przygoda na uniwersytecie

Wooooow!

All’università, insieme alle mie compagne di corso, ho lanciato un blog dal titolo Polska nad Szprewą – la Polonia sulla Sprea. Lì parlo del festival cinematografico berlinese FilmPolska, della libreria antiquaria di Álvaro, del film Possession (1981) di Andrzej Żuławski e del monumento ai caduti antifascisti polacchi situato nel Volkspark del mio quartiere, Friedrichshain. Il blog è in polacco. Da qualche giorno ho in tasca il livello B2.

L’idea folle di tornare all’università, matricola, lezioni e tutto, a quaranta e passa anni – ormai più cinquanta che quaranta – la ebbe mio marito nel gennaio del 2021. Da un lustro ormai frequentavo le lezioni di polacco della Volkshochschule, con un’insegnante turbo appassionata di James Bond e Peaches. Formalmente ero già al B e qualcosa, ma mi mancava la pressione adrenalinica di un esame vero da sostenere. Sapevo peraltro che non avrei mai superato un esame orale. Le lezioni erano poco frequenti, informali, di fatto hobbistiche. Una delle prime cose che imparai il 10 ottobre 2015, prima lezione di polacco e giorno in cui incontrai Yassien, è che hobby, po polsku, si può pronunciare scandendo la doppia b: hobbəbbə. Un dettaglio che mi fece detonare la capa. Glielo raccontai, a Yassien, dopo meno di cinque minuti dalla nostra stretta di mano. Il resto è matrimonio.

Così, nell’estate del 2021, con la fisarmonica del coronavirus che andava allentandosi, inviai tutti gli incartamenti alla Humboldt, e attesi. Terrorizzato. All’idea che non mi prendessero, sancendo così un fallimento anagrafico insanabile. O che mi prendessero, ufficializzando un passo forse più lungo della gamba. Nel formulario ufficiale avevo chiesto di fare lo studente part-time al venticinque percento. Quando studiavo a Bologna a cavallo del millennio avevo sogni ricorrenti su esami non dati, nel senso che passavano i decenni e continuavo a dimenticarmi di darli. Un sogno ricorrente simile, maturato più tardi ma che ho ancora adesso, riguarda una miserabile stanza d’albergo condivisa col coinquilino di quando vivevo per conto mio, sempre a Bologna. Grande come un dormitorio da ostello, trasandata e col legno dei letti scheggiato, questa stanza è a mio nome da tempo immemorabile ma nessuno la usa. Ogni tanto ci torno di soppiatto per godermi questo spazio libero, sebbene inutile come gli oggetti che vi giacciono sparpagliati. Il conto aumenta, nessuno lo salda mai. Ma basta andarsene lungo una scaletta a chiocciola, abbastanza svelti da non dare nell’occhio alla reception, per rispazzare il discorso sotto il tappeto. Insomma, l’incubo di non (voler) finire progetti con scadenze precise, iniziati in preda a slancio scavezzacollo. Figurarsi adesso, con un lavoro a tempo pieno per quanto flessibile, rimettersi sui banchi.

Mi presero. Il masterplan è fare un Bachelor, in teoria di tre anni, con Slavistica (Polonistica) in pole position e Scienze bibliotecarie e dell’informazione come materia accessoria. Tradotto: imparare solo cose nuove. A due anni da questa scelta che mi ha imposto di mettere in pausa qualsiasi forma di attivismo e volontariato, ho nove esami alle spalle e sono a un terzo dello schemino. Ricordo ancora il senso di stanchezza abissale dei primi mesi, la testa fritta che dopo le 22 riusciva a malapena a giocare a sbarazzino sul letto prima di chiudere baracca. Pur avendo già studiato all’Alma mater un quarto di secolo fa, e per cinque anni, previo un esame d’ammissione a crocette che doveva battezzare centocinquanta nomi a fronte di duemila candidati stipati in un capannone della fiera, malgrado questo, e il vecchio ordinamento, e la tesi, e alcuni esami da incubo come Diritto pubblico e Relazioni internazionali, da quando studio in tedesco – e polacco – alla Humboldt mi sembra di fare l’università per la prima volta. Sarà che la memoria selettiva ha bruciato tutte le sequenze accademiche dei miei anni col villino in via Toffano a fungere da punto di riferimento della nostra setta di spietati analisti del tg4. Sarà, semplicemente, che a suo tempo avevo la sensazione di dover studiare per il pezzo di carta, mentre adesso questo lusso dadaista mi riempie di gioia. Una delle decisioni più azzeccate della mia vita.

