in bocca al lotto

Titoli di testa di Coup de chance (2023), immagine al negativo.

A dieci minuti dalla fine di Radio Days (1987), Diane Keaton si esibisce nella canzone You’d Be So Nice to Come to. Il montaggio interpola una breve scena domestica in cui Dianne Wiest, di solito in giro per locali, fa un solitario in salotto ascoltando il pezzo in sottofondo. Dopo l’ultima nota, l’inquadratura successiva resta nella balera dove Keaton si è esibita in diretta radiofonica e mostra un tavolo a cui è seduta Mia Farrow, glamorosissima, presto raggiunta da Wallace Shawn. Questa adiacenza di muse (e musi) del cinema di Woody Allen non si era mai vista prima, né è stata ripetuta fino a oggi. La speranza che esca almeno un’ultima rom-com wasp, un’ultima tragicommedia newyorkese con i volti, e le voci, che hanno reso imprescindibile il cinema di Allen nell’arco di svariati decenni è destinata a schiattare malamente. Lui stesso ha detto in più occasioni di voler radunare in un unico film, congiunture permettendo, le sue attrici predilette (aggiungendo Judy Davies alla lista). Coup de chance, ben lontano da questa prospettiva, rischia di essere l’ultimo titolo della sua filmografia.

Allen è da sempre una macchina da scrivere vivente, capace di imbastire un film all’anno (girato dopo l’estate come “untitled Woody Allen fall project”) senza eccezioni, anzi a volte con gradevoli surplus, dal 1982 al 2016. Questa sua serialità è stata facile preda della critica ogni volta che i risultati hanno deluso le aspettative, una tendenza intensificatasi nell’ultimo quarto di secolo. Rispetto ai fasti di Crimes and Misdemeanors (1989), i film alleniani degli anni Duemila mostrano l’osso sempre di più, scarnificandosi nella trama e nella messinscena, come si vede con spiazzante chiarezza in Irrational Man (2015). Se questa semplificazione sia anche un’involuzione è argomento di dibattito. Sta di fatto che dopo Midnight in Paris (2011), o volendo dopo Blue Jasmine (2013), la risonanza delle produzioni alleniane in quanto tali, cioè al netto delle tristi faccende di cronaca, ha registrato un drammatico calo. In compenso, Allen ha pubblicato di più su carta. Il memoir Apropos of Nothing (2020) è una lettura spassosa e appagante, tutt’altro che autocelebrativa, che disamina con sintetico rigore una carriera lunghissima, salvo concedere fin troppe pagine alle magagne di cui sopra. La raccolta di racconti e simpaticherie Zero Gravity (2022), che va al traino di Mere Anarchy (2007), dimostra invece due cose: il suo cassetto dei manoscritti è peggio delle braghe di Eta Beta, e quando si tratta di fiction tout court Allen ama caricare la prosa con un lessico ricercato alla lunga stancante, che poco ha a che spartire col suo istinto infallibile da stand up comedian.

Coup de chance è l’ultimo capitolo di una sparizione a rate. Woody Allen non recita da tempo, e la sua assenza fisica davanti alla macchina da presa è sempre stata un peccato. Tralasciando il coraggio, o la presunzione, di dare seguito ad Annie Hall con Interiors (1978), i film in cui Allen non compare sono un filone a sé stante, meglio se nobilitato da una solida protagonista – Mia Farrow, Gena Rowlands, Cate Blanchett – o dal ricorso a un proxy dell’autore. John Cusack in Bullets over Broadway (1994), Kenneth Branagh in Celebrity (1998), Jason Biggs in Anything Else (2003), Larry David in Whatever Works (2009), grossomodo anche Chalamet in A Rainy Day in New York (2020) e Shawn in Rifkin’s Festival (2021) “fanno” Allen al posto suo, fungendo da ingranaggi ben oliati in un tipo di sceneggiatura costante dal 1977 – con moderate variazioni e caratteri mobili. Woody non si vede dal primo episodio di To Rome with Love (2012), e non si sente come voce narrante dai tempi di Café Society (2016). Al 2016 e al suo fallimentare contratto con Amazon risale anche la miniserie Crisis in Six Scenes, una sorta di Casa Vianello con Elaine May e Miley Cyrus, al momento ultima apparizione di Allen attore. Per quanto trascurabile, la sitcom contiene almeno una chicca stellare nel terzo episodio, quando il protagonista Sidney Munsinger, scrittore dalle altalenanti fortune, menziona il proprio romanzo Let There Be Light, storia di un proctologo che trova dio nei posti più impensati.

Malgrado la rarefazione degli ultimi anni, qualche zampata qui e là s’è vista. La prima sequenza di Café society, con un sontuoso movimento di macchina che abbraccia anche Sheryl Lee, e la dissolvenza incrociata Kirsten Stewart / Jessie Heisenberg sul finale di questo piccolo dramma dall’atmosfera à la Fitzgerald. L’ambientazione a Coney Island di Wonder Wheel (2018), plastico sfavillante che raduna l’amarcord scenografica di tanti altri film. Il finale commovente di A Rainy Day in New York. Lo sberleffo bergmaniano con Christoph Waltz che conclude la sequela di “classici rifatti” in bianco e nero tra le pieghe di Rifkin’s Festival. Coup de chance sorprende sulla carta, meno in sala. Ma è già un miracolo che il film esista e abbia trovato una distribuzione in vari paesi.

