Rambo è un cane

Essam Omar in Al bahs an manfaz i khoroug al sayed Rambo (Seeking Haven for Mr Rambo, 2024) di Khaled Mansour.

Dick Laurent is dead. Incenerito, DL, da centinaia di migliaia di sigarette, stecchito da un’aria incendiata di gennaio che l’ha costretto a lasciare le mura domestiche. Quelle che si vedono, sempre uguali, nei clippini caricati giornalmente durante la pandemia. Persino nei panni di John Ford lo si vede aggrappato a un sigaro come a una mammella. Per capire la fisarmonica dei suoi tentativi di smettere basta leggere quanto scrive Emily Stofle nel memoir lynchiano Room to Dream. Ma non son certo qui a fare la morale o facili battute sulla cretineria ipocrita della meditazione di ‘sta cippa. Come tanti, la cesura del 16 gennaio è valsa come una rasoiata nell’occhio, uno spartiacque che fa male e trasforma le visioni, finora, salvifiche, in un’opera chiusa, riguardabile sì all’infinito, ma senza più margine di espansione. Questo fa male. Così come fa male ripensare agli anni dopo l’urlo belluino di Carrie Page. I clippini, la fine dei clippini, l’emergere di un nome in codice soffiato dal vento – Wisteria – e la conferma che esistono tredici sceneggiature originali per una serie, probabilmente episodica, un decalogo+3 di narrazioni libere e sfrangiate, intitolata Unrecorded Night. Serie picciata a Netflix che causa covid, e causa enfisema, in pratica ha detto un no-grazie nella forma di una procrastinazione alla calende greche. O meglio, ad sepulcrum. Insieme al progetto del film di animazione Snootworld, questi testi sono l’unico, vero punto interrogativo residuo nell’opera di David Lynch. Che vengano pubblicati, e lasciati in pace come uno spartito insuonabile.

La vera fine dei clippini non coincise col dicembre 2022 e l’uscita di The Fabelmans. Nel 2024 Lynch ha riattivato il suo teatrino nel radiatore di youtube. L’ha fatto per recuperare un vecchio Interview Project (2009) teleguidato, una sorta di appendice on the road a The Straight Story, e promuovere un nuovo disco collaborativo. L’ultimissimo di questi video casalinghi rippa e ridoppia Detour (1945) di Ulmer, chiudendosi con una formica fulminata mentre canta Row Your Boat. Immagine, questa, proposta come schermo di computer con tanto di barre ben visibili del software di editing. Formiche animate alla meno peggio… Era già capitato nell’ottavo e ultimo episodio di Dumbland (2002), che insieme a Rabbits costituì il materiale clou del sito davidlynch.com negli anni eroici di internet. Le formichine in flash cantano, ballano e s’infilano nel gesso dell’energumeno protagonista, facendolo urlare belluinamente. Belle fini lynchiane, quelle con urla belluine. Titolo del clippino del luglio 2024: Will There Be Anything Else?

And now for something completely different. Quando eravamo ancora al Cairo abbiamo visto un gran bel film. Si chiama – titolo internazionale – Seeking Haven for Mr Rambo, è passato al Lido nel 2024 e per quel che mi riguarda è il primo film egiziano di una certa levatura dai tempi di Yacubian Building (2006) di Marwan Hamed, tratto dal romanzo di Alaa al-Aswani. Meravigliosamente bagnato da Ahmed Tarek Bayoumi in una luce urbana verdastra, bluastra, notturna, che mischia la sabbia e le luci al neon, il film è una sorprendente storia animalista in un paese dove il randagismo è ancora molto visibile. Il protagonista Hassan (Essam Omar) vive con la madre (Samma Ibrahim) in una modesta palazzina il cui proprietario unico è il brutale meccanico Kareem (Ahmed Bahaa). Questi vuole dar loro lo sfratto e arriva alle minacce fisiche, quand’ecco che il cane di Hassan, Rambo, lo azzanna alle palle. Kareem chiede soddisfazione e pretende di avere la bestiola – per ucciderla. Hassan si tuffa in un’odissea cairota allo scopo di trovare, appunto, un porto sicuro dove lasciare Rambo. Ad aiutarlo interviene la ex fidanzata Asmaa (Rakeen Saad). Sceneggiatura ridotta all’osso, trascurabilissima, eppure la resa è sorprendente. Il regista Khaled Mansour conosce il Cairo come le proprie tasche – da sempre piene di spiccioli e non di verdoni – e il suo occhio per le location, la messa in scena e l’empatia nei confronti dei personaggi crea una favola contemporanea capace di strappare lacrime e stupore.

