natura snaturata

Kino Krokodil, Berlino.

Quattro film dell’orrore, quindi del piacere puro, captati nell’arco di questo autunno tedesco inoltrato che sfocerà molto probabilmente in un inverno elettorale da Valpurga. E allora meglio allenarsi a esorcizzare ancora di più tramite schermo, grande questo schermo, visto in prima fila svaccati su qualche divano impresentabile, che solo a Berlino può fungere da sostituto della poltrona da cinema. Ultime frontiere selvagge di una città ormai normalizzata, piena come ai tempi di Weimar ma sempre meno acuminata e spiazzante. A quando un bel film tedesco neoespressionista che assorba e trasfiguri questo mulmiges Gefühl?

Terrifier 3 è un filmazzo americano. Attesissimo da almeno due anni, ha fatto notizia per l’ottimo risultato al botteghino malgrado la quantità immane di sangue e macelleria. Dei film precedenti di Damien Leone ho già parlato, e la visione di T3 è stata una gradevole sorpresa. Non solo Art the Clown è diventato un fenomeno di costume che piace anche ai bimbi, ma il film, solido e accessibile – per chi apprezza l’articolo – riesce su un livello inaspettato, che è quello dell’armonizzazione dell’immaginario. In altre parole, Leone mette ordine nel garage da serial killer in salopette dei titoli già usciti, portando avanti la trama verso un possibile finale coi fuochi d’artificio – e soprattutto, ricalibrando il tono. Le pecche, o i punti critici degli altri Terrifier vengono smussati con classe, potenziando le parti già efficaci. Qualche esempio senza spoiler. Se Terrifier 2 aveva espanso l’incubo del primo, concentrato in una sola notte, trasformandolo in un teen movie anni Ottanta con influssi fantasy e minutaggio fuori controllo, stavolta il film ha dei paletti. Riprende l’azione da dove l’abbiamo lasciata ma non con la precisione pedissequa del secondo: il rabbercio avviene in flashback dopo la sequenza iniziale, a sé stante, una classica home invasion. Visto che i protagonisti sono molto giovani, la sceneggiatura fa un salto di cinque anni a fini di credibilità, e la prima idea geniale è quella di mettere il mostro, e la sua collaboratrice, a riposo. In una palazzina che fonde il fetido col gotico. Per lo stesso motivo anagrafico, la bambina da tregenda che affianca Art nel secondo episodio scompare, sostituita da Vicky, in teoria avversaria del clown (così viene introdotta nel primo film – ma parlare di psicologia con demoni in forma di pagliacci è ridicolo, quindi l’incredulità va sospesa alla grandissima). Anche sul finale c’è una home invasion, che di fatto impedisce all’eroina Sienna (Lauren LaVera) di tornare nel luna park abbandonato del secondo film, con tanto di attrazione chiamata Terrifier. Un’ellissi che comprime l’azione, toglie alcune zeppe dalla trama e infila un bel tranello nella forma di un coprotagonista ammazzato fuori campo. Al contempo, si intuisce che il quarto capitolo avrà ben poco a che vedere con la concretezza urbana di scantinati, cessi, dormitori studenteschi e pizzerie da asporto. Stiamo ancora aspettando Machete nello spazio, ma forse vedremo Art agli inferi.

Il terzo lungometraggio targato Terrifier conferma la strategia autoriale del nome del regista piazzato col genitivo sassone sopra il titolo, un gimmick inventato da Carpenter ai tempi di Halloween e a sua volta mutuato da Hitchcock e Fellini. Il paragone può non reggere sul fronte della scrittura filmica – Leone ci mette del suo più negli effettacci che nei movimenti di macchina – ma è vero che l’invenzione di Art e la modellazione di questa epopea slasher dimostrano un controllo, e una perseveranza premiata dai fan, rarissimi nel genere trucido. Pochi anni fa ci ha provato, senza successo, Rob Zombie, e proprio nella sua trilogia della Casa dei mille corpi troviamo un pagliaccio coi denti marci, l’imprenditore del pollo fritto Captain Spaulding (Sid Haig). Zombie non ha mai più ripetuto l’exploit del primo film, reboot ufficioso e malsano del Texas Chain Saw Massacre, e i suoi remake di Halloween sono quasi subito finiti nel mucchio. Leone sta puntando tutto sulla proprietà intellettuale della maschera che ha inventato, costruendoci attorno un mondo, e un intreccio, via via corretti e riarrangiati.

Art funziona prima di tutto grazie alla mimica di David Howard Thornton, che malgrado i chili di trucco e il costume debordante ci regala un clown da film muto che sarebbe piaciuto a Tod Browning o Victor Sjöström (penso a He Who Gets Slapped, 1924, da un dramma russo, peraltro ispirazione numero uno di Alex de la Iglesia per Muertos de risa, 1999). Art è la via di mezzo tra l’agghiacciante semplicità del Michael Myers di Carpenter, una forza della natura col coltello in mano e la maschera di William Shatner in faccia, e il brivido metafisico – e metanarrativo – di Freddy Krueger. Con l’aggiunta di un’attrazione fatale per feci, scalpi e budella, e di un senso dell’umorismo perfetto per questi tempi bui. Uno dei momenti più alti di Terrifier 3 è l’incontro di Art con un omone vestito da Santa Claus. Il clown delle carneficine, questo demone in terra che vaga con un sacco della spazzatura in groppa, è un grande ammiratore di Babbo Natale! L’idea spassosa del terzo capitolo è proprio quella di spostare l’azione dalla notte delle streghe a quella del Bambinello, con tanto di riferimenti religiosi a pioggia: stimmate, corone di spine, madonne dell’Ade, presepi e cappelle.