Allen ha sempre detto che l’ottanta per cento del successo è dato dal “farsi vedere”, quindi dalla perseveranza unita al presenzialismo. L’altro ingrediente magico è la fortuna. E in Apropos of Nothing ribadisce di essere stato molto fortunato, a cominciare dal primo film Take the Money and Run (1969) salvato in corsa dal montatore aggiunto Ralph Rosenblum, che modificando un quinto delle scene e introducendo una musica più briosa (jazz) trasformò un mockumentary semi-improvvisato in un marchio di fabbrica. In un certo senso, Allen ha cercato di sfaccettare il proprio talento per la comicità iniettandovi sia il gusto felliniano per le mitologie private, sia i dilemmi morali in salsa quotidiana a marchio Bergman. La seconda operazione ha richiesto più anni, e più film, per funzionare davvero. Crimes and Misdemeanors amalgama alla perfezione dramma e leggerezza, lasciando un sapore amaro che Allen ha recuperato in Match Point (2005) con un supplemento di fatalismo e cinismo. Questo supplemento è la fortuna.

Nientemeno che Variety, nella persona di Owen Gleiberman, ha parlato di trilogia del “killer inside me” dopo la presentazione di Coup de chance al Lido nel 2023. È evidente che questo fosse anche l’intento di Allen: tornare alla ribalta con un film che per struttura drammatica ricorda da vicino due delle sue opere più apprezzate. Da questo punto di vista le somiglianze non mancano. Il tema della fortuna collega immediatamente Match Point a Coup de chance, così come il ricorso al fucile e, in generale, il milieu riccone – stavolta non a Londra, ma a Parigi. Sia Coup de chance, sia Crimes and Misdemeanors sono “due film in uno”, anche se il primo lo è in chiave più modesta. Se il titolo del 1989 si regge su due trame parallele che s’incrociano in chiusura mediante l’incontro casuale dei due protagonisti e il loro dialogo filosofico con un drink in mano, Coup de chance si spacca nettamente in due parti, la seconda delle quali molto più interessante. Allen non è nuovo a questi esperimenti di sceneggiatura: basti pensare alle sliding doors programmatiche di Melinda & Melinda (2004) o ai due atti di Small Time Crooks. A legare Coup de chance con Crimes and Misdemeanors è anche l’attrito stridente tra l’alta società e i criminali da lei assoldati per togliere di mezzo gli impicci. Ma mentre il classico del 1989, così come quello del 2005, scodellano un dramma assoluto quando si tratta di far fuori qualcuno, il nuovo film mette in scena l’omicidio in maniera ambigua, e i criminali sono a un passo dal diventare da strapazzo. Malgrado i presupposti neri come la pece, Coup de chance sembra optare per la leggerezza – e soprattutto non termina col cinismo trionfante, nonchalant, del villain impunito. Questo è lo scarto più chiassoso rispetto agli altri due capitoli della presunta trilogia. Il primo e probabilmente unico film francese di Woody Allen assomiglia di più a Cassandra’s Dream… o a Small Time Crooks.

Coup de chance è un film con la calza davanti all’obiettivo più che con la calzamaglia in testa. Un film filtrato, perché è un film tradotto alla radice. Leggendo “écrit et réalisé” alla fine dei titoli di testa sorge spontaneo il dubbio che manchi qualcosa, cioè “traduit par”. Si sa che Allen non parla francese, sicuramente non scrive in francese, quindi la sceneggiatura del film nasce in una lingua che è stata tradotta, adattata e consegnata nelle mani di un cast di attrici e attori francesi. Nei titoli di coda c’è una voce “traducteurs” sotto la quale compaiono i nomi di Pierre Arson e Dominique Piat, a questo punto sospettati numero uno di aver scritto le parole pronunciate nel corso della pellicola. Ma il problema della mediazione, così importante per un testo audiovisivo che dovrebbe trascinarci con dialoghi fulminanti, riguarda anche le performance attoriali. Fin dall’inizio si coglie uno straniamento, una dissonanza. Sebbene Melvil Poupaud sia impeccabile nei panni del cattivo, si ha l’impressione che manchino delle sfumature per evitare la macchietta, e la suocera interpretata da Valérie Lemercier genera nella mente mondi paralleli in cui il film è stato girato a New York con Diane Keaton al posto suo. Un esito parziale, quindi, in una direzione o nell’altra. Né abbastanza libero, né abbastanza controllato. Non si ride, non si piange, non si resta sulle spine: Coup de chance è una chimera drammaturgica senza i picchi che contraddistinguono l’opera di Woody Allen. Picchi emotivi, o anche solo punchline.