Tanto per cominciare, Seeking Haven for Mr Rambo ci restituisce il Cairo com’è oggi, nel qui e ora, nella realtà non sempre garbatissima dei suoi angoli e delle sue situazioni sociali. L’azione si svolge sia negli slum, sia tra le villette di Zamalek, passando per il centro malfamato di Downtown e spingendosi fino alle autostrade nel deserto che portano alla nuova capitale, orlate di tralicci degni della Part 18. Si vede anche un cimitero (abitato), teatro di una rarissima scena di sesso per la cinematografia egiziana. Niente di grafico, per carità d’allah, ma il cattivo si porta comunque l’amante Zuzu fin lì in un suv per consumare in auto, e lei nota che il morso di Rambo ha lasciato delle tracce evidenti. Una situazione al limite della censura, così come i molti momenti eroticamente tesi tra Hassan e Asmaa – ora impegnata con un altro uomo – anche se queste strizzate d’occhio a base di sguardi languidi e magliette (maschili) tolte possono benissimo rientrare in una forma di soft porn consentito e commercialmente spendibile. Comunque notevole il fatto che il nuovo fidanzato di lei sia un uomo divorziato con figlia, peraltro simpatico, che non vede in Hassan una minaccia. Qualche stonatura qui e là. L’attore protagonista è molto noto, e molto palestrato, tant’è che resta a petto nudo più spesso di quanto ce ne sia realmente bisogno. Al cane, che ama fortissimamente, dà anche della roba dolce, un errore che qualsiasi canaro non farebbe. Durante una scena evidentemente girata senza bestiolo sul set, Rambo “dorme” ma non reagisce in alcun modo a un bicchiere che cade e si rompe. Impossibile, anche perché l’inquadratura abbraccia uno spazio piccolo. E la sottotrama che vede Hassan recuperare, e digitalizzare, una vecchia audiocassetta con registrazioni paterne, s’infrange contro il fatto che l’uomo, angelicato nel film, abbia abbandonato la famiglia senza alcuna spiegazione. Possiamo chiamare buona parte di queste dissonanze “incrostazioni di patriarcato”. E fino a qui, contando l’aria che tira a livello planetario, tutto bene.

Il meglio arriva quando il Cairo assurge a personaggio, e la fuga di Hassan & Rambo reca i tratti di una spirale infernale. Now it’s dark. Facciamo visita a un’area periferica dove si svolgono combattimenti tra cani, una sequenza forse troppo breve non per i combattimenti in sé (per fortuna lasciati sullo sfondo) ma per la cricca umana che s’intravvede. Quello che sembra un idilliaco santuario-pensione si tramuta in un incubo con un’apparizione-lampo del cattivo (cattivissimo, in questo senso bidimensionale) armato di pistola e con la schiuma della vendetta alla bocca. Hassan cerca rifugio – per sé – in una moschea buia che sembra un bagno pubblico, e invece di inginocchiarsi si stende a terra e inizia nevroticamente a grattare col coltellino le lettere restanti della sua divisa da guardiano notturno: S CU ITY. Lo scontro finale tra Hassan e Kareem, tra una chiave inglese e un falò, ha un che di ancestrale.

Il lieto fine non c’è. Il rifugio trovato per Rambo farà di lui un migrante d’oltreoceano destinato a spassarsela bene sradicandosi però dagli umori pulsanti della vita cairota, e dall’amore di Hassan. Una metafora tragica sull’abbandono della propria terra, qualunque essa sia. Hassan e la madre finiscono randagi tra i randagi, anche perché – dettaglio non ozioso – nessuno di loro ha cercato un’altra soluzione abitativa malgrado le evidenti minacce di Kareem. L’intero film si fonda sul salvataggio di un cane che tutti vorrebbero morto pur di placare la furia di un energumeno senza scrupoli. Anche da questo punto di vista il film di Mansour è una favola visionaria, con i personaggi tagliati con l’accetta e una prima immagine – iene che si scannano sullo schermo di una tv digitale – assorbente e ipnotica come la neve di un canale che non esiste.