Cosa c’è di più bello dello studio? C’è la struttura, istituzionale ma vispa, c’è il brivido della corsa al voto, c’è l’accesso a una quantità immane di conoscenza. Che non è lo stesso di una normale connessione a internet. Quando studiavo Comunicazione ottenni un rivoluzionario indirizzo mail e potei usare per la prima volta un computer connesso alla rete – occasione che sfruttai per vedere se a Nizza davano The Straight Story in anteprima europea (lo davano), per chattare col fidanzato via mirc sul canale #dadolandia, per scaricare i testi delle canzoni dei Blur e dei Queen e anche per visitare qualche pagina birichina, cosa che mi drogò d’avventura e vergogna. Ovviamente non sapevo dell’esistenza della cronologia. Oggi l’affiliazione universitaria consente di accedere legalmente a milioni di pdf, e oltre alla mail di rito, alla VPN fattapposta e a una connessione wireless valida in ogni dove (ci sia una struttura accademica) tutto funziona via moodle, una “piattaforma di apprendimento” che di fatto sostituisce dazebao, appunti, fotocopie e libri ordinati in via Petroni. Non succede quasi mai che sia necessario acquistare un testo. Le lezioni, una volta esperite dal vivo, si tramutano magicamente in versioni pdf di power point. Tutto è digitale, ordinato e organizzato alla perfezione. Con un ritmo pazzesco e un workload poderoso. Ma ordinato. E se questi commenti fanno di me un boomer, so be it.

Il progetto originario era di approfittare del “duales Studium” per domare il polacco – quindi iniziare a tradurre nella combinazione PL>IT – e avere credenziali da bibliotecario, un lavoro per cui in Prussia c’è molta richiesta. Le notifiche sulle posizioni che si aprono su Berlino le ho già attivate. Sul primo punto, per il polacco sto ricevendo una formazione universitaria che per il tedesco, imparato individualmente e crudamente più con la biografia che col curriculum, non ho mai avuto. Noi traduttrici vogliamo solo tradurre e spesso respingiamo proposte di interpretariato perché non ci competono – sebbene molte di noi abbiano eccome le competenze. Nel 2021 entrai in una saletta per il corso di polacco A2+ – primo step per chi comincia con conoscenze pregresse – e mi ritrovai per novanta minuti ad ascoltare un docente che parlava solo in polacco, a velocità di crociera, ci dava istruzioni in polacco e pretendeva da noi che parlassimo, argomentassimo, scrivessimo in polacco. E sì, leggessimo. Ma il leggessimo era, ed è, solo un quarto delle competenze richieste, funzionale alla produzione di chiacchiere comprensibili e di testi sensati oltre che ben strutturati. Quando nel corso del terzo semestre abbiamo iniziato a leggere i racconti di Tokarczuk e ho scoperto Sławomir Mrożek mi sono commosso. La Polonia non è solo croci mariane infiocchettate in aperta campagna, kaczyńskismo a palla e americanismo militarizzato. C’è una tradizione culturale impressionante che parte come minimo dai tempi di Mickiewicz e arriva intatta, oltre che poco approfondita all’estero, fino ai giorni nostri. Per farsi un’idea a colpo d’occhio dico sempre che basta guardare i poster dei film rifatti per il mercato polacco, una sorta di détournement programmatico con decenni di storia, che la dice lunga sullo światopogląd (Weltanschauung) di questo Paese abituato a mancare sulla cartina. Quanto al perché a monte, cioè perché studiare una lingua slava con sette casi e una dubbia reputazione politica, potrei raccontare di viaggi selvaggi a Oświęcim e Łódź o della distanza abissale tra Görlitz e Zgorzelec (che sono la stessa città), ma la spiegazione migliore l’ha data un nostro amico psicanalista. Polonia suona come Bononia.