La chiave di lettura del film è offerta dalla fotografia di Vittorio Storaro, esageratamente luminosa e pavona. Il ceto abbiente cui Allen ci ha abituato è in questo caso parodia di sé stesso, Parigi oscilla tra appartamenti principeschi e mansarde bohémien, con i suv a fungere da trait d’union logistico. Le battute di caccia al cervo sono la normalità. L’intero racconto è sopra le righe, eppure l’estetica da Sex and the City non serve al riso, né tanto meno a suggerire una qualche forma di critica sociale. La scarnificazione alleniana della messa in scena riscontrata negli ultimi anni ci consegna qui un prodotto rigoglioso e piatto, pittorico e inerte, nella cui cornice è difficile capire se dovremmo sghignazzare a denti stretti o contemplare gli abissi di una società decadente. È come se, avendo smarrito il controllo diretto della parola, Allen si affidi completamente allo sfondo. Persino nel momento cruciale, quando il fucile sta per sparare, la musica non è Schubert o Bizet cantato da Caruso, come in Crimes and Misdemeanors e Match Point, ma un jazz ilare. Uno zig-zag che confonde. L’impianto è tragico, la realizzazione leggera – ma non slapstick. A peggiorare le cose ci sono almeno un buco di sceneggiatura (una telefonata allarmante che resta senza commento) e il piano sequenza iniziale, che vorrebbe essere virtuoso e avvolgente ma passa quasi inosservato. Come se ci si limitasse a seguire gli attori, lasciando che esauriscano il copione.

Nemmeno il tema della fortuna funge da grimaldello decisivo per la trama. I due “coups de chance” della storia si accompagnano a uno sguardo distaccato, quasi un quieto cinismo, uno staccare la spina dinanzi all’incontrollabilità del caso. L’unico a ribellarvisi è Jean (Poupaud) con la sua ossessione per i trenini e il disprezzo nei confronti della sorte, a cominciare dai biglietti della lotteria. Lui detesta il fatalismo, lui la fortuna “la provoca” (“je la provoque”). Il nocciolo del ragionamento di Allen è che è già un miracolo essere vivi, che la vera lotteria si gioca nell’apparato riproduttivo femminile, quindi la vita in sé è un prodigio che non andrebbe sprecato… ma al contempo, meglio non rimuginarci troppo (“Mieux valait, ne pas s’y attarder”). Quest’ultimo rifiuto a drammatizzare, un po’ escapista un po’ anticlimax, è il contributo di Coup de chance al macrotema dell’azzardo in Woody Allen. Peraltro, è identico al finale di Whatever Works, della serie esistenzialismo e birra fresca. Però c’è un però. Come si evince dal dialogo Allen-Landau in Crimes and Misdemeanors, la tragedia può verificarsi anche per difetto. Un delitto senza castigo, un senso di colpa che stinge pian piano, il senso di sopravvivenza che ci spinge ad andare avanti nonostante tutto, basta che funzioni. L’atroce banalità tra i poli dell’amore e della morte. Fa venire i brividi che l’ultimo capoverso della commedia umana a firma Allen, l’enciclopedia pratica delle nostre scelte e dei nostri errori, sia un appello a non pensarci troppo su. A fingere di non sapere.

E allora meglio non pensare a Coup de chance nei termini di un ultimo film. Magari, come è capitato a Polański, anche Allen troverà finanziamenti inattesi in Svizzera, Francia e Italia, e nei titoli di coda il produttore Luca Barbareschi lo ringrazierà a chiare lettere. Magari ci scappa un secondo film romano: Mezzanotte a Monteverde. Magari dal cassetto esce uno script newyorkese a cui nessuno, nemmeno Mia Farrow, può dire di no. Anche se è finita davvero la commedia, com’è finita la relazione tra Alvy Singer e Annie Hall, irrazionalmente si vorrebbe continuare, desiderare l’opposto di quello che i fatti ci dicono da troppo tempo, come col fratello pazzo che crede di essere una gallina ma che ci rifiutiamo di spedire in manicomio perché ci servono le uova. Woody Allen è lo psichiatra a cui raccontiamo, tutte le volte, questa nostra storia di famiglia.

è notte

Esterno notte (2022), episodio 4: Valerio Morucci (Gabriel Montusi) guarda dallo spioncino in stato sonnambolico.