La saga di Terrifier sta per lasciare questa valle di lacrime per buttare il cuore oltre la dimensione terrena. Un rischio enorme degno di Lars von Trier: come rappresentare l’inferno? Come scansare il boomerang dello spiegone escatologico? Intanto, il film uscito in ottobre mette a segno un paio di colpi da maestro. Il più importante per la tenuta generale della serie riguarda il trattamento delle vittime. Leone è sempre stato accusato di sessismo: morti femminili lente e dettagliate, morti maschili sbrigative e poco fantasiose. In Terrifier 3 lo sguardo cambia e l’equilibrio, chiamiamolo di genere, viene ristabilito con gusto. In seconda battuta, la deriva fantasy di T2 viene ridefinita in chiave fumettistica, e anche questo è un bene. Poi c’è il già citato cambio di calendario dagli addobbi di fine ottobre a quelli di Black Christmas e Silent Night, Deadly Night. Infine, letteralmente alla fine del film, la copertina di un libro aggancia il primissimo cortometraggio con Art (The 9th Circle) all’universo diabolico di Polański. Il cerchio si chiude con un pagliaccio triste a cui resta solo la trombetta – che fa più paura di seghe elettriche e altri ammennicoli.

In a Violent Nature di Chris Nash è la rivelazione dell’anno. Anche questo è uno slasher, con una figura solitaria e inarrestabile che fa fuori chiunque le capiti a tiro. Piccola produzione canadese via Shudder, ambientazione lussureggiante in Ontario. Se Terrifier ricorda Freddy e Michael, questo esercizio agghiacciante di disciplina cinematografica tira in mezzo Jason Voorhees. Il titolo dice già tutto, e va interpretato in senso letterale: qui il killer non è una forza ancestrale, ma è la natura che si ribella. Metafora banale, resa eccellente con un metodo complementare a quello di Leone. Nash fa sentire la macchina da presa a ogni passo, le inquadrature sono pianificate con la precisione geometrica di uno Tsai Ming-liang, la commistione di documentario naturalistico e pedinamento dardenniano ci arriva in piena fronte come un’ascia lanciata da tre metri di distanza. I momenti più significativi sono quelli in cui il punto di vista si trova alle spalle della creatura emersa dal fogliame, intenta a marciare per la foresta. Una replica, casuale o inconscia, della scena al piano superiore del convenience store nella Part 15 di Twin Peaks – The Return, quando il Cooper posseduto da Bob viene scortato da un tozzo Woodsman verso gli appartamenti di Phillip Jeffries, e una dissolvenza incrociata fonde un corridoio consunto con una foresta scricchiolante di conifere.

Il film di Nash, di cui è già in cantiere un sequel, funziona come horror esplicito – con un paio di sequenze che svuotano i polmoni – pur spostando tutta l’attenzione dagli attori al piano filmico. Malgrado i meriti artigianali, e l’originalità malata di alcuni ammazzamenti, è la freddezza documentaria a penetrare sottopelle. I corpi sembrano meri strumenti volti a spiegare il funzionamento di un dispositivo meccanico, di un attrezzo da lavoro in dotazione ai ranger forestali. Oltretutto, il mistero non c’è. La prima inquadratura contiene l’innesco della trama, il golem con la vecchia maschera antifumo ha anche un volto che viene tranquillamente ripreso in primo piano, la suspense è annichilita dall’ineluttabilità della natura indifferente che cerca di ripristinare un equilibrio. La forza del film, e il miracolo della sua efficacia, sta nel mettere sullo stesso piano l’attesa e l’attuazione, lasciando nel montaggio delle intercapedini, e delle durate, che qualsiasi film di genere sforbicerebbe per contratto. Ipnotico, solo a tratti minacciato da flashback superflui e recitazione non eccelsa, In a Violent Nature è decrescita felice allo stato puro. Non manca un tocco di Romero ispirato a Land of the Dead, in una lunga sequenza al lago dove sappiamo che il buzzurro ammazzasette sta camminando sul fondale diretto alla prossima vittima, ma non lo vediamo. Nella testa sì.