In questi due anni ho imparato cose che non avrei mai detto. La meraviglia dell’Open Access, un’autentica rivoluzione copernicana nell’accesso alla scienza, pur perfettibile nel suo sistema di finanziamento, e il problema sindacalissimo, di fatto ancora intonso, della gratuità della peer review. Il portentoso ginepraio di RDA, il sistema internazionale di catalogazione bibliotecaria vigente da alcuni anni – un set di regole in costante sviluppo. La trascrizione fonetica, quanto di più lontano dal mio approccio visivo al mondo, eppure bellissimo coi suoi simboli assurdi e la mappatura che cambia a seconda delle lingue. Non capirò mai perché una t è dentale (quindi con un ponticello sotto) davanti alle vocali o alla cappa, alveolare davanti alle alveolari e postalveolare (con un trattino sotto) davanti alle postalveolari, ma va bene anche così. Alcune cose vanno imparate a memoria, in un tunnel di ossessione e disperazione, e dopo il picco dell’esame scemano, acquistano improvvisamente senso o restano un aneddotto – come la pronuncia di hobby.

Per capire meglio il fenomeno propagandistico e culturale del socrealizm, il realismo socialista alla polacca, qualche settimana fa abbiamo guardato il film Przygoda na Mariensztacie (1953) di Leonard Buczkowski (Leonarda Buczkowskiego, il genitivo è questo). “Avventura a Mariensztat” è un finto musicarello, nonché finta commedia romantica ambientata nell’omonimo quartiere di Varsavia protagonista negli anni Cinquanta di un importante rilancio urbanistico. Per la Polonia col sol dell’avvenire davanti alla faccia era il momento di costruire in tempi record nuovi quartieri, o intere città satellite come Nowa Huta, cantata peraltro da Wisława Szymborska nella prima fase, organica, della sua produzione. La protagonista, Hanka (Lidia Korsakówna), scopre Mariensztat venendo in torpedone dai campi insieme al suo coro contadino e decide di diventare muratrice a tutti i costi – non facile, sebbene il sistema promuova ufficialmente la parità dei sessi. Ce la fa, anche se più che un trionfo delle brigate femminili il finale segna l’importanza del lavoro collettivo e la saggezza del segretario locale del partito. Nel film c’è un’esile trama sentimentale che funge da McGuffin per lanciarsi a testa bassa tra le impalcature. L’altro McGuffin sono le canzoncine, che scompaiono appena si entra nel vivo. Hanka s’imbatte in un aitante muratore, la scintilla scatta, nella folla si separano senza dirsi come si chiamano, lei lo rintraccia – il faccione del tipo compare su un manifesto dedicato agli operai più zelanti – e i due si rincorrono nel viavai di calcina e scale mobili della Varsavia in crescita verticale, incrociandosi con sorrisi smaglianti dopo una lunga sequenza affamata di desiderio. Ed eccoli finalmente insieme. Che fanno i due piccioncini? Si danno la mano. Łał!

t dentale prima di i o j, come in festiwal. santo cielo.

perché questa cosa qui delle orecchie

Sarà superfluo dirlo, ma questo è un blog. Con testi tendenzialmente lunghi. Scritti nella lingua che amo come mia madre. Commenti disattivati. Come siamo arrivati fin qui?

Le orecchie trovate nei prati erano la categoria di default del primo blog che ho tenuto con regolarità tra il 2004 e il 2008. La piattaforma sulla quale poggiava non esiste più, era bloggers punto com se non erro. Sta di fatto che durante il terzo inverno berlinese ha cominciato a perdere pezzi, ha cambiato gestore ed è schiattata. Poi è arrivato il ciclone facebook, distrazione di massa che diede l’illusione di un flipper globale, concentrato e teso come un tamburo (in realtà solo proprietario) in cui lanciare la propria vita a mo’ di sferetta e divertirsi a suonare campanelle, stendere tessere di domino e totalizzare record. Sono caduto da un pezzo di sotto, in mezzo ai braccini inerti. Pigiare tasti come Verdone in Troppo forte non fa per me. Comunque sia. Il blog si chiamava kitsch e ora riposa qui su wordpress. E’ stato a lungo il mio dazebao dove fissare cose trovate in tutti i campi, senza alcun criterio che non fosse il gusto del sublime e dell’infimo. L’orecchia abbandonata nei prati per eccellenza è quella del marito di Dorothy Vallens, rinvenuta da Jeffrey Beaumont mentre torna a casa dall’ospedale dove è ricoverato suo padre. Un ritrovamento senza senso che scoperchia mondi o almeno, microcosmicamente, accende una scintilla. Diversa in ogni testa.