La commedia, sostiene l’untuoso Lester (Alan Alda) in Crimes and Misdemeanors (1989), è tragedia più tempo. E il sublime cos’è? Forse una tragedia collettiva, compressa nel sangue di uno statista e della sua scorta, reinterpretata a intervalli regolari tanto da diventare una vicenda biblica. Marco Bellocchio non ha sempre aspettato per affrontare temi scottanti come le tesi di Basaglia (il documentario a più mani Matti da slegare, 1975) o il caso Englaro (Bella addormentata, 2012). Ma in alcuni casi il tempo se l’è preso, sia per rielaborare un trauma, sia per tornare sul luogo del delitto. Chiamiamolo così. Nel 1982, con Gli occhi, la bocca, ha azzardato un sequel impossibile dei Pugni in tasca. E nel 2021 ha racchiuso in un documentario decenni di riflessioni e traumi familiari. Un ritornare che non ha nulla a che spartire con la serialità tentacolare e industriale da MCU o da Netflix, e nemmeno con la coazione a ripetere di Woody Allen. I suoi ritorni sono dolenti e pensosi. Come l’Inserto girato a Lisca Bianca (1983), col quale Antonioni torna per meno di dieci minuti sull’isola della scomparsa di Anna nell’Avventura, mostra solo rocce e flutti a colori e lascia l’audio del film del 1960. Oppure, Krzysztof Zanussi. Che nel 2000 gira Życie jako śmiertelna choroba przenoszona drogą płciową (La vita come malattia fatale sessualmente trasmessa), storia di un medico (Zbigniew Zapasiewicz) ammalato di tumore, e un anno dopo, con Suplement, racconta la medesima vicenda adottando il punto di vista di un comprimario del primo film – mantenendone intatte intere sequenze. Suplement integra e approfondisce i contenuti di Życie, offrendo un’ottica meno lugubre. Con la serie Esterno notte, in sei episodi, Marco Bellocchio torna letteralmente sul luogo del delitto Moro, già affrontato in Buongiorno, notte (2003). Un supplemento? Forse. Ma per togliere ogni speranza.

Il film di vent’anni fa, realizzato dopo il formidabile ritorno alla forma de L’ora di religione, era liberamente tratto da un libro, Il prigioniero, di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella. La nuova serie si basa su un soggetto originale di Bellocchio, Stefano Bises e Giovanni Bianconi sceneggiato insieme a Ludovica Rampoldi e Davide Serino. Buongiorno, notte (d’ora in poi senza virgola) si concentrava sul nucleo di brigatisti responsabili del sequestro Moro, in particolare Chiara / Adriana Faranda (Maya Sansa). Celebre, e ormai non è uno spoiler, il finale sognato con lo statista (Roberto Herlitzka) che esce dall’appartamento mentre tutti dormono e passeggia spensierato all’Eur, solo ma libero. Un sogno attribuibile a Faranda e alle sue remore circa l’uccisione del presidente democristiano. Esterno notte, che invece di durare un’ora e quaranta ne dura quasi sei, è inevitabilmente una tela più spaziosa. L’idea scardinante del film monopolizza, di fatto, tutto l’episodio 4, con Daniela Marra nei panni di Faranda. Il primo e il sesto vedono protagonista Moro (Fabrizio Gifuni), il secondo Cossiga (Fausto Russo Alesi), il terzo Paolo VI (Toni Servillo) e il quinto Eleonora Moro (Margherita Buy). Gli episodi 2-5 ripropongono quindi i mesi del sequestro da diverse prospettive. Torna la tentazione di liberare Moro – nel sogno a occhi aperti di uno dei protagonisti – proposta qui all’inizio della serie, tanto da creare aspettative forse ingannevoli. Ma alla fine è sempre la storia a prendere il sopravvento, mediante il ricorso spietato a materiali di repertorio.

Buongiorno notte è classic Bellocchio: rigoroso, sfacciato, a volte ieratico – o schematico. Dedicato “a mio padre”, il film mette in scena un Moro-sfinge che non riesce davvero a svincolarsi dal magnetismo di Herlitzka. Anche Luigi Lo Cascio nel ruolo di Mario Moretti è più robotico che inquietante, tant’è che quando conciona col passamontagna sembra Diabolik. Debole anche la sottotrama “meta” con Paolo Briguglia (Enzo Passoscuro, classico nome finzionale da film di Bellocchio) che fa la corte a Faranda ed è autore di una sceneggiatura eponima del titolo. Meglio, nella serie, l’inserimento plausibile dell’instant movie studentesco sul sequestro, col cameo di Ruggero Cappuccio. In Buongiorno notte ci sono tuttavia dei colpacci: i brigatisti che mormorano come in trance “la classe operaia deve dirigere tutto” e si fanno il segno della croce prima di mangiare; i Pink Floyd di Dark Side of the Moon sparati sui servizi dei tg, su spezzoni di Paisà (1946) e su filmati stalinisti; l’idea di mettere in scena Moro come un condannato a morte della resistenza, suffragata dalla presenza fisica del libro Einaudi con le lettere dei partigiani ammazzati. Le lettere di Moro sono la spina dorsale tanto del film, quanto della serie. Sia per i loro pregi letterari, sia perché le sceneggiature di Bellocchio sembrano voler trovare spazio tra le loro righe, arrivando a integrarle. Esterno notte si apre infatti con una sbalorditiva lettera fittizia in cui Moro si dimette dalla DC.