Al bahs an manfaz i khoroug al sayed Rambo si conclude con un classico nubiano cantato da Mohamed Mounir, albero di limone. E così finisce anche questa orecchia recisa, trovata e speleologicamente adoperata.

زار

[Mahmoud Mokhtar, Serendipità, bronzo, 1926]

Il titolo si legge zar, con la zeta dolce, ed è musica da esorcismi. Ecco una delle belle cose che ho scoperto stando al Cairo dai parenti per un paio di settimane a cavallo di Capodanno. Io e il mio djnn l’abbiamo ascoltata in estasi.

Quest’anno al Cairo ho scoperto le passeggiate come antidoto al traffico infernale o al ricorso decadente agli Uber, che hanno costi irrisori ma sempre nel traffico ti schiaffano, con tutto quel codice morse di clacson e strepiti, le corsie in moltiplicazione libera come gremlins, le carrozzerie tanto graffiate da sembrar zigrinate, i bus aperti col tipo in pedana che grida la destinazione. Ogni tanto si vede una bici, sgangherata ma furba, zigzagare in questa bolgia ballardiana. L’idea tutta tedesca delle biciclette high-tech, o quella tutta hipster dei monopattini, sono fortunatamente inapplicabili. Per due settimane ho dimenticato l’esistenza stessa di quegli assurdi veicoli urbani che giacciono riversi, nottetempo, nelle nostre città esangui. Il traffico, al Cairo, non si ferma mai e non guarda in faccia a nessuno, ma se riesci ad attraversare la strada è fatta. Dopo è bello costeggiarlo quasi fosse uno Stige, tu al sicuro sul marciapiede sbriciolato costellato di negozi, la fiumana di persone, le galabeya guizzanti.

Camminando camminando siamo andati a visitare il museo dello scultore Mahmoud Mokhtar, considerato il più importante dell’Egitto moderno. Situato nelle propaggini dell’isola (di cemento) di Zamalek, quindi centralissimo, quando ci siamo andati eravamolo solo noi. Fuori, il consueto giardinone accogliente, con statue sparpagliate e qualche gatto (sì, i gatti egiziani hanno un taglio degli occhi faraonico). Solita trafila all’entrata, valida in tutti luoghi di cultura, per distinguere – più a occhio che a orecchio – i locali dagli stranieri e spremere un po’ di più questi ultimi. Va bene. Malgrado le dimensioni modeste dell’edificio, la collezione impressiona. A cominciare dalle rappresentazioni femminili, quasi astratte in forma di divinità, più terragne e sanguigne nell’affrontare quello che era il tema principe di Mokhtar, cioè la rivalsa dell’Egitto contadino. Le sue figurine paesane spaccano.

A metà strada tra le due tendenze c’è una fissa palese dell’artista, quella per la dea della “piacevole scoperta casuale”, realizzata più volte sotto forma di una giovanetta nuda e sorridente che mostra i palmi delle mani. In uno ha una catenina con scarabeo, nell’altra l’Ankh. Il percorso museale si conclude, abbastanza alla svelta, con dei bassorilievi che spiegano come mai la fama di Mokhtar si sia subito cementata. In tutti compare Saad Saghloul (col gh che è un’erre tedesca), leader della rivoluzione del 1919 che portò all’autonomia dell’Egitto dall’occupazione britannica. È una delle figure più riconoscibili in giro per la metropoli, in quanto spezza l’immaginario faraonico con un pizzico di storia moderna. Dovrei aggiungere che a ogni anno che passa un’altra icona si sta imponendo per le strade, su cartelloni a non finire che a un italiano non possono che ricordare il 1994, ma non lo farò. Dirò solo che Mokhtar è l’artista che ha accompagnato il primo scatto di reni dell’Egitto novecentesco, prima dell’avvento del presidenzialismo di Nasser, immortalando in una statuta monumentale la sfinge (donna) accanto all’Egitto (donna) in veste di contadina fiera, pre-socialismo reale.