In seguito al mio trasferimento in Germania nel gennaio 2006 ebbi due idee destinate a durare poco. La prima fu di creare un blog in tedesco, Unwort. L’esperimento linguistico si rivelò troppo faticoso e soprattutto poco divertente, così lo convertii via via in un bloc notes di cinema tedesco. Al che mi venne l’idea di pubblicare in ebook una Storia idiosincratica del cinema tedesco, punteggiata da film poco noti e prospettive sghembe. Erano tempi in cui Herbert Achternbusch, Roland Klick o anche solo Andreas Dresen mi entusiasmavano fuori misura. Complice una produzione contemporanea germanofona di alto livello in cui trovava spazio persino un Soldat. I faldoni coi ritagli di giornale, le fotocopie e le paginette strappate dagli opuscoli dei Programmkinos li ho ancora, e credo che troveranno sfogo su questo blog. Certo, questi appunti si sono spesso trasformati in recensioni a visione fresca, soprattutto su Indie-Eye. Gli scarabocchi di Unwort li ho cancellati e il progetto originale – che avrebbe dovuto chiamarsi Operation Kino – si è ampliato troppo, finendo per soccombere sotto altre priorità e altri interessi (la Polonia).

La seconda idea fu di mettere su un blog goliardico con gli amici Paolo Mascheri e Gianfranco Franchi. Alsangue tenne botta un anno circa, e anche se l’abbiamo tolto dalla rete (stava su splinder) l’ho salvato in locale e rileggere alcuni post fa male ancora oggi. L’idea della piccola brigata di autori ha funzionato per un po’, soprattutto quando ci si metteva a nudo raccontando ossessioni impietose, tranci di vita venuti male, ambizioni e frustrazioni. Ci scaricai tutte le mie paure di immigrato – di lusso – e trentenne allo stato brado. Vorrei ritrovare quel coraggio, che non merita il flipper. Pochi anni fa ho scritto una sorta di romanzo, Plattenblau, per elaborare un trauma. Forse anche quei capitoli, scritti approfittando dello choc e pensati per un progetto collettivo, cartaceo, che non è riuscito a trovare né forma né sbocchi adatti, forse anche quei capitoli spunteranno qua, come pelucchi in un’orecchia. Plattenbau nella sua forma definitiva ha due appendici, aggiunte in un secondo momento, che parlano della mia salvezza: l’attivismo LGBT+ e mio marito Yassien.

Il primo articolo di questo neoblog, che tanto nuovo non è, è datato 2013. A suo tempo, oltre a scrivere di cinema in rete, tenevo anche il sito di Tutti a Berlino – a scopi commerciali, per carità, ma con qualche post scritto tra le lagrime come quello sulla conquista della doppia cittadinanza. Anche “tutti” riposa ora qui vicino, nella galassia wordpress, questo posto tranquillo e ordinato. Nel 2013 ne avevo già pieni i maroni dei social network, sebbene l’idea di una ritirata in forma di blog mi spaventasse. La consideravo autolesionista. Forse, oltre a Doppler vita con l’alce, avrei dovuto leggere The Circle appena uscito. Cosa che ho fatto un mese fa, uscendone rafforzato nel mio elogio del piccolo blog. Non fortezza Bastiani (non troppo almeno), non ombelicale (nei limiti del possibile) né tanto meno concept album, con un’idea sola. L’idea è di far andare la tastiera ogni tanto dopo il lavoro, liberando riflessioni a grappolo con un minimo di disciplina. I commenti non ci sono, mi dispiace, ma chi mi vuol scrivere ce la fa di sicuro.

Infine, la Polonia. Studio polacco da quasi sei anni, alla VHS, questo acronimo bellissimo che mi ricorda le videocassette, ne ho ancora degli scaffali pieni. La qualità magnetica, organica, caduca delle videocassette, che per anni hanno costituito la mia formazione permanente, anaccademica e piratesca. Be’, è andata a finire che negli ultimi anni, oltre a scegliere di studiare una lingua slava con sette casi – mentre mio marito aspetta che impari l’arabo egiziano orale, e ha anche ragione – ho pure scoperto che in Polonia, almeno prima che cambiassero la direttrice dell’Instytut Sztuki Filmowej, di recente han fatto dei film strepitosi. Gente come Wasilewski, Smoczyńska, Matuszyński, Smarzowski, Szumowska. Quindi ho deciso di tradurre anche dal polacco, allenandomi guardando film polacchi. E magari creando una categoria tra le orecchie, Polskicz, per parlare di questo paese schizofrenico e selvaggio, che per capirlo basta guardare i poster per il mercato domestico dell’epoca socialista (dei film americani). Una categoria quadernetto dove iniziare a tradurre dal polacco, magari qualche assaggio di un romanzo inedito – con tutti i permessi del caso. Selvatiche sì, le orecchie, ma con la disciplina dettata dall’età.