Nella pellicola, la condanna a morte viene pronunciata dopo un servizio televisivo che parla della chiusura dei manicomi. La follia, o presunta tale, è un filo rosso che attraversa tutta la vita familiare e l’opera cinematografica di Bellocchio. Moro venne spacciato per pazzo dalla politica e dai giornali dopo la divulgazione della prima lettera, una mossa forzata dalla strategia della fermezza che Esterno notte illustra meticolosamente. Quanto ai brigatisti, Bellocchio non commette mai l’errore di appiattire l’ossessione ideologica per la lotta armata a mera psicopatia. Non tutti sono consumati dai dubbi di Faranda, ma anche nella figura monolitica di Moretti (reso alla perfezione da Davide Mancini nella serie), più che la volontà omicida colpisce semmai la strenua cecità dinanzi alle contraddizioni. Moretti è lucidamente ottuso. Nella miniserie, nell’arco di un minuto ignora un mendicante e resta indifferente dinanzi a uno scippo: a lui interessa solo la difesa di una classe operaia assoluta e contumace, alla quale peraltro non appartiene. E che non conosce. Anche lui padre, nel film ammette di non vedere il figlio da anni per portare avanti la causa rivoluzionaria. Il “proletario” finisce per collimare col sol dell’avvenire. Il brigatismo assume la forma di un’autoipnosi di minoranza, decisa a vendicare l’orrore della catena di montaggio. È una religione, il brigatismo, che ammazza per sentirsi viva. Bellocchio riesce sempre a toccare il tema della fede, non importa in cosa, evitando sbavature nonostante le tinte fortissime. Quando i suoi personaggi si scagliano contro l’istituzione della famiglia, lo fanno nel quadro di un discorso che eleva la famiglia. Lo stesso vale per il cattolicesimo, per lo Stato, per l’ideologia.

Esterno notte, prodotto televisivo per caso, ricorda molto da vicino la grande narrazione del Traditore (2019). Attori mimetici, ampio respiro, il coraggio di sfidare l’intrattenimento all’americana. Bellocchio ultraottantenne somiglia sempre di più al Coppola trentenne. Questo si vede non solo nelle scene più esplicite, o in quelle che investono il potere e la famiglia – temi da sempre cari a entrambi. Il secondo, straordinario episodio, incentrato su Cossiga, rievoca 1:1 le atmosfere paranoiche della Conversazione. L’ex ministro degli Interni, ciclotimico e sposato alla DC, con la vitiligine incipiente, trova un’inutile valvola di sfogo nelle cuffie per le intercettazioni. Dà ascolto persino a un veggente. Tutto si mischia nel ventre della Balena bianca eternamente al governo, a suo tempo con Andreotti primo ministro e i comunisti di Berlinguer a dare un sostegno esterno – l’obiettivo del centro-sinistra storico di matrice morotea. Le ore di Esterno notte, il ritmo ciclico degli episodi centrali, gli esiti scoranti della cosiddetta Notte della repubblica raccontano un naufragio collettivo e insensato, senza possibilità di redenzione.

Ma è passato del tempo, anche rispetto al film del 2003. E in Esterno notte Moro non è più un resistente morituro, bensì una figura cristologica. Regge la croce durante una via crucis immaginaria, con la compagine democristiana al posto dei fedeli. Tradotto: sulla figura di Moro si può ricamare con maggiore libertà. Come quando era ancora vivo. Nel 1976, l’anno di Todo modo di Elio Petri, da Sciascia, lo scrittore paragonò la pellicola a un’esecuzione, definendola nei termini di una cupio dissolvi pasoliniana. Nel film, sconclusionato e invecchiato male come tutti gli ultimi di Petri, Gian Maria Volonté interpreta un Moro non dichiarato, muovendosi in un’atmosfera tra il kafkiano e la dark room democristiana. Una scelta che a posteriori (cioè dopo il sequestro) non piacque, facendo quasi scomparire Todo modo per alcuni anni e spingendo Volonté a rivestire i panni del segretario DC nello scolastico Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara. Esterno notte è anche una risposta a decenni di cinema di impegno civile italiano. Col suo tema abissale, con la sua sceneggiatura che non ha paura di mostrare e aggiungere, col suo cast perfettamente equilibrato, la miniserie di Bellocchio riassume il meglio del cinema civile degli ultimi anni, scansando sia gli eccessi stilistici (vedi Sorrentino), sia il piattume benintenziato (vedi Amelio).

