Rosa è Rosa è Rosa

Dettaglio della copertina di Sex und Karriere (1976), ritratto di Rosa a opera di Millie Büttner

“Molti troveranno i miei film cinici e dilettantistici. Sono noto per farmi beffe dei miei attori. Il mio racconto autobiografico sarà considerato superficiale e pornografico. È schifosamente privato e proprio per questo motivo mi interessa renderlo pubblico, poiché al mondo ci sono un sacco di troie frocie e una società che crede sempre di essere migliore di loro. Non ci restano che autoconsapevolezza e orgoglio”.

Questo colpo di scudiscio è la stringata prefazione del libro-non-libro Sex und Karriere, uscito nel 1976 e inedito in Italia. Più che un libro, un catalogo egomaniaco, una filmografia completa di sinossi e specifiche tecniche per un autore attivo da meno di dieci anni, già prolifico ma sicuramente non ancora pronto per essere musealizzato. Rosa, va da sé, era di diverso avviso. Il volumetto contiene qualche riflessione sull’impatto di Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971), tuttora il suo film più influente, un’ottantina di pagine infarcite di immagini e documenti battuti a macchina di questo benedetto resoconto autobiografico steso a New York nell’inverno 1975/76, interessante solo per completisti, e il resto è una congerie di scartoffie e articoli di giornale a corredo della filmografia. Una trentina di titoli. Rosa von Praunheim è morto pochi giorni fa chiudendo un’opera inarrestabile e difficilmente scontornabile di oltre 150 film, per tacer del resto.

Tutti, nel mondo germanofono, sanno chi è e si sono sentiti a disagio almeno una volta per via delle sue dichiarazioni. Fuori dalla Germania, e fuori dalla bolla cinefila, Rosa stinge. Il primo mediometraggio che vidi, Can I Be Your Bratwurst, Please (1999), protagonista Jeff Stryker e girato in Ammeriga, è un inganno. Diverte, è camp, sembra un John Waters ripulito o un porno soft col freno a mano, ma gli manca l’energia grezza, l’orgogliosa approssimazione tipica di Rosa, che quando per un breve periodo ebbe una relazione con Werner Schroeter generò un clamoroso ossimoro stilistico. I film di Rosa sono svelti, brutti e cattivi, spesso contenutisticamente opinabili o volontariamente grossolani nella loro argomentazione. Non gli è mai interessato raffinarsi, da barricadero com’ era di un’idea di attivismo personale, fin troppo innamorato di New York (oggi si direbbe escapismo, esotismo, provincialismo puro) ma così tedesco da essere interessante di rimbalzo. La Germania ha in Rosa una figura monumentale che non tutti i Paesi hanno.

Grandioso, Rosa, lo è sempre stato nella cura della propria immagine, una sorta di Carmelo Bene del popolo, un Aldo Busi che vive sul palcoscenico del Costanzo Show. Leggendari i suoi cappelli, le sue mise da spettacolaccio del sabato sera, ma anche la nonchalance con la quale andava in giro per la Berlinale come un Holger qualsiasi (all’anagrafe è Holger), senza copricapi né colori sgargianti. Rosa c’era sempre. Rosa di Praunheim, quartiere francofortino, ha lasciato una traccia indelebile nel discorso pubblico tedesco, tematizzando la “condizione omosessuale” senza far sconti a nessuno, soprattutto a noi omosessuali, abbracciando le misure di prevenzione durante la crisi dell’AIDS in maniera ancora più radicale di chi, di prevenzione, si occupa davvero (e pestando, nel farlo, un paio di grosse merde bilanciate dalle migliori intenzioni), schiacciando il pedale sul fronte della visibilità con la sua famosa, sgarbatissima azione di outing di personaggi noti, e infine fungendo da mentore per i suoi Rosakinder – Chris Kraus, Axel Ranisch, Julia von Heinz, Robert Thalheim, Tom Tykwer. Talenti diversi che sono riusciti ad affermarsi grazie ai consigli pratici di Rosa, a partire dalla regola d’oro della messinscena: esporre, mettere in difficoltà, documentare lo scontro.

