Melle

Elaborazione grafica delle copertine di Die Welt im Rücken (Rowohlt, 2016) e Haus zur Sonne (KiWi, 2025).

Tra i segreti meglio custoditi della letteratura germanofona contemporanea c’è il fatto che Thomas Melle è un genio a corrente alternata. Non perché sia bipolare, diagnosi devastante che alimenta la parte migliore della sua bibliografia, ma per il semplice motivo che ci sono libri belli, bellissimi con la sua firma e altri, non brutti ma trascurabili, con la medesima firma. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché i libri bellissimi sono ancora inediti in Italia. Qui parlo di due di questi, libri gemelli grondanti sofferenza e speranza, si chiamano Die Welt im Rücken (il