Un mélange non facile. Scegliere Toni Servillo per rianimare una figura come Paolo VI (che in Buongiorno notte è praticamente un manichino) significa sfidare l’intero immaginario sorrentiniano, col suo intruglio di papi, porporati, pretonzoli e suorine, Napoli e Roma al cubo. Per tacere del coraggio di rimettere in scena, tra il grottesco e il realistico-mimetico, tutto lo stato maggiore democristiano di quei tempi, non dissimile da quello che si vede nel Divo (2008). Ecco allora Andreotti (Fabrizio Contri, volutamente trattenuto), Zaccagnini (Gigio Alberti), il presidente Leone (Nello Mascia) e altri mostri, fino al realpolitischer Berlinguer di Lorenzo Gioielli. Il quarto episodio si apre col gruppo di terroristi che spara in riva al mare, direttamente nell’acqua. Un gesto inane e smargiasso che ricorda una scena di Gomorra (2008) di Garrone. Bellocchio frulla tutto questo, ci lancia dentro un attore feticcio come Bruno Cariello (già religioso per Sorrentino nelle due serie pontificie) nei panni di un prete e pure il figlio Pier Giorgio, brigatista in Buongiorno notte, qui con le mostrine da capo della Digos. È un frullato che sa di tempo che passa, digerito e ruminato. Nel primo episodio, sullo sfondo dei tafferugli, compare il poster di Anima persa di Dino Risi col ghigno mefistofelico di Gassman. Nel quarto, Valerio Morucci va al cinema a vedere Il mucchio selvaggio. Nel quinto, i servizi televisivi sulle ricerche nel Lago della Duchessa, al ralenti, sembrano uscire da un documentario di Herzog. La cronaca di allora, brutta sporca e cattiva, diventa il sublime di oggi.

Con gli anni, Bellocchio è diventato un visionario mite. Ora non ha più bisogno dei Pink Floyd per creare una dissonanza. Esterno notte sfoggia una sigla tarantolata – da Après la pluie di René Aubry – che dà subito un’idea di serialità ossessiva e ritornante. Il resto è farina del sacco di Fabio Massimo Capogrosso e, come già in Buongiorno notte, di Verdi. Anche il finale evita la svirgolata ottimistica del film, proponendo coraggiosamente cinque minuti di filmati di repertorio. L’ultima immagine di girato immortala Eleonora Moro al funerale privato nella cappella di famiglia, acquistata dal marito pochi mesi prima. Un dettaglio all’apparenza ininfluente, se non addirittura morboso, che però dimostra una vicinanza alla morte che il film non ha. Herlitzka che scende in strada serafico è quasi un’anticipazione dei finali antistorici, o meglio utopici, di film come Inglorious Basterds o Once Upon a Time in Hollywood. Al Moro allettato e vivo che si vede all’inizio di Esterno notte, disgustato dalla visita dei colleghi di partito, manca qualsiasi slancio vitale. È un sogno in linea con la realtà.

Sul finire del quarto episodio, i cadaveri di Moro e degli altri satrapi democristiani vengono portati vie dalla corrente di un fiume che potrebbe essere tanto il Tevere quanto il Trebbia. È un’immagine livida, come i sogni di Faranda in Buongiorno notte con lo statista che si aggira per casa e pesca i libri dagli scaffali mentre i brigatisti dormono. O come, nella miniserie, il buio pesto in cui si muove Valerio Morucci sonnambulo, con Faranda che lo segue e lo protegge. Oppure la carrellata notturna che mostra per un attimo il monticello di banconote vaticane (settanta miliardi delle vecchie lire) rimaste inutilizzate dopo il fallito tentativo di abboccamento con le BR. È il buio del confessionale, quando Eleonora racconta a don Giuseppe (Cariello) che non si sente più amata, mentre fuori risuonano già gli elicotteri. La penombra perenne della sala delle intercettazioni dove Cossiga capta il papa intento a conversare con un giovane sacerdote che vive in carcere. Il nero in cui si dissolve Paolo VI sullo scranno alla fine di Buongiorno notte, prima di restituirci le immagini di Herlitzka/Moro in un mattino presto che sembra novembre invece di maggio.

Un sogno. In Buongiorno notte, Chiara / Adriana confida a Ernesto / Germano Maccari che va spesso a guardare “lui” dallo spioncino della cella dietro la libreria per assicurarsi “che non sia tutto un sogno”. “Perché, vorresti che fosse tutto un sogno?” – “Non so, una cosa o l’altra” – “Io ho già risolto,” taglia corto Ernesto. “Non sogno più”. Vent’anni più tardi, ai templi supplementari, sognerà qualcun altro.

Titoli di testa del film di Zanussi del 2001.

Zeppo non c’è.

C’erano una volta i sei fratelli Marx, quattro dei quali fecero cinque film poi restarono in tre e ne fecero altri otto. In questo articolo vintage, colpevolmente scritto senza Groucho e i suoi fratelli a portata di mano (e Luca potrà corriggermi se canno), faccio due passi in quel bosco narrativo che è la filmografia marxiana, vecchia di un secolo ormai ma con elementi virulenti che la rendono attualissima.

Oltre al classico martelliano – da leggere nonostante l’editore – segnalo come costante nota a piè di pagina anche il Castoro di Andrea Martini, a suo tempo rimediato in edicola con L’unità grazie a una vecchia iniziativa del direttore Veltroni. Con a suo tempo intendo la metà degli anni Novanta, quando si celebrò il centenario del cinema e Vieri Razzini propose su RaiTre, nottetempo, una retrospettiva commentata coi primi sette film dei fratelli. Commenti belli che hanno offerto lo spunto per queste righe. Razzini sostiene che l’inizio della fine, per i Marx, è A Day at the Races (1937). La mia tesi scombiccherata, e in quanto tale marcsiana, è che la fine cominci con la scomparsa di Zeppo.