La ridda di film di finzione, documentari, ibridi, corti e cortissimi, casalinghi e a zero budget firmati Rosa è un getto d’acqua color arcobaleno con la potenza di un idrante. Ti stende, e non sai esattamente cosa ti ha steso. Mettersi lì a voler studiare tutto rischia di essere una strategia punitiva. Il suo merito risiede più che altro nell’approccio maturato in quasi sessant’anni di attività, ovvero la compilazione di un’enciclopedia vecchio stampo del’immaginario e del pantheon LGBTQ made in Germany. Scremando le molte cose girate allo specchio, come l’ultimo, inguardabile Satanische Sau, conviene leggere Rosa come un cronista che incontra un Mario Wirz sfinito ma mai sconfitto, punzecchia Ralf König, indaga il mondo della prostituzione maschile a Berlino Ovest o tenta di raccontare la biografia di Magnus Hirschfeld. Con uno sguardo, questo sì, rimasto intatto da decenni: molto occidentale (nel senso di Berlino), estremamente GLBT (con L e T minoritarie) e convinto che basti la sfacciataggine per far funzionare un film. Da avanguardia scomoda, col passare del tempo Rosa è diventato una statua equestre vivente. Forse inevitabile. E peccato che nessun*, almeno in Germania, sia riuscito a riempire i vuoti. Ma se si parla di cultura frocia, Rosa ha scritto la Treccani e se l’è cucita addosso. A noi il compito di sfogliare prendendo appunti.

Il cuore della mostra autocelebrativa allestita a Berlino Ovest sul finire del 2012, Rosen haben Dornen (le rose hanno le spine), era un fantoccio di Rosa steso in posizione da salma su fondo nero, con tre cappelli che gli fluttuano sopra a mo’ di angeli. La morte di Rosa, questo il titolo. Da ipocondriaco furente che era, tanto da fare un film sulla propria ipocondria, Rosa è riuscito a superare indenne due pandemie e a fare tutto quel che voleva, compreso un romanzo, compresi dei disegnini incorniciati ed esposti in gallerie bene. Proprio in una di queste ultime occasioni sono riuscito a parlargli, porgendogli una rosa – fornita agli avventori a questo scopo – mentre troneggiava mascheratissimo e immobile tra i suoi quadretti. Grazie per il prossimo film, gli dissi all’epoca del suo ottantesimo compleanno, sicuro che l’opera in questione esistesse già, girata e montata in quattro e quattr’otto, pochi giga salvati sul desktop.

Perché Rosa von Praunheim è importante ancora oggi? Perché lo è il messaggio che conclude il suo film più famoso: Raus aus den Toiletten! Rein in die Straßen! Freiheit für die Schwulen! Basta sostituire i cessi con internet e il gioco è fatto. Battere digitalmente non è peraltro la stessa cosa di battere in carne e ossa, in un cesso o in un parco, in un locale o per strada, con le antenne dritte e il corpo che tracima sfrontatezza. Il desiderio di libertà espresso dagli anni Settanta, con la sua grana grossa, ha ormai ceduto il passo a una normalizzazione dello stigma, o a una normalizzazione del far finta di niente. Siamo tutti avatar farlocchi, asessuati, invincibili. Oggi più che mai c’è bisogno di sana, concreta audacia senza tanti fronzoli. Rosa dovrebbe diventare il metodo vincente di un nuovo attivismo da contrapporre alle forze tiranniche, ipocrite, conservatrici o, peggio ancora, pavide e indifferenti. Da rosa, come il triangolo rosa, a grimaldello (come Dietrich, Marlene).