Des Teufels Bad è un film austriacissimo di Veronika Franz e Severin Fiala che parla di come venivano trattati i casi di depressione grave tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo. Visto che il suicidio è peccato mortale agli occhi del cattolicesimo, la persona che non ce la faceva più a vivere sceglieva di uccidere un innocente per venire poi assolta in confessione – e giustiziata in piena grazia diddio. Più di quattrocento bambini furono uccisi in questo modo. Prodotto da Ulrich Seidl, il “bagno del diavolo” – termine che a suo tempo indicava gli stati depressivi – ha l’andatura perentoria e ossessiva dei suoi film migliori, anche se manca del tutto il tocco sarcastico. Rispetto alla trappola percettiva di Ich seh ich seh (2014) e alla più convenzionale produzione anglofona The Lodge (2019), questa pellicola di Franz e Fiala, con un solido fondamento scientifico, si risveglia negli ultimi quindici minuti dopo un sonno nel bosco non sempre tonificante. La protagonista Agnes (Anja Plaschg) vorrebbe diventare madre, ma si scontra con un marito gay (David Scheid) e una suocera ingombrante (Maria Hofstätter, volto storico del cinema di Seidl). A rendere interessante il film non è tanto la crudeltà del tema, bensì la descrizione in stile pittura su legno delle condizioni di vita in Bassa Austria, tra cascate minacciose, pesca disperata in acque basse, casupole nella foresta, fango e pelli di animale. La natura salta agli occhi più dell’abbozzo di civiltà fagocitato dalla religione e dettato da riti disumani, come la bevuta collettiva del sangue dell’infanticida decapitata, ritenuto un toccasana contro la malinconia. Sullo sfondo di un ambiente ostile e amorale, la cultura è bestiale nei suoi dettami stringenti. Des Teufels Bad è un Heimatfilm al contrario.

Ma il vero orrore arriva col nuovo documentario di Andres Veiel, dedicato a Leni Riefenstahl. Un film di montaggio il cui obiettivo è, ancora una volta, armonizzare l’immaginario e correggere il tiro. Il nome Riefenstahl è universalmente noto, eppure il fatto che abbia inventato il film di propaganda sotto Hitler non è bastato, in questi decenni, a connotarla senza se e senza ma come la nazista che era. Il suo fascino, la furbizia delle sue immagini, il suo talento per la menzogna, la messinscena ex post di un coinvolgimento in qualità di semplice mestierante e i ridicoli tentativi di rilancio dagli anni Sessanta in poi hanno fatto sì che Leni, “donna forte”, la facesse franca sul piano del sentito dire. Adorata da Cocteau e blandita da certo femminismo, negli anni Settanta Riefenstahl riusciva ancora a strappare applausi a scena aperta nei talk show della Repubblica Federale, finendo per ricevere sacchi di fan mail che nemmeno papà Natale in Lapponia. Veiel riprende i punti salienti di questa puntata di Je später der Abend (1976) e soprattutto mostra ciò che Ray Müller non poté, o non volle mostrare montando le tre ore di Die Macht der Bilder (1993), un film agiografico tra le righe spesso passato su Fuori orario in un’estatica cornice. Riefenstahl che si morde le labbra dopo aver ammesso via lapsus un amorazzo con “Dr. Goebbels”, Riefenstahl furiosa dinanzi all’accusa che non poteva non sapere (o non poteva non essere), Riefenstahl in pieno trip coloniale ai tempi del “viaggio fotografico” tra i Nubiani, il volume coffee table che avrebbe dovuto dimostrare, a detta sua, che non era razzista. Niente ideologia, solo bellezza. Niente cultura, solo natura: ecco allora i pescetti tra i coralli delle sue immersioni in tarda età, ripresi da Müller ma non da Veiel, riflesso in Technicolor degli stratagemmi scenografici e di tecnica di ripresa ideati per Triumph des Willens e Olympia; riflesso, soprattutto, del film che Riefenstahl ha portato ad esempio fino alla nausea quale manifesto della sua visione del mondo: Das blaue Licht (1932). Una cortina fumogena in cui si son smarriti in tantissimi, perdendo di vista lo spirito völkisch fino al midollo di questo suo film di debutto, le statue vive in stile greco-ariano che aprono Olympia, le comparse rom e sinti per Tiefland (1940; terminato nel 1954) prelevate da un campo di concentramento e ivi rischiaffate, finendo cadaveri. Riefenstahl andò a processo per questo suo ultimo lungometraggio asserendo di averle incontrate tutte, sane e di robusta costituzione, dopo la fine della guerra. Una bugia a cui molti piacque credere, dimenticando tra l’altro che l’opera Tiefland era una delle preferite da Hitler.

Veiel ha ricevuto dalla produttrice, la giornalista Sandra Maischberger, la proposta di fare il film dopo la morte dell’ultimo marito di Riefenstahl, che ha reso accessibile l’enorme archivio dell’attrice e regista. Un archivio organizzato e curatissimo, un guanto infilato sulla sua strategica comunicativa. Riefenstahl ha avuto sessant’anni di tempo per salvarsi dalla damnatio memoriae, cioè da quando nel 1939 la sua ascesa irresistibile si tramutò in una battuta d’arresto. Dopo i fasti del doppio film sulle Olimpiadi berlinesi, che di fatto gettò le basi delle moderne riprese sportive, Riefenstahl venne mandata al fronte in Polonia. Avrebbe dovuto scolpire l’avanzata tedesca nel marmo della propaganda, ma nel giro di poche settimane rinunciò all’incarico. Veiel non ha trovato pistole fumanti di suo pugno nell’archivio, ma tramite la corrispondenza indiretta è riuscito a ricostruire un incidente avvenuto a Końskie, quando più di venti operai ebrei furono fucilati. A quanto pare, Riefenstahl stava girando in strada, un gruppo di persone era al lavoro sullo sfondo, così ordinò “Weg mit den Juden” per ripulire l’inquadratura, un comando che i militari al suo seguito interpretarono in chiave nazista, freddando tutti a un tiro di schioppo dalla cinepresa. Ecco allora, come sottolinea la voce narrante del film, che un’indicazione di regia firmata Riefenstahl provoca un massacro. Nessuna responsabilità?