Nel quartiere di Downtown, quasi Garden City, si trova il mausoleo cubico che Mokhtar ha progettato per la salma di Saghloul. Dirimpetto, quello che potrebbe benissimo essere un circolo Arci. Si chiama Makan, si entra scendendo tre gradini e ci si ritrova in un ambiente intimo, quasi una cantina con soppalco, i bicchierini di tè che viaggiano su un vassoietto. Il Makan è un centro culturale che una volta a settimana, di mercoledì, propone musica zar. Ci siamo andati.

Lo spettacolo consiste in una sana ipnosi di un’ora e mezza. Gli ipnotisti, capeggiati dalla sublime Madeha, portano avanti questo genere musicale da decenni, con un ensemble principalmente femminile a cui si aggiungono percussionisti o, nel nostro caso, un giovane flautista equiparabile al membro della band reclutato per il tour. I brani durano in media dieci minuti, e ad accomunarli è un canto salmodiante – che a me, infedele e ignorante come un ciocco, ha ricordato le litanie spezzate delle preghiere udite di passaggio nelle moschee aperte, but what do I know – gettato come un manto su una marea montante di battiti d’ogni tipo, tamburelli, piattini e piattini, che alla fine tirano la volata. Questo parossismo servirebbe a liberare dal djinn la persona posseduta. Il bello è che la musica non ha una funzione punitiva, ma dionisiaca: lo spiritello e la Linda Blair di turno se la spassano alla grande, anzi l’alternanza dei brani serve prima di tutto a individuare la provenienza del djinn, per poi scacciarlo amabilmente a suon di ticchettii e semsemeya (una sorta di arpetta faraonica). All’inizio di questo video c’è l’arpa in bella vista, con due signori che ancheggiano suonando un altro strumento arcaico da non crederci: una cintura a cui è attaccata una cotta di unghie d’agnello. Da lontano sembrano cozze. Il suono sonagliesco contribuisce all’ipnosi. Ovvio, lo spettacolo del Makan non è zar vero, nemmeno i testi delle canzoni, mi dicono, parlano di djinn. A essere autentica è la cultura contadina, se non matriarcale almeno ginocentrica nella gestione del rito, da cui proviene questo genere musicale spesso maltrattato nel ricchissimo cinema popolare egiziano. Prima di deciderci ad andare ci avevano messo in guardia da megere nere e urlanti. E invece ci siamo imbattuti in una diva settantenne che a fine spettacolo aveva la fila dei selfie. L’unico turista ero io.

Aria diversa al novissimo Museo della civiltà egiziana, inaugurato nel 2021 non lontano dal quartiere di Cairo vecchio con una cerimonia che merita quindici minuti di visione. E volendo c’è anche il live stream completo di minuti centotrentatré. Il governo attuale sta mettendo in campo grandi opere: una nuova capitale accanto al Cairo, quartieri residenziali strappati al deserto (con centri commerciali ciclopici finanziati dall’Arabia) e un museo egizio uno e trino. Fino a due anni fa, il museo egizio per antonomasia era uno e si trovava – dove si trova ancora – a piazza Tahrir. Ci sono stato è quello che ci si potrebbe aspettare, ma si capisce subito che l’allestimento copre solo una minima parte dei pezzi a disposizione. Motivo per cui da anni a Giza c’è un cantiere a latere delle piramidi grande quanto le piramidi, che dovrà ospitare il GEM (Grand Egyptian Museum), nuova casa di Tutankhamon. Il museo stesso è a forma di piramide. Dall’altra parte della città, dopo chilometri di discariche ed edilizia popolare venendo dal centro, c’è lo scatolone del nuovo Museo della civiltà egiziana, circondato da palme, un laghetto artificiale e ruderi romani che nessuno si fila di striscio. Il vecchio museo, per la cronaca, si trovava davanti a quello di Mokhtar, ora vuoto e cadente con la sua scritta in francese.