A pagina 11 di Sex und Karriere si conclude così il breve testo intitolato Nach dem Schwulenfilm, Dopo il film frocio – correva l’anno 1976: “Il film ha cinque anni, ma è più attuale e necessario che mai. In tutto questo tempo non è mai stato girato un film sui froci che avesse un carattere emancipatorio. Solo merda commerciale come Festa di compleanno per il caro amico Harold, autocommiserativa come Il diritto del più forte di Fassbinder, che a quanto pare è ambientato solo per caso nel mondo gay, migliaia di porno stupidotti o robaccia underground à la Warhol che concepisce i froci solo come delle strane creature. Il lavoro dei gruppi è andato scemando. In America le attività si sono via via spostate dalle grandi città alla campagna, il che è molto positivo. Da noi nascono vari gruppetti di breve durata, i vecchi scompaiono. Gli eroi sono stanchi ormai: la rivoluzione non diverte più nessuno (e non solo tra noi froci). Oggi non sarei più riuscito a realizzare questo film per la televisione, sarebbe stato vietato in quest’epoca conformista. A volte penso di fare un film commerciale: una storia d’amore tra due uomini che descriva il kitsch ma anche gli sforzi emancipatori. Per i quali bisogna attivarsi, altrimenti si perde il coraggio e la voglia di insistere. Perché il lavoro su sé stessi e gli altri è faticoso, e io stesso ultimamente me la sono presa comoda, ritirandomi nel mio illusorio mondo artistico. Già, io stesso soffro per la medesima situazione inumana, il sesso anonimo, la difficoltà nel trovare il partner giusto con cui scopare ma anche parlare, una persona che io possa accettare sul piano umano e intellettuale e viceversa. Un sogno?”

Dieci cose che mi mancano dell’Italia

Tunnel con murale presso le scuole Scandellara, Bologna.

Che poi queste cose si trovano principalmente a Bologna, perché è Bologna a mancarmi dopo più di un anno di assenza. Mai capitato prima, spero non capiti mai più, ma l’accelerazione folle del 2025 ha avuto delle conseguenze, e questa, sul piano logistico, si sente. Finché Elia non ha i documenti che consentono l’espatrio siamo bloccati nei confini tedeschi, un lockdown ben diverso rispetto a quello di cinque anni fa, e stando dove stiamo (cioè a Neukölln) la prigione è dorata, di un oro maculato e grezzo. Resta il fatto, e non l’avrei mai detto, che la distanza coatta pesa, le radici tirano, certe immagini fanno capolino sempre più spesso nella mia testa. Eccole qua.

I martinetti dell’aeroporto Marconi. Cos’è casa? Atterrare, scendere dalla navetta e riversarsi con lo sciame di passeggeri nell’area dove faranno circolare i bagagli su una striscia di gomma. E lì, in azione ovunque su spazi pubblicitari bilingui, ecco martinetti, stantuffi e altre diavolerie prodotte dal polo industriale emiliano. Le réclame più turistiche e culinarie non mancano, del resto Bologna è ormai la capitale del mangiar molto e la metamorfosi adattiva verso gli spaghetti bolognese è a buon punto. Se ci vogliono così, diventiamo così. Però è stupefacente che il benvenuto ufficiale sia dato da una congerie di pezzi del Meccano che fanno su e giù immersi nell’acqua, dai nomi misteriosi in qualsiasi lingua. Continuo a non sapere cosa sia un martinetto, eppure martinetto significa che se vado al bar il caffè è buono.

Il bar DiVino di via Massarenti. Un bar all’angolo su una strada trafficata, attaccato a una pompa di benzina. Gestione cinese e sì, dopo anni e anni continuo a non ricordarmi il nome della gestrice. Tv sempre accesa sui canali Mediaset, Repubblica e Carlino sparpagliati e mischiati sui tavolinetti, brioche basiche, uno stanzino buio sul retro pieno di slot machine. È il bar più vicino in linea d’aria alla casa dei miei, quello dove inizio la giornata se sono a Bologna, dove a volte incontro gli amici delle elementari per fare il punto e lasciarsi andare a chiacchiere da bar. Quando a inizio marzo 2020 scendemmo in auto e lo vedemmo chiuso appena sbucati dalla uscita 11 della tangenziale, capii che l’apocalisse era imminente. Il bar DiVino ha orari da grande stazione ferroviaria e non conosce Natale. Sta lì, con le sue sedie fuori per godersi il traffico della Massarenti, e incarna lo spirito del luogo.