A più di vent’anni dalla morte della diretta interessata e a trenta dal documentario-intervista di Müller, Riefenstahl di Andres Veiel mette finalmente i puntini sulle i di una carriera senza scrupoli troppo spesso offuscata dal carisma e dalla forza delle immagini. Il film montato da Stephan Krumbiegel, Olaf Voigtländer e Alfredo Castro offre un ritratto a trecentosessanta gradi del suo soggetto, dalle foto favolose degli anni Venti ai film di montagna di Fanck e Trenker, dai tappeti rossi internazionali per Olympia alla sua complicità con Albert Speer, compagno di telefonate e ciaspolate per scambiarsi consigli editoriali e spremere a dovere la rapa della nostalgia nazi di tanti tedeschi. Una lunga performance con faccia di bronzo fino all’ultima apparizione nel 1999, ultranovantenne preoccupata dall’illuminazione che rischia di tradire le rughe. In tv, va da sé, passò solo l’ennesima intervista supina. Veiel ci fa capire come mai attorno a Riefenstahl è nato un mito, ma anche la pericolosità e l’attualità di questo mito fondato sul cinismo intellettuale. Parlare di Riefenstahl oggi significa anche parlare di propaganda – nazionalsocialista, quindi populista ante litteram. L’uomo solo al comando che blatera di pace e lavoro per tutti, che promette mari e monti alla maggioranza acritica regalandole facili emozioni ai danni delle minoranze. Al contrario di Dietrich, Riefenstahl restò in Germania malgrado fosse una star internazionale perché sapeva di potercela fare lì, nell’Heimat, usando la bellezza apollinea come schermo protettivo per l’ultraviolenza. La vera arte degenerata.

Berlinali

Screenshot dallo streaming della Berlinale 74 per l’assegnazione dell’Orso d’oro alla carriera a Scorsese.

Quando nel gennaio del 2006 misi stabilmente piede a Berlino, il mio pensiero fisso era già al mese successivo, perché per la prima volta avrei avuto l’occasione di andare al festival. Ormai ci vado da quasi vent’anni, come pubblico e più spesso accreditato tramite Indie-Eye. In questa orecchia traccio un itinerario sghembo, assolutamente non rappresentativo, dei film che m’hanno scavato di più tra le pieghe del cervello e nei nervi ottici. Nessuno di questi titoli ha vinto il primo premio. Ho iniziato a frequentare la Berlinale in piena gestione di Dieter Kosslick, e col 2024 termina il non facile interregno Chatrian-Rissenbeek. Cresciuto con l’idea che dopo la Palma e il Leone venisse l’Orso, ora devo ammettere che questo terzo posto assoluto è più che mai traballante, anche se Berlino si conferma il primo festival di pubblico al mondo, dieci giorni durante i quali trovare i biglietti è spesso un’impresa e le sale sono sempre strapiene – a prescindere da quel che vi viene proiettato. Un risultato clamoroso che mette in ombra i consueti arbitri (circonflesso sull’ultima i) di selezionatori e giurie, nonché il costante calo delle prime mondiali – un fenomeno, quest’ultimo, che sta trasformando la Berlinale in uno sfavillante festival del riciclo.

Duemilasei. Il poster è sparato persino in copertina sulla miniguida alla Berlinale di Zitty, io non so chi sia Oskar Roehler ma Houellebecq lo conosco bene. Elementarteilchen (Le particelle elementari) è il primo film berlinalizio che mi fece friggere prima di approdare in sala. A colpirmi furono due cose: l’idea che un romanzo contemporaneo francesissimo venisse portato sullo schermo per vie crucchissime (produzione d’alto bordo di Bernd Eichinger), e la constatazione che anche in Germania esistesse uno star system. Alcune facce già note (Franka Potente, Moritz Bleibtreu), altre meno (Nina Hoss, Corinna Harfouch, Martina Gedeck, Michael Gwisdek, Christian Ulmen, Tom Schilling). Malgrado il film in sé non fosse epocale, la febbre per Roehler m’è rimasta per qualche anno, il tempo di vedere al cinema Lulu & Jimi (2008), rimasticazione senza vergogna di Wild at Heart, e due grotteschi schizzi autobiografici: Quellen des Lebens (2013) e Tod den Hippies! Es lebe der Punk (2015). Ho pure letto qualche suo romanzo, in particolare l’ottimo Herkunft (2011), spunto di Quellen des Lebens. Il maledettisimo sgarbato, sporco e cattivo di Roehler, spesso mal mutuato da Easton Ellis, è ormai ridicolo, e nella sua filmografia non mancano schifezze che pur di provocare finiscono per confondersi con la materia che trattano – tipo un film del 2018, di cui non cito nemmeno il titolo, tratto da un romanzo di Thor Kunkel, vicinissimo all’AfD.

Duemilasette. In concorso c’è The Walker di Paul Schrader, ma il mio cuore vola verso This Filthy World, teatro filmato a cura di Jeff Garlin che ci restituisce il one man show itinerante di John Waters. Non certo un gioiello della settima arte, ma per chi ama Waters questa testimonianza la dice lunga sulla sua capacità di sopravvivere anche in tempi di magra. Avevo visto A Dirty Shame (2004) in un cinemino parigino e dopo vent’anni il papa del trash deve ancora uscirsene con un nuovo film, anche se sta lavorando alla trasposizione del suo romanzo di debutto Liarmouth. Sapendo di essere ormai un aggettivo, anzi un mondo a parte (vedi titolo del docu), Waters capitalizza dai primi anni Ottanta la propria aura mitica con libricini e altre forme derivate di intrattenimento, ma nulla supera il suo talento naturale di stand-up comedian.