Il pezzo forte sono le ventidue mummie di faraoni conservate sottoterra. Dinanzi alle quali qualsiasi ironia sbiadisce. Ci si trova davanti al corpo rinsecchito, nerissimo ma riconoscibile in ogni suo arto – mani, piedi, capelli, denti – di Ramsete II e compagnia. Sfido qualunque altra nazione a mostrare i resti ben conservati dei suoi capi di Stato di millenni fa. Al Cairo ce ne sono a bizzeffe, coi loro crani a volte spaccati da un’arma, l’interno riempito da un tessuto che sembra quello delle tendine ricce da cucina. Al Cairo ti fai una passeggiata religiosa tra i faraoni, e li vedi pure. Perché son lì in carne e ossa, senza trucco né inganno, dietro le loro teche trasparenti climatizzate. Si leggono anche le loro storie, come quella di Thutmose IV che usurpò il potere e per motivare la propria predestinazione liberò la Sfinge di Giza dalla sabbia e le piazzò tra gli zamponi una stele in cui si racconta il sogno del futuro sovrano. Al piano terra, nello scatolone dell’edificio principale, c’è una permanente coraggiosa che parte dalla preistoria e arriva all’epoca islamica. Coraggiosa perché, di fatto, con la sua scansione cronologica e spaziale equipara il mito faraonico alla religione maggioritaria da alcuni secoli. Due ambiti figurativamente diversissimi. L’Islam è pace e geometria, scrittura pura e fittissime strutture reticolari, mentre l’antico Egitto è un immaginario puntuto, essenziale nelle forme, che inventa lo scritto disegnando. In mezzo c’è un piccolo intervallo greco-romano, ininfluente.

Aggirandosi nell’enorme sala, a un certo punto ci s’imbatte in un’entrata surreale, sbarrata, che si spiega solo avendo visto la supercerimonia di spostamento dei faraoni. Un trasloco come metafora del potere. Da una visione anche distratta dell’evento multimediale che ha accompagnato i vecchi re nel loro nuovo mausoleo sotterraneo, ognuno col suo veicolo militare personalizzato come un balocco Mattel, si capisce che queste grandi manovre non sono fatte solo in un’ottica turistica. L’entrata sbarrata, ancora col logo dell’evento di aprile, dà su un corridoio usato almeno pubblicamente una volta sola, da una persona sola, che conduce all’entrata principale. Il padrone di casa accoglie i parenti. Basta guardare il video e il mistero si svela di pacca, serendipity da brividi, altro che Ankh.

sukūn

Sono stato due settimane al Cairo insieme alla famiglia da parte di madre di mio marito Yassien. Previo test prima dell’andata (cinque ore d’attesa al gelo insieme a una torma di crucchi in fuga per le feste), e ora quarantena spezzabile dopo cinque giorni mediante nuovo test. Misure sensate, di fatto una tassa sui viaggi in tempi di reclusione. Tra pochi giorni a Berlino scatterà il divieto di allontanarsi da casa oltre un raggio di quindici chilometri. Il mio pensiero vola istintivo verso gli scaffali delle biblioteche bolognesi che dovrei consultare entro metà marzo. Ma scavallato il duemilaventi, come dire, non farcela non è un’opzione.

Al Cairo c’ero già stato tre giorni a metà febbraio, visita lampo volta a supplire alla festa di matrimonio a Funo di Argelato (sì, Funo di Argelato) andata a carte quarantotto. L’allarme corona era agli albori, nella pura forma di una paura montante priva di qualsiasi evidenza scientifica. Ricordo di aver giudicato alla stregua di fifoni con l’alluminio in testa le prime persone mascherinate viste all’aeroporto. Tre giorni fulminei, quelli, in un maelstrom di lavoro ed entropia durante i quali riuscii a vedere le piramidi, andare al Museo egizio e vedere la struttura ciclopica di quello nuovo, beccarmi un avvelenamento alimentare epocale e stringere finalmente la nonna di Yassien. Non mi azzardai ad attraversare la strada da solo, visto il traffico ballardiano in stile Concrete Island. M’innamorai, al primo colpo, delle preghiere cantate live dai muezzin. Pure della prima, che ti sveglia al sorgere del sole come un gallo impettito.