Il grattacielo di San Vitale. Londra ha il Centre Point, New York l’Empire State Building, Berlino il Fernsehturm… e noi, noi ragazzi di quartiere abbiamo questo palazzone svettante costruito a cavallo degli anni Sessanta, con le due facciate di un bordeaux lurido corretto verso il rosino grazie alla recente ristrutturazione. Esattamente trent’anni fa, durante una partita di pallone rubai le chiavi del portone e della porticina che conduce alla terrazza sul tetto (per tacere della scala che sale fino alle antenne) dalle tasche del mio peggior nemico, che ci abitava, copiandole in fretta e furia alla ferramenta del centro commerciale Pianeta. Tutto pur di girare un segmento di questo corto, godersi ogni tanto il panorama riflettendo sulla vita – e fare bravate irraccontabili. Ancora oggi, il grattacielo è sinonimo di architettura identitaria, malgrado la concorrenza della Torre Unipol a un tiro di schioppo.

Le Scandellara. Ci ho fatto le elementari e l’ultimo terzo delle medie, ma questo universo contadino fatto di collinette e prefabbricati danesi, adiacente a campi coltivati e tagliato dalla tangenziale, è un ricettacolo di leggende urbane che vanno ben oltre le nostalgie scolastiche o i fine settimana trascorsi al seggio. Negli anni Ottanta le ricreazioni nell’erba terrorizzavano i genitori all’erta per siringhe & co., negli anni Novanta il centro musicale ha visto crescere band schitarranti, tuttora resiste una squadretta di calcio con tanto di signor campo, e non mancano percorso vita, stagno dei ranocchi e tunnel misterioso che collega quest’area verde a quella più ampia del parco di via Larga. Odin ci ha scorrazzato molto. È un idillio birichino.

I box delle biblioteche con i fumetti dentro. Questa non è un’esclusiva bolognese, anche se in testa ho i mobili allestiti per l’uso alla biblioteca delle Scandellara e in Sala Borsa. Dei vani cubici con uno sportello che si apre verso l’alto, contro il quale è appoggiato un numero a caso di una testata, per far capire che lì dentro troverete, che so, Martin Mystère. Ed ecco, alzando l’anta, una pila di Martin Mystère, una trentina di numeri nulla più, con quelli più vecchi che finiscono via via in magazzino o nel cesto a offerta libera dei libri espulsi dal catalogo. Ogni biblioteca ha i suoi box, di solito Tex e Zagor non mancano, magari anche Dylan, più qualche non bonellide e riviste tipo Focus. I numeri arrivano con qualche settimana di ritardo rispetto all’uscita in edicola, e per chi segue le testate con prudenza questo sistema è grandioso per tenersi al corrente. Io ad esempio è da un anno e passa che mi chiedo, come sarà Sette vite (DYD 458), col ritorno del gatto Cagliostro? Baggianata o chicca di continuity? Se faccio in tempo becco l’albo in uno di questi cubicoli.

La fumetteria Mondi Nuovi a Casalecchio. Se si salta l’edicola e le biblioteche hanno già smaltito l’articolo, o ci si svena acquistandolo da Alessandro Distribuzioni, o ci svena accattandolo on line, oppure si tenta la fortuna in questo sublime luogo fuori dal tempo, rimasto identico da più di trent’anni tant’è che quando l’ho rivisto per puro caso a covid finito ho pensato di avere le traveggole. Mondi nuovi, col nome che rimanda alla vecchia rivista di fantascienza ballardiana diretta da Moorcock, è una fumetteria come dev’essere una fumetteria. Polverosa ma ordinata, con un impatto da bottega del signor Coriandoli (o da negozietto che spaccia Mogwai) e la certezza che il proprietario sa di cosa parli quando racconti la tua Cerca annosa di un vecchio speciale di Ken Parker. Fumetti in fila, fumetti a pile, una scala di legno verso un soppalco popolato da tascabili arricciati, qualche poster antidiluviano e la clientela fissa che discetta sulle differenze stilistiche tra Claudio Nizzi e Mauro Boselli. Da fuori, col canale a due passi, sembra un magazzino di cianfrusaglie destinate alla discarica. Probabile che anche la biblioteca di Alessandria dei tempi antichi desse questa impressione.