Duemilaotto. Happy-Go-Lucky di Mike Leigh, non nella rosa dei suoi film indimenticabili, ma ennesima dimostrazione di come l’autore britannico sappia raccogliere le sfide più disparate. Accusato di ripetersi con le sue storie popolane agrodolci, in presa diretta, schiacciate sulla contemporaneità, subito dopo la Palma d’oro Leigh fece un film di soli flashback (Career Girls, 1997), poi uno in costume su Gilbert & Sullivan (Topsy-Turvy, 2000). Analogamente, questo film delizioso dominato da Sally Hawkins arriva dopo il Leone d’oro e tenta una strada impervia, cioè quella della commedia senza inciampi. Happy-Go-Lucky di nome e di fatto. Leigh non sarà ricordato per questi esperimenti, ma la sua grandezza è fatta anche dal coraggio di alternare le mille variazioni di una formula perfetta a ribaltamenti traumatici della medesima formula.

Duemilanove. Schrader in gran forma – e la partita si chiude. Adam Resurrected, dal romanzo di Yoram Kaniuk, è una delle prove migliori dello Schrader autonomo. Sta lì con Hardcore, Light Sleeper, Auto Focus. Tema rovente (Shoah), messinscena sempre in bilico tra il sublime, l’infimo e il Jerry Lewis clown straccione. Jeff Goldblum a quattro zampe va digerito con calma.

Duemiladieci. Primo anno di accredito via Indie-Eye, con l’emozione delle proiezioni al Berlinale Palast delle otto di mattina per i film in concorso. Uno di questi è Der Räuber di Benjamin Heisenberg, storia criminale vera, e austriaca, ripresa dal libro di Martin Prinz. La pulizia del cinema di Heisenberg si tuffa nel sudore cutaneo di un maratoneta col vizio delle rapine. Un piccolo classico di cui nessuno si ricorda più.

Duemilaundici. Tutti a parlare di 3D, tutti a parlare di eBook. Un po’ come oggi, tutti a parlare di AI/IA/KI. Probabilmente a vanvera. Zitto zitto, Werner Herzog si fa spiegare come funziona una macchina da presa 3D e ottiene il permesso di addentrarsi nella grotte di Chauvet. Lezione autoesplicativa e ludica sull’uso sensato delle tecnologie, Cave of Forgotten Dreams è Herzog allo stato puro, egomaniaco ed esploratore, estatico e concretissimo. Il momento in cui gioca con la camera manco fosse un trenino appena ricevuto per Natale è una dichiarazione politica sulla libertà del documentario, sulla porosità dei suoi confini e soprattutto sulla necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Brividi paleolitici.

Duemiladodici. Formatosi sotto la DDR, Andreas Dresen è tuttora uno dei più validi registi tedeschi, altalenante negli esiti ma sempre sincero. Il taglio politico può ricordare Ken Loach, ma con qualche tonnellata di ideologia in meno. Lo dimostra ad esempio il documentario Herr Wichmann aus der dritten Reihe, seconda puntata di un improbabile character study iniziato con Herr Wichmann von der CDU (2003). Dresen racconta la quotidianità di un giovane politico democristiano fino al midollo eletto in Brandeburgo, Bundesland dove la CDU non ha mai avuto vita facile. Empatici senza furberie né melassa, i due piccoli film su Wichmann vanno a comporre un trattatello sulla politica tedesca pre-AfD, e dimostrano che un documentario può anche non avere la schiuma alla bocca e lo schemetto pronto in stile Michael Moore. Altri tempi, davvero.

Duemilatredici. Philibert ha vinto la Berlinale nel 2023, ma anche nei vent’anni successivi a Être et avoir ha continuato a fare il suo lavoro di documentarista “di servizio pubblico”, puntuale, informativo e sempre attento al dato umano. Lo dimostra anche La maison de la radio, perlustrazione del Pentagono radiofonico francese, vale a dire Radio France. Non c’è argomento che Philibert non sappia rendere interessante.

Duemilaquattordici. Vedi alla voce Roehler, anzi peggio. Per un periodo sono cascato nelle trappolucce tese da Dietrich Brüggemann, tipo Renn, wenn du kannst (2010) o anche il buffo Heil (2015), ma Kreuzweg avrebbe dovuto valere come un avvertimento chiaro. Esempio da manuale di virtuosismo fumogeno, questo film antireligioso mutua la struttura per tableaux dell’esordio Neun Szenen (2006) e punta all’applauso intellettualoide. Durante la pandemia, Brüggemann si è fatto riconoscere come mente (?) di un gruppo di artisti contrari a qualsiasi misura di contenimento, nel nome della libertà (?). Punti interrogativi che diventano puntini di sospensione.