Queste due settimane sono state familiari, non turistiche. E malgrado fatichi ancora a leggere foneticamente le parole in arabo (basta un cambio di font a spalancarmi una botola sotto i piedi), qualche passetto in avanti l’ho fatto, anche orale. Ialla. Inshallah. Il giorno di Natale ho attraversato la Doqqi St. per la prima volta da solo, diretto a un supermercato nei pressi per comprare un panettone di marca italiana venduto a peso d’oro tutankamonico. Il giorno dopo, a piazza Tahrir dove campeggia un obelisco ancora da svelare (come se non si capisse che sotto la pezza c’è un obelisco) ho imparato con le cattive che non si fanno video in quell’area, soprattutto se puntati verso una moschea e soprattutto se in quel momento gli altoparlanti stanno pompando una preghiera da brividi. Così ho dovuto fingere di cancellare il video come quella volta in Armenia che un soldato mi prese in castagna mentre immortalavo il treno sovietico da cui eravamo appena scesi, marzo 2019. L’altra sorpresa, per difetto, è stata allo scoccare della mezzanotte del nuovo anno. Niente botti né fuochi. E dire che ovunque si vedevano scritte celebrative del 2021, mentre l’anno islamico, mi dicono, è una nozione pressoché inutilizzata nel quotidiano.

Un giorno abbiamo fatto una passeggiata in un parco – l’accesso a tutti i parchi è oneroso, anche se il biglietto è risibile per chi ragiona in euro – dedicato a paladini ed eroi sudamericani. Tra le palme, i gatti egizi (razza a sé, arcana e sublime) e i cani randagi ecco piccoli monumenti dedicati a sceicchi paganti, condottieri ecuadoregni, Chavez e Gandhi. Dissonanza cognitiva ripetuta in un altro parco, stavolta nel cuore dell’isola (di cemento e privilegio) di Zamalek. Il cosiddetto Grotto è una formazione naturale a suo tempo piena d’acqua, incastonata tra i palazzoni appena sotto un edificio disabitato, la Gezira Tower, ancora una volta degno dello scrittore di Shepperton. Entrando nei suoi meandri si coglie uno squittio frenetico. Sono i pipistrelli che occupano la cupola centrale e disegnano incessanti rotte aeree all’interno di una circonferenza ben definita, sotto la quale si estende un rozzo cerchio di guano. Il tutto immerso in un labirinto di luci pseudonatalizie e vecchi diorami protetti da vetri colorati. Allargando lo sguardo, questo avviene nel centro geometrico di una metropoli di ventisei milioni di abitanti.

New Giza è uno dei nuovi progetti architettonici che dovrebbero dare respiro alla magnifica bolgia cairota. Uscendo dalla città via freeway, si supera un’area agricola con prefabbricati nudi sparpagliati nel paesaggio come mattoncini Lego senza senso – e si approda nel deserto. O meglio, nel deserto edificato. Si sale, senza accorgersene, arrivando a un plateau di villette ammucchiate e recintate, con rigidi controlli all’ingresso. Ai parchi pubblici (a pagamento) si sostituiscono del tutto i club privati all’aperto, presenti anche in città e organizzati in base alle varie fasce sociali. Le strade s’allargano, si svuotano, c’è chi guida controsenso tanto per, la prossemica umana si slabbra d’improvviso. L’unico reminder del Cairo vero, popolare, quello cantato da Mafhuz, sono i microbus che portano avanti e indietro i domestici. New Giza ha due università e un liceo giustamente intitolato ad Albert Camus, ma il livello d’assurdità aumenta allontanandosi di poche centinaia di metri, quando i cantieri iniziano a confondersi col paesaggio naturale. Qui l’orizzonte di senso diventa quello di Frank Herbert, l’orientamento si sfalda, interviene un senso di stupore e nausea. Non è caldo: è altro. Ho ingollato le mie due pasticche per il mal di testa e mi sono ripreso del tutto sono al ritorno in città.

I cieli del Cairo, coi tramonti rosati o l’ovattamento straniante dovuto allo smog. Il caos dei marciapiedi, da non confondere con la povertà. La sarabanda delle botteghe e dei sciuscià. La proliferazione urbanistica senza piani, inarrestabile. La stazione centrale, che malgrado il radicale ammodernamento continua ad agganciarsi allo straordinario film di e con Chahine del 1958. Potrei ciarlare oltre, ma mi fermo come dovrei fermarmi davanti a una parola che non riconosco, incerto sulle vocali brevi da inserire. Unire i puntini a tutti i costi, a casaccio, è controproducente. Solo il Corano riporta tutti i segni diacritici che aiutano la pronuncia. Il sukūn è un pallino che gravita su una lettera e ci dice una cosa bellissima: che va pronunciata così com’è, senza vocali. Il sukūn è il nulla.