I tredici film coi Marx sono così suddivisi. I primi cinque furono a marchio Paramount, a cominciare da The Cocoanuts (1929), girato a New York dove i fratelli erano impegnati a Broadway nelle repliche di Animal Crackers, destinato a diventare il loro secondo film. Le pellicole Paramount sono celebri per i loro riferimenti bestiali: dopo l’adattamento cinematografico di “Crackers” (1930) arrivarono infatti Monkey Business (1931), Horse Feathers (1932) e Duck Soup (1933, di Leo McCarey). Un intervallo di due anni segnò il passaggio – autentica promozione hollywoodiana – alla MGM, per la quale realizzarono A Night at the Opera e “Races” (1935, 1937, entrambi di Sam Wood), poi At the Circus (1939), Go West (1940) e The Big Store (1941). Nel 1938 una parentesi RKO per Room Service, peraltro l’unico film coi Marx non scritto pensando ai Marx. Irrilevante. Gli ultimi due titoli, produzioni minori distribuite dalla United Artists, furono A Night in Casablanca (1946) e Love Happy (1949). Per maggiori dettagli nozionistici, cliccare Imbd. Basti dire, nelle parole di Razzini, che la seconda parte della loro produzione è all’insegna di una triste decadenza.

Triste soprattutto se paragonata all’impeto col quale irruppero sul grande schermo sul finire degli anni Venti. Per quanto filmicamente rudimentali, un po’ per budget un po’ per l’evidente origine teatrale, i primi due exploit dei Marx sono tuttora un toccasana. A colpire non è solo il surrealismo incarnato da Harpo, evidente trait d’union tra il muto e il sonoro, ma soprattutto l’aggressione verbale di Groucho (powered by Arthur Sheekman), una mitraglia di calembour e atteggiamenti schizoidi che fanno a pezzi le regole sociali, infrangono la quarta parete, saltellano da un livello metanarrativo all’altro. Un’aggressione feconda diretta alla corteccia cerebrale, ogni tanto tentata dall’alzare bandiera bianca lasciandosi cullare non più dal verbo ma dai sinuosi zigzag corporei dell’uomo col baffone finto. Groucho si lancia nelle scene con stivali da cavallerizzo, sigaro inquisitore e la schiena gobba, come un ariete, si lancia contro tutto e il contrario il tutto, anche contro sé stesso, e gli unici che riescono a far breccia in questo buco nero di nonsense sono proprio i suoi fratelli. Il candore onnivoro e strabuzzato di Harpo, la faciloneria di Chico, nei cui tranelli di strada Groucho cade come una pera cotta (succede in particolare in “Races”, secondo Razzini un errore di scrittura). Zeppo, più giovane, belloccio e inevitabilmente “straight man”, partecipa meno alle gag, eppure è irresistibile quando in “Crackers” Groucho gli detta la lettera – poi rimasticata da Totò e Peppino -, improbabile poi in “Feathers” nei panni di suo figlio tardone che flirta con la vedova del campus.

Con tutto che contiene battute colonialiste non raffinatissime, il che lo banna per sempre da qualsiasi arena estiva, Animal Crackers è ancora oggi un concentrato di anarchia, severamente vietato a chiunque abbia disturbi dell’attenzione. Per una volta, l’esibizione al piano di Chico non è mera bravura riempitiva bensì innesco di una sequenza complessa, dadaista, esilarante nella sua spietata ripetitività. Il finale, poesia pura, spicca tra i titoli Paramount in quanto visivo, cinematografico, non affrettato come gli altri. L’unico spettacolo teatrale dei Marx non trasformato in film è I’ll Say She Is, di cui esiste solo una sequenzina in rima girata per il film promozionale The House That Shadows Built (1931), biglietto da visita dello star system Paramount.

Monkey Business, il primo film-film del quartetto, è insolitamente fiacco e troppo infantile nel mettere in scena Harpo. Di buono c’è il ricorso a un’unica canzone come filo rosso, in questo caso la parodia di You Brought a New Kind of Love to Me di Maurice Chevalier. Escamotage che trova la sua migliore realizzazione in “Feathers” mediante Everyone Says I Love You eseguita da tutti, a turno, cominciando da Zeppo. “Tutti dicono che ti amo” è stata poi ripresa da Woody Allen nell’omonimo film del 1996, suo ennesimo omaggio al quartetto e soprattutto a Groucho, dal quale Allen come attore ha copiato spessissimo mosse e birignao – in particolare dal Groucho gigione dei film MGM.

In tema di canzoni, impossibile non citare i due inni di Groucho, Hello, I Must Be Going (da “Crackers”) e Whatever It Is, I’m Against It (da “Feathers”), mai più eguagliati nelle produzioni MGM sempre più improntate al musicarello puro. E parlando del periodo 1932-1933 va citato anche il radiodramma (per modo di dire) Flywheel, Shyster and Flywheel, con Groucho e Chico, pubblicato da Bompiani come Legali da legare.