Il cinema Modernissimo. Potrei insistere con la nostalgia muffa parlando del cinema parrocchiale Tivoli, dei suoi poster ingialliti all’entrata con Woody Allen e John Wayne, dell’odore industriale identico da decenni e della pausa popcorn imposta in barba a qualsiasi moderno standard di proiezione, ma il Modernissimo è davvero il colpo da maestro di quella superpotenza mondiale chiamata Cineteca di Bologna. Centralissimo e sotterraneo, tant’è che per arrivare alla sala storica si attraversa un sottopasso riqualificato con tanto di cimeli neorealisti e programmazione esposta su un tabellone ferroviario, il Modernissimo è una caverna platonica nel senso buono del termine. Ci si arriva passando davanti al dipinto originale che divenne il poster di Amarcord, ci si ritrova in una specie di vecchio teatro liberty di vaudeville con platea e galleria, i posti in platea sono morbidi, vellutati e rossi e sullo schienale di ciascuno c’è il nome di un cinematografaro. Finire cuciti su una sedia del Modernissimo è come avere una placca sul Mur des cinéastes di Lione, nell’area della fu fabbrichetta dei fratelli Lumière. Sogno autistico da realizzare un bel giorno: ricostruire su un pezzo di carta tutta la platea con i nomi scribacchiati in calligrafia da medico curante.

L’ex ristorante Benso in Vicolo San Giobbe. Nothing to see here. O almeno, non il ristorante, che in quanto tale non esiste da più di quarant’anni. Benso fu gestito dai miei nonni paterni fino al 1982 in un vicolo losco del pieno centro di Bologna, tra la galleria del Credito Romagnolo e via dell’inferno, parte del ghetto ebraico nonché noto concentrato di bordelli fino alla legge Merlin. Fino a pochissimi anni fa il vicolo era davvero losco e impregnato di piscio, un pericoloso cul de sac a cui il comune ha recentemente posto rimedio aprendo l’accesso verso via Oberdan. Dicono che ora Benso abbia riaperto, con menu a misura di turista giapponese. Quel che conta è che la vecchia scritta sul muro ci sia ancora. C’è ancora?

La fontana d’Africo a Vidiciatico. Basta Bologna, ora Appennino tosco-emiliano, altitudine 810 metri and counting, a pochi tornanti dal Corno alle Scale. Questa fontana in realtà è una fonte che sbuca copiosa dalla roccia, un fascio d’acqua gelida e tonificante che conferisce a questo angolino tra paese e bosco di conifere netti tratti heideggeriani. C’è anche un altarino della madonna con fiori e agende, tante agende piene di dediche e suppliche. Fin da bambino c’ho scritto un sacco di birbonate, non sempre, a seconda del livello percepito di cattolicesimo interiore e quindi di vana ribellione. Al cattolicesimo non si scappa. La cosa bella di queste agende gonfiate dalle intemperie è la calligrafia, spesso incerta e tremolante, la firma di chi deve poter sperare. Impossibile non farlo bevendo quell’acqua.

Il saliscendi romano. L’ultima volta che siamo stati in Italia risale al dicembre 2024, un anno fa, a Roma per la fiera del libro a casa di amici. Roma è l’unica città che mi manca davvero oltre a Bologna. Non ci ho mai abitato, le mie permanenze sono sempre state rapide e strumentali. Eppure, anche da avventore, tutte le volte mi parte il Kopfkino e penso a come sarebbe viverci. Di Roma non ha senso azzardare una lista di cose, di posti, sarebbe ridicolo, allora mi limito all’obliquità delle passeggiate tra un colle e l’altro, il saliscendi ad esempio che va da San Giovanni di Dio a via Fonteiana, nel cuore di Monteverde. Poco importa se ci si arrampichi sul Gianicolo, sul Quirinale, o si scenda per via Nazionale appena usciti da Termini. È la sensazione di spostarsi su un piano inclinato, serpeggiando tra negoziacci che vendono calendari con preti belli (e finti, scatti dei primi anni zero). Poi anche il pianeggiante ha il suo perché, come via XX settembre che porta alla magnifica assurdità architettonica di Porta Pia. Quando mi avvicino alla facciata michelangiolesca mi torna sempre in mente San Domenico, a Bologna, con le sue tre statuine del Buonarroti ficcate nel guazzabuglio dell’Arca. L’angelo reggicandelabro, criticato dagli esperti per il panneggio virtuoso e tronfio come plastica fusa, sta lì ad altezza d’uomo col piede sinistro consunto da epidermidi e baci. Fate una cosa per me, voi che siete a Bologna: non toccatelo.