Duemilaquindici. Forse il film berlinese per eccellenza degli anni Duemila, che regge anche a una seconda visione dopo lo choc della prima. Choc motivato dal fatto che il film, narrativo e in continuo movimento nella notte di Kreuzberg e Mitte, è un unico piano sequenza di più di due ore senza trucco né inganno. Brüggemann, hold my beer! Ma a rendere speciale Victoria, oltre a questo escamotage, è la credibilità di un flusso d’incoscienza tra balli, flirt e rapine sgrause, capace di rappresentare lo spirito di una città davvero libera e manigolda. Sono passati nove anni, e il clima che trasuda dal film è già fantascienza.

Duemilasedici. Primo film berlinalizio che vidi con Yassien, per giunta all’Admiralpalast e in presenza dell’amatissimo Terence Davies. A Quiet Passion segna il ritorno di Davies alla sceneggiatura dopo molti anni, e a posteriori vale come una prova generale del suo ultimo capolavoro, Benediction (2021). Malgrado le tante crinoline e una perfezione formale che può distrarre, quel che conta è la disperazione che pulsa sia in Emily Dickinson, sia nell’occhio che la sta filmando.

Duemiladiciassette. Anno epocale per Raoul Peck, che sbarca a Berlino con un film di finzione sul giovane Marx e con I Am not Your Negro, magnifico documentario su James Baldwin. Baldwin chi? – una domanda grossomodo lecita fino al 2017, che questo film presentato nella sezione Panorama Dokumente (forse la migliore di tutto il festival) ha definitivamente messo fuorilegge. Politica e attivismo per i diritti civili allo stato puro, con un recupero di materiale audiovisivo poi divenuto virale. Ricordo extra di questa Berlinale: la visione di un film davvero nuovo per linguaggio e impostazione drammatica, Félicité di Alain Gomis.

Duemiladiciotto. Riesco a intervistare Szumowska & Englert, con Twarz in concorso, ma il colpo di fulmine avviene tra le corsie di una Metro teutonica: In den Gängen di Thomas Stuber, da un racconto di Clemens Meyer. Se c’è un momento in cui Franz Rogowski e Sandra Hüller fanno il grande salto, è questo, grazie anche al sostegno del coprotagonista Peter Kurth. Stuber mai più così in forma nel portare sullo schermo la sua Lipsia dolente e proletaria. Una delle prime scene, il ballo dei carrelli elevatori a suon di Bach, è roba da pianto dirotto come l’utilizzo del medesimo brano all’inizio di After Hours, in un contesto diverso ma pur sempre lavorativo. Lo sapevate che il meccanismo pneumatico di un carrello imita il rumore del mare?

Duemiladiciannove. Un altro s-consiglio, che però a suo tempo mi rimase in testa molto più dei bei film. Der goldene Handschuh di Fatih Akin, da Heinz Strunk. Prima di trasferirmi in Germania, per me Akin rappresentava il meglio del cinema tedesco contemporaneo. Dopo aver visto questa celluloid atrocity senza ironia decisi di non vedere più film fatti da lui. Nel 2023 ho infranto il comandamento andando a vedere Rheingold – mannaggia a me. In compenso, sempre nel 2023, infrangendo il von-Trier-ban, ho visto la terza stagione di Riget e non me ne pento. Chiusa parentesi. Il filmazzo di Akin sul serial killer amburghese, malgrado la scenografia impeccabile, è un esempio perfetto di come non vada inscenata la violenza al cinema, cioè con un livello di laidume che pervade lo sguardo in maniera acritica, forse complice. Uno dei film più brutti mai visti in vita mia, e mi si perdonerà l’estrema personalizzazione.

Duemilaventi. Ormai rarissimi dato che con la serie Walker si è abbonato alle gallerie d’arte, i film “narrativi” di Tsai Ming-liang aumentano di valore col passare del tempo. Rizi è – finora – l’ultimo di questa maravigliosa graffa, e mantiene intatte tutte le ossessioni, tutte le compulsioni, tutte le squisite ripetizioni del cinema di Tsai, a cominciare dall’eterno protagonista Lee Kang-sheng. In sala, contai le inquadrature (quarantasei). Quanto di più vicino al porno ci possa essere nel cinéma d’auteur come lo intendeva Bazin.

Duemilaventuno. Festival virtuale azzoppato dalla pandemia, sfida non indifferente per Chatrian e Rissenbeek. Il programma è quel che è ma qualche perla c’è, come Una película de policías di Alfonso Ruizpalacios, pseudodocumentario che lancia domandone feconde a noi spettatori. Nella sua frammentarietà, quasi un saggetto sulla metamorfosi del cinema in questi anni di crisi in senso lato.

Duemilaventidue. Dopo tante incertezze, una certezza: Ulrich Seidl. Con Rimini, l’autore austriaco porta alla Berlinale la prima parte non dichiarata di un dittico destinato alla conclusione – choc – con Sparta. In assoluto uno dei migliori film narrativi di Seidl, e forse l’unico al mondo a captare la riviera romagnola senza alcun senso d’inferiorità rispetto a Fellini. La riviera d’inverno come sfondo di un’umanità sfatta e finita.

Duemilaventitré. Qui l’Orso dorato ci sarebbe stato di brutto, ma è comunque un bene che l’abbiano agguantato Nicolas Philibert e i suoi matti. Con Roter Himmel, Christian Petzold torna a una forma smagliante che non si vedeva da Yella e sforna un gioiello che parla di letteratura, editoria e altre miserie. Facendo ridere e piangere.