La guerra lampo dei fratelli Marx, questo il titolo adattato in Italia nei primi anni Settanta, merita in pieno il suo status leggendario per il semplice fatto che finalmente sceneggiatura, corpi e macchina da presa si sincronizzano in maniera esplosiva. Sono settanta minuti scarsi senza pause né pietà, niente Harpo all’arpa, niente Chico che cala l’indice sull’ultimo tasto del piano. La musica c’è ma è corale, un sabba quasi, coi quattro fratelli impegnati in contemporanea al banjo.

Dopodiché, Zeppo scompare. Con “Opera”, pellicola citatissima per via della sequenza della cabina strapiena, i Marx ridotti all’essenziale s’inseriscono in un ingranaggio spettacolare più grande – e meno divertente – di loro. Certo, restano i caratteri, resta la lingua di Groucho non sempre servita al meglio dallo sceneggiatore di turno, resta la sua spalla più importante, Margaret Dumont (l’ineffabile, dice Razzini), che a detta di Groucho non ha mai capito le sue battute – forse la più incompresa tra le sue battute geriatriche. La Metro Goldwyn Mayer infila il trio in una ruota da criceti in cui si ripetono vecchi schemi, si visitano luoghi già ampiamente visitati – ma la sequenza in nave è almeno migliore di quella in “Business” – e si va incontro, questa una novità, a un gran finale produttivamente ambizioso. Sia esso all’opera, all’ippodromo, su un treno del West o in un enorme grande magazzino che sembra una casa delle bambole. La comicità dei protagonisti si cartunizza sempre di più. Al posto di Zeppo, in “Opera” e “Races”, tale Allan Jones dalla voce tenorile che con la sua presenza guasta ogni singolo fotogramma. Un dramma.

Rispetto alla solidità di A Night at the Opera, A Day at the Races contiene ancora un pizzico dell’antica anarchia. Lo si vede nella brutale sequenza medica con la povera Dumont sballottata sul lettino, o perfino nell’incontro fiabesco tra Harpo e la comunità nera degli slum. Anche in questo caso ti saluto arene estive, dato che Harpo funge da pifferaio (ed è facile completare la metafora) e la lunghissima sequenza musicale si conclude con un triplice blackface carpiato. Harpo perde la corsa ma vince a causa di uno scambio di cavalli, da sempre oggetto di suo incondizionato amore, e questa vittoria sporca assomiglia al finale di “Feathers” coi buoni che vincono a football americano infrangendo qualsiasi regola o fair play. “Opera” resiste di più nell’immaginario collettivo grazie alla potenza di alcune gag, prima fra tutte il contratto stracciato, forse lo zenit della carriera di Chico.

A partire da At the Circus, la discesa è ripida, la ripetizione pedante. Si salva la sequenza in treno con la visita al vagone del nano, nel finale tornano i trapezi già visti in “Opera”, ma è evidente che la benzina è agli sgoccioli. Go West rasenta l’inguardabile, con l’eccezione forse dell’arpa ricavata dal piano rotto. L’esibizione musicale in sé si salta a piè pari. The Big Store, che sembra precorrere Jerry Lewis, spadella una lunga sequenza con una famiglia italiana – e altri nuclei “etnici” – antiquata e offensiva, bruciando peraltro la carta a lungo rimasta nel mazzo dell’incontro tra Chico e i suoi compaesani. Groucho, in vena di nostalgie radiofoniche, si chiama Flywheel.

Quanto alle ultime due fatiche, e devono esserlo state davvero per i poveri Marx, “Casablanca” è un disperato tentativo di piaciucchiare ripescando l’attore “tedesco” di “Opera” e “Races”, Sig Rugman, ma l’esito è piatto eccezion fatta per la prima apparizione di Harpo appoggiato a un edificio… per evitarne il crollo. Love Happy viene giustamente ricordato solo per la presenza lampo di Marilyn Monroe agli esordi. Film, questi, fatti per coprire i debiti di Chico, giocatore d’azzardo incallito. E fa tristezza vedere come il livello della comicità dei Marx finisca per assestarsi proprio sul personaggio di Ravelli/Chicolini/Baravelli, una suburra senz’ironia a cui manca lo sguardo curioso e partecipe di Fellini.

I Marx hanno avuto una lunga carriera televisiva ben testimoniata da questa playlist. Nel 1961, Harpo ha rotto il silenzio senza rompere il personaggio pubblicando con l’aiuto di Rowland Barber un memoir dal titolo Harpo Speaks! I guizzi di Groucho l’hanno accompagnato fino all’Oscar alla carriera. Consola pensare alla costante dei decenni di magra marcsiana, all’assenza che ha contraddistinto il loro passaggio da rivoluzionari a icone stinte. Zeppo non c’è.

[ultime righe di Harpo Speaks!, 1961]