Il bar del centro civico Corticella, in via Massimo Gorki.

Melle

Elaborazione grafica delle copertine di Die Welt im Rücken (Rowohlt, 2016) e Haus zur Sonne (KiWi, 2025).

Tra i segreti meglio custoditi della letteratura germanofona contemporanea c’è il fatto che Thomas Melle è un genio a corrente alternata. Non perché sia bipolare, diagnosi devastante che alimenta la parte migliore della sua bibliografia, ma per il semplice motivo che ci sono libri belli, bellissimi con la sua firma e altri, non brutti ma trascurabili, con la medesima firma. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché i libri bellissimi sono ancora inediti in Italia. Qui parlo di due di questi, libri gemelli grondanti sofferenza e speranza, si chiamano Die Welt im Rücken (il mondo sul groppone) e Haus zur Sonne (la casa esposta al sole). Entrambi arrivati nella cinquina del Deutscher Buchpreis, e magari “Haus”, quest’anno, ce la farà, scaraventando il buon Thomas su un bel numero di scrivanie non tedesche.

Quando partecipai all’Internationales Übersetzertreffen nel 2017 all’LCB berlinese, il titolo di quella settimana di workshop e networking traduttivo era proprio Die Welt im Rücken, con Melle ospite d’onore. Mi innamorai durante la sua lettura a voce alta di alcuni passi, con un finale da singhiozzo. Gli dissi che era riuscito a canalizzare un’idea non facile, a tratti impensabile come la morte, cioè la convivenza con una patologia cronica, anzi più che la convivenza un abbraccio incondizionato, compresa la militarizzazione – in senso buono – della malattia in forma di letteratura. Mi lasciai andare a un paragone con gli inizi dell’hiv, in testa più il blu jarmaniano che un qualche corrispettivo letterario. Ricordo la bocca secca alla fine del mio intervento. Melle annuì, mi firmò la copia, ed eccola qui, sulla scrivania, riletta di fresco per prepararmi alla Casa al sole.

Il prologo del Mondo sul groppone recita: “Ich möchte Ihnen von einem Verlust berichten. Es geht um meine Bibliothek. Es gibt diese Bibliothek nicht mehr. Ich habe sie verloren”. Dopodiché, con questo gancio nelle carni, non c’è modo di appoggiare il libro prima di pagina 348. Sempre che apprezziate gli ottovolanti. Perché se siete tipi apollinei da ecfrasi perenne no, Melle non fa per voi. Melle strattona, parte per la tangente, cade e riparte in quinta, spiazza e irrita, poi ti viene vicino e ti sussurra all’orecchio, ti commuove, e riparte, e rispiazza, e buonanotte ai suonatori. Il secondo capitoletto parla di quando ha fatto sesso con Madonna e Björk in quel di Kreuzberg, ovviamente nella sua testa, poi si salta al 1999, un altro balzo fino al 2006, al 2010, pezzi di diario, discettazioni musicali à la Nick Hornby, tanto internet, tanto riflettere sulla comunicazione in internet, aneddoti da far tremare i polsi, pensieri seri sulla malattia, altri rapidi e fuori controllo come una pallottola in uno scantinato pieno di tubi. Non tutto il romanzo tiene, ma è il carburante che lo anima a essere unico, più che nel suo genere (“ibrido”, “anfibio”, cose che sappiamo già) nella sua voce, quell’alchimia misteriosa che trasforma un libro in un auricolare con le tue iniziali sopra.

Die Welt im Rücken è un testamento sulla bipolarità, una preghiera scaramantica per farla finire schiaffandola sulla pagina. Per salvare non solo la propria biblioteca, ma tutto il resto – oggetti, salute, relazioni, reputazione – che finisce regolarmente maciullato dalle fasi di Raserei, quando la mania imperversa e tutto straccia, tutto consuma, anche il tempo. Anni interi di mania. Capitoletto 41 della parte sul 2010, testo: Bin ich nicht. Capitoletto 42, testo: Und wenn Sie wüssten, was da vorher stand. Eccezioni in un romanzo a cuore aperto che non teme di affrontare i temi in profondità, siano essi l’autodistruzione o la passione per Trent Reznor. Un romanzo berlinese, quello di Melle, insieme a David Wagner uno dei pochi capaci di trasmettere il senso di Kiez, di vita oscillante tra rione e metropoli che da sempre contraddistingue il paesone sulla Sprea.