Duemilaventiquattro. Settantaquattresima Berlinale appena finita, impressioni troppo fresche, ma è impossibile sbagliare segnalando quello che passerà alla storia come l’ultimo film di Edgar Reitz, Filmstunde_23. Qui si apre, potenzialmente, una parentesi lunga come un’enciclopedia vecchio stile su Heimat. Ma forse conviene fare solo un commento di superficie. Con la sua serie infinita, tre “stagioni” e mille bellissimi rivoli, Reitz utilizzò un termine, Heimat, dalla chiara accezione romantica, salvandolo dalle grinfie dell’ideologia nazi e dal genere conciliante degli Heimatfilme. Ora, nel 2024, anno di rischiosissime elezioni a iosa, Die Heimat è il nuovo nome di un partito neonazi fondato nel 1964, la merdace NPD. A questo punto, alas, siamo (di nuovo) arrivati.

immagini viscerali

Sarà perché sto per tornare all’università nei panni dello studente lavoratore e tardone, sarà perché anni or sono le ho voluto tanto bene. Per farla breve, ho ripescato la mia vecchia tesi di laurea e le ho fatto il tagliando. S’intitola Linee di massima pendenza e parla di cinema e filosofia. Spunto, l’immagine-pulsione accennata da Gilles Deleuze nel primo dei suoi trattati scopofili degli anni Ottanta. Obiettivo d’antan: discutere la tesi – correva l’anno 2001 – infliggendo una celluloid atrocity in forma di videocassetta alla commissione accademica.

Ricordo ancora il momento in cui, a casa di mia nonna paterna, lessi il capitoletto striminzito di Cinema 1 – L’immagine movimento che tratta l’immagine-pulsione. Doveva essere il 1998, a suo tempo ero un collezionista ossessivo e corsaro di film in formato analogico, e le poche righe che Deleuze dedica a questo tassello difettoso della sua tassonomia mi lasciarono a bocca aperta. Seppi subito di aver trovato l’incrinatura attraverso la quale passa la luce. Mi attrezzai per un lavorone e ne uscirono quattrocentocinquantamila battute tra il visionario e la schiuma alla bocca. Abituato com’ero a scrivere a mano (a caratteri maiuscoli, come se non peggio di un serial killer), l’esperienza di usare Word sul pc attrezzato con Windows Millennium Edition è stata formativa nel senso agghiacciante del termine. Le tesine le avevo scritte tutte su un computer accessibile via Norton Commander. Refusi e sbavature a balùs.

Questo spiega il tagliando a vent’anni tondi di distanza. Riaprendo il file, l’orrore ha spalancato le sue fauci lovecraftiane fin dal frontespizio, al che mi son detto diamogli una scorsa. Ora il testo è più leggibile, ha delle pagine in meno – roba compilativa inutile – e sebbene le norme adottate siano quelle che sono, stanno in piedi. Il rizoma è salvo, anche se sbuffa e sferraglia come un marchingegno steampunk. Qua e là ho anche aggiustato l’argomentazione e inserito dei passi che portano l’immagine-pulsione negli anni Venti di questa nostra millennium edition. Il file sta qui:

A mo’ di abstract, c’era una volta Gilles Deleuze senza Félix Guattari. Deleuze era un cinefilo compulsivo, e tra il 1983 e il 1985 pubblicò l’opera in due volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Traduzione italiana rispettivamente di Jean-Paul Manganaro e Liliana Rampello, edita da Ubulibri (ora Einaudi dopo auspicabile revisione). Non una storia del cinema, bensì una tassonomia, o meglio una cassetta degli attrezzi – metafora che aiuta a capire l’intero costrutto del pensiero deleuziano. Prima di approdare a una dimensione più cerebrale e postmoderna (quella di cui si occupa Cinema 2), in Cinema 1 il filosofo individua delle “immagini” che vanno pian piano a comporre la sintassi filmica classica. Parte dal primo piano (immagine-affezione, possibilità pura) ma s’inceppa subito in quello che rappresenta lo snodo negativo, devastante e malfunzionante che ostacola il raggiungimento dei solidi stilemi del cinema hollywoodiano (l’immagine-azione). Questo passo falso, che disfa invece di imbastire, che fa terra bruciata e non ci fa uscire dalla sala con un senso di appagamento e conferma, questo Odradek riottoso del grande schermo è l’immagine-pulsione.

Come riconocerla? Da pezzi, abbozzi, sintomi e feticci, dai Triebe freudiani che ci squassano impedendoci di pensare razionalmente. Vettori che puntano al sesso – quasi mai riproduttivo -, alla morte (propria e altrui), al denaro. Storie viscerali che finiscono male. Congegni narrativi carichi come molle, che ti esplodono in mano. Dischi rotti. Ambienti esauriti, corpi sfiniti. È il naturalismo, versione grezza del realismo e al contempo più vera del vero. Perché neanche la realtà ha la battuta pronta e un lieto fine dietro l’angolo.

