioè “traduit par”. Si sa che Allen non parla francese, sicuramente non scrive in francese, quindi la sceneggiatura del film nasce in una lingua che è stata tradotta, adattata e consegnata nelle mani di un cast di attrici e attori francesi. Nei titoli di coda c’è una voce “traducteurs” sotto la quale compaiono i nomi di Pierre Arson e Dominique Piat, a questo punto sospettati numero uno di aver scritto le parole pronunciate nel corso della pellicola. Ma il problema della mediazione, così importante per un testo audiovisivo che dovrebbe trascinarci con dialoghi fulminanti, riguarda anche le performance attoriali. Fin dall’inizio si coglie uno straniamento, una dissonanza. Sebbene Melvil Poupaud sia impeccabile nei panni del cattivo, si ha l’impressione che manchino delle sfumature per evitare la macchietta, e la suocera interpretata da Valérie Lemercier genera nella mente mondi paralleli in cui il film è stato girato a New York con Diane Keaton al posto suo. Un esito parziale, quindi, in una direzione o nell’altra. Né abbastanza libero, né abbastanza controllato. Non si ride, non si piange, non si resta sulle spine: Coup de chance è una chimera drammaturgica senza i picchi che contraddistinguono l’opera di Woody Allen. Picchi emotivi, o anche solo punchline.

La chiave di lettura del film è offerta dalla fotografia di Vittorio Storaro, esageratamente luminosa e pavona. Il ceto abbiente cui Allen ci ha abituato è in questo caso parodia di sé stesso, Parigi oscilla tra appartamenti principeschi e mansarde bohémien, con i suv a fungere da trait d’union logistico. Le battute di caccia al cervo sono la normalità. L’intero racconto è sopra le righe, eppure l’estetica da Sex and the City non serve al riso, né tanto meno a suggerire una qualche forma di critica sociale. La scarnificazione alleniana della messa in scena riscontrata negli ultimi anni ci consegna qui un prodotto rigoglioso e piatto, pittorico e inerte, nella cui cornice è difficile capire se dovremmo sghignazzare a denti stretti o contemplare gli abissi di una società decadente. È come se, avendo smarrito il controllo diretto della parola, Allen si affidi completamente allo sfondo. Persino nel momento cruciale, quando il fucile sta per sparare, la musica non è Schubert o Bizet cantato da Caruso, come in Crimes and Misdemeanors e Match Point, ma un jazz ilare. Uno zig-zag che confonde. L’impianto è tragico, la realizzazione leggera – ma non slapstick. A peggiorare le cose ci sono almeno un buco di sceneggiatura (una telefonata allarmante che resta senza commento) e il piano sequenza iniziale, che vorrebbe essere virtuoso e avvolgente ma passa quasi inosservato. Come se ci si limitasse a seguire gli attori, lasciando che esauriscano il copione.

Nemmeno il tema della fortuna funge da grimaldello decisivo per la trama. I due “coups de chance” della storia si accompagnano a uno sguardo distaccato, quasi un quieto cinismo, uno staccare la spina dinanzi all’incontrollabilità del caso. L’unico a ribellarvisi è Jean (Poupaud) con la sua ossessione per i trenini e il disprezzo nei confronti della sorte, a cominciare dai biglietti della lotteria. Lui detesta il fatalismo, lui la fortuna “la provoca” (“je la provoque”). Il nocciolo del ragionamento di Allen è che è già un miracolo essere vivi, che la vera lotteria si gioca nell’apparato riproduttivo femminile, quindi la vita in sé è un prodigio che non andrebbe sprecato… ma al contempo, meglio non rimuginarci troppo. Quest’ultimo rifiuto a drammatizzare, un po’ escapista un po’ anticlimax, è il contributo di Coup de chance al macrotema dell’azzardo in Woody Allen. Peraltro, è identico al finale di Whatever Works, della serie esistenzialismo e birra fresca. Però c’è un però. Come si evince dal dialogo Allen-Landau in Crimes and Misdemeanors, la tragedia può verificarsi anche per difetto. Un delitto senza castigo, un senso di colpa che stinge pian piano, il senso di sopravvivenza che ci spinge ad andare avanti nonostante tutto, basta che funzioni. L’atroce banalità tra i poli dell’amore e della morte. Fa venire i brividi che l’ultimo capoverso della commedia umana a firma Allen, l’enciclopedia pratica delle nostre scelte e dei nostri errori, sia un appello a non pensarci troppo su. A fingere di non sapere.

E allora meglio non pensare a Coup de chance nei termini di un ultimo film. Magari, come è capitato a Polański, anche Allen troverà finanziamenti inattesi in Svizzera, Francia e Italia, e nei titoli di coda il produttore Luca Barbareschi lo ringrazierà a chiare lettere. Magari ci scappa un secondo film romano: Mezzanotte a Monteverde. Magari dal cassetto esce uno script newyorkese a cui nessuno, nemmeno Mia Farrow, può dire di no. Anche se è finita davvero la commedia, com’è finita la relazione tra Alvy Singer e Annie Hall, irrazionalmente si vorrebbe continuare, desiderare l’opposto di quello che i fatti ci dicono da troppo tempo, come col fratello pazzo che crede di essere una gallina ma che ci rifiutiamo di spedire in manicomio perché ci servono le uova. Woody Allen è lo psichiatra a cui raccontiamo, tutte le volte, questa nostra storia di famiglia.