Quindi su questo blog, oh venticinque lettori di numero, troverete o già trovate cose come: Carrie Page, Christian Kracht, Die Tochter des Samurai, la storia del cane pazzo, voglia di Łódź, fumetti Bonelli e scorribande cairote.

Hayati

Un anno fa, in queste ore del 27 gennaio 2020, ho portato per l’ultima volta Odin dalla veterinaria. C’era Yassien, c’erano i miei genitori appena scesi dall’aereo. Siamo tornati a casa senza cane. Odin è morto quel giorno, Giorno della Memoria, coincidenza casuale che non consente paragoni a parte, forse, una riflessione superficiale sulla tristezza di questi pomeriggi di gennaio. M’è capitato spesso di dire, in preda all’amarezza e alla disperazione, di aver ordito la sua morte insieme alla veterinaria. La verità è che nel 2018, dodicenne, il mio amore ha imboccato una strada discendente, ingiusta e inarrestabile. La vecchiaia. Parlare della morte innesca subito processi irrazionali, e io sempre creduto, irrazionalmente, che il momento di decidere della vita di Odin non sarebbe mai arrivato. Il colpo in piena notte adagiati in un letto a baldacchino è un desiderio legittimo ma ingenuo. Chi lo sa com’è morto, davvero, Kubrick? Qual è la soglia oltre la quale ha senso interrompere la vita insieme alla sofferenza? Qual è la sofferenza di un essere senziente ma muto? Quando smetto di interpretare sulla base di evidenze scientifiche e inizio a proiettare? Nell’estate del 2019 sembrava che Odin non ce la facesse più. Andammo dalla veterinaria per un consulto, e ci disse che non era ancora arrivato il momento. Il giorno dopo, la mattina presto, mi alzai da letto e andai a dormire col cane immerso nei pannolini. Per strada, durante le passeggiate sempre più brevi, cerchi concentrici e centripeti attorno a casa, tutte quelle persone che mi attaccavano bottone invocando l’eutanasia. Le ho trattate una per una a male parole, rischiando infarti. In gennaio il responso della veterinaria è stato diverso. Vedendolo che zampettava senza sosta non riuscendo a tirarsi su, ci ha proposto di addormentarlo seduta stante. Abbiamo rimandato di una settimana. Negli ultimi tempi quando lo posavo nella cuccia ogni tanto mi mordeva, un gesto stizzoso dettato dal dolore. Gli occhi erano sempre più velati di grigio. Eppure, fino all’ultimo giorno, Odin è rimasto bello, di una bellezza assoluta e dignitosa che sembrava incompatibile con la morte. Non riusciva più a scodinzolare. La muscolatura andava atrofizzandosi, portando in rilievo assurde ossa come pomelli in corrispondenza delle giunture. Mangiava sempre di gusto ma non poteva bere troppo, altrimenti la vescica già provata cedeva subito. Sarà sempre l’amore della mia vita.

Alle ore 18 del 27 gennaio 2020 l’abbiamo steso sul tavolo metallico dove ha ricevuto tutti i vaccini di questo mondo, anche per andare in Finlandia e in Ucraina. Brigitte gli ha fatto l’iniezione mentre Yassien lo accarezzava e io gli sussurravo nell’orecchio sinistro sei il mio amore, sei il mio amore. È passato un anno. Lo sogno ancora, bei sogni, e dentro di me spero di incontrarlo quando sarò morto anch’io. Sono pensieri difficili da mettere a tacere. Di recente ho riscoperto per puro caso un video assemblato da Michele nel 2018 dopo la sua consueta visita berlinese per il festival. Le immagini in movimento danno sempre l’illusione della vita, non storicizzano come le foto. Mi piace illudermi, nella certezza che Odin sia.