A pagina 140, capitoletto 5 della parte sul 2006, si parla della Haus zur Sonne, idea di Melle per uno spettacolo teatrale (una delle sue occupazioni fisse). Questo è il germe del romanzo uscito poche settimane fa, il secondo dal 2017 dopo il dimenticabile Das leichte Leben (KiWi, 2022). Dimenticabile, trascurabile, come mai? Perché nella Vita facile Melle trama a tavolino azzardando una critica sociale con punte di maledettismo del tutto inefficaci. Funziona meglio, invece, un altro suo romanzo-romanzo, cioè 3000 Euro (2014), che parla di come un deficit finanziario – quello del titolo – riesca a far ruzzolare il protagonista ai piedi della piramide, rischiando di non rialzarsi più dai margini. Più che un plot di finzione pura, un’ipotesi fondata su esperienze vere raggranellate durante le manie. Anche Haus zur Sonne è fondamentalmente fiction, ma questa finzione narrativa si installa nel dispositivo ibrido di Die Welt im Rücken. Quindi sì, è un secondo libro dedicato alla sindrome bipolare, con episodi e riflessioni di un narratore in prima persona che può solo essere Melle. Lo scollamento con quella che possiamo chiamare realtà si verifica però alla prima pagina, quando il protagonista riceve una busta azzurrina e scintillante contenente la risposta positiva da parte della Haus zur Sonne. Una clinica per suicidi.

Come si sono affrettati a scrivere alcuni critici letterari tedeschi, nel libro c’è un lieto fine e dirlo non è uno spoiler. Sia pure psicosi delle ore 4:48, ma il sole sorge ancora. In effetti, Melle ci risparmia il bizzarro corto circuito provocato dalla eventuale dipartita del suo personaggio. A contare davvero è comunque la sua abilità di rendere credibile la rampa della trama, ovvero la decisione incrollabile del protagonista di farla finita – perché la malattia sta vincendo, le preghiere non sono servite, la prossima mania rischia di essere, se non l’ultima, insostenibile quanto a perdite, vergogna, depressione. Ecco allora che il libro decolla, con enorme coraggio, da dove eravamo rimasti col Mondo sul groppone, replicando almeno in parte quella struttura composita, e approda in una clinica fantascientifica, peraltro sovvenzionata dal Bund, che tratta coi guanti i suoi ospiti accompagnandoli fino alla Fine. Non mancano incontri clou tra i corridoi pulitissimi, e somministrazioni di sogni a occhi aperti fondate sui desideri dei pazienti. Un po’ Arancia meccanica, un po’ Qualcuno volò sul nido del cuculo, Haus zur Sonne è una mossa letteraria sul filo di lana con la cazzata sempre dietro l’angolo, salvata in corner dal serbatoio empatico di Melle, dalle cose vere, e da un finale non clamoroso sulla carta ma entusiasmante a leggersi. La vita va avanti.

“Das hier – wirklich weg?” si chiede il protagonista a pagina 244, prima crepa seria nel progetto di ammazzarsi per via istituzionale. Haus zur Sonne è un portentoso breve invito a rinviare il suicidio, senza argomenti giudicanti o sbandate retoriche penose. Il tema viene preso sul serio – e chi ha letto Die Welt im Rücken crede subito alla volontà del protagonista – e altrettanto seriamente viene sviluppato passo passo, firma dopo firma, colloquio medico dopo colloquio medico, finendo per “scegliere la vita”, come direbbe Renton, ma sapendo bene che la vita è tutt’altro che una casa baciata dal sole. Del resto, se così fosse, sai che noia. Ed è questo che rende così speciale Melle. Non l’attrazione per l’estremo, il provocatorio, il cinismo houellebecquiano, bensì un’accettazione dolorosa, assoluta e a occhi spalancati della condizione umana. Fragile, autodistruttiva, malata, geniale, e vivaddio.

[Di Thomas Melle in Italia è uscito solo Sicario (OR. Sickster) nel 2015, ed. Fandango, trad. Fabio Lucaferri].