Deleuze individua due maestri della pulsione al cinema: Erich von Stroheim e il Luis Buñuel allo stato brado, tra Las Hurdes (1932) e la rinascita con Viridiana (1961). In mezzo ci sono i famigerati “film messicani”, allora in parte reperibili solo grazie a Fuori orario. Stroheim rappresenta la forma più pura di immagine-pulsione, autodistruzione compresa. Greed (1924), tratto dal romanzo McTeague dello “Zola americano” Frank Norris, segna il punto di non ritorno per un cinema non solo inguardabile da parte del pubblico di massa, ma soprattutto improducibile a livello finanziario. Non a caso, il film circolò in una versione vergognosamente monca per interi decenni, e col sonoro Stroheim dovette appendere la cinepresa al chiodo. Solo Billy Wilder in Sunst Blvd. avrà il genio e la riconoscenza di farlo riapparire sullo schermo, lui e un altro martire delle metamorfosi produttive di nome Buster Keaton. Nella tesi parlo ampiamente sia di tutti i film diretti da Stroheim, sia del Buñuel costretto alla sua traversata nel deserto. Pur di lavorare, il regista spagnolo accettò infatti per un quarto di secolo progetti spesso alimentari, nei quali riuscì tuttavia a infilare dei semini. Autentica sabbia negli stessi ingranaggi che andava ordendo. Con Buñuel l’immagine-pulsione diventa inserto disturbante, sabotaggio. A una messinscena tutto sommato piana si aggiungono elementi come un cazzotto (o un rasoio) nell’occhio. Los olvidados (1950) ingannò tutti con l’etichetta neorealista quando invece il neo era nero, le scene oniriche invadevano la realtà sotto forma di polli minacciosi e il grottesco, la cattiveria, da marchi d’infamia diventavano semplicemente la misura del mondo. Per sicurezza, Buñuel aveva pure girato un happy end. Altrimenti rischiava di finire lui nella Tierra sin pan.

Il terzo esempio deleuziano di immagine-pulsione, meno presente in Cinema 1, è dato da Marco Ferreri, il fisiologo per eccellenza del cinema italiano. Nella tesi ne parlo con particolare attenzione al corto Il professore, alla Donna scimmia e allo straordinario Break up, versione lunga dell’Uomo dei cinque palloni. In Ferreri l’immaginario pulsionale diventa più pop e stravagante rispetto alle classiche ossessioni stroheimiane o buñueliane per i piedi o gli animali selvatici. Break up racconta la storia di un industriale del cioccolato (Marcello Mastroianni) che s’incaponisce per capire fino a che punto si possa gonfiare un palloncino. A casa ne ha cinque, e quando anche il quinto esplode frustrando il suo intento scientifico – che nel frattempo gli ha desertificato la vita – non gli resta che buttarsi dalla finestra, spiaccicandosi su una macchina nella Milano prenatalizia. Analoghi percorsi verso il fondo, in un assurdo che fa male, si assistono nei ben noti Dillinger è morto e La grande abbuffata. Ferreri è stata una figura mastodontica del nostro cinema, spesso presa sottogamba per via della presunta sciatteria o della bassezza incomprensibile dei suoi temi.

Con Ferreri termina la parte di ricerca classica della tesi e inizia quella sperimentale con la sigaretta nelle narici. Puntando tutto sul verde della roulette, azzardo nomi nuovi nel prosieguo dell’immagine-pulsione secondo la buona vecchia politica degli autori baziniana. Questi nomi sono David Lynch (in primis l’incipit di Blue Velvet, ma anche la striscia di Moebius decerebrata di Lost Highway), Peter Greenaway (che fonde barocco digitale, ossessioni idiosincratiche e carnezzeria) e Jan Švankmajer, surrealista come Buñuel, maestro nel far rivoltare gli oggetti e nel ridurre gli esseri umani a insetti sragionanti. In coda, un cenno a Tsai Ming-liang e a qualche nome – anche nuovissimo – che fa collidere la pulsione col cervello, la fame da zombi con l’emicrania, il genre col gender.

Mentre ero sotto tesi ho avuto il privilegio di intervistare di persona, a Ostia, l’unico accademico italiano che all’epoca aveva sposato con slancio la tassonomia deleuziana: Roberto De Gaetano. La lunga chiacchierata con lui ha segnato il momento più alto di un periodo altrimenti caotico, con un drone in testa e troppi eventi in contemporanea per lanciarsi nell’ascensore senza fili della concentrazione vera. Tant’è che nella versione finale della tesi uno dei nomi ricorrenti compariva col nome di battesimo sbagliato (Roberto Grande invece di Maurizio), Buñuel aveva un segno diacritico ceco sulla n invece della bisciolina giusta e i refusi, anche nei paragrafi chiave, spuntavano come ovolacci. Tutto questo, dopo il tagliando, non c’è più. È rimasto qualcos’altro. Il giorno della discussione proiettai una vhs assemblata poche ore prima con due videoregistratori. Si vedeva questo:

Pure la data di realizzazione di Queen Kelly avevo sbagliato, 1919 invece di 1928-9. Non so cosa dissi, alla fine strinsi la mano solo al relatore capo – che non avevo chiamato chiarissimo sui volumi sfornati in copisteria – tornai a casa in vespa e vidi una mail di De Gaetano che lamentava la cattiva citazione dell’amico Grande. Già lavoravo a tempo pieno da un anno e mezzo: decisi che l’accademia non faceva per me. E rieccoci, come un disco rotto al ralenti, rieccoci qui vent’anni dopo con le stesse immagini in testa, e quache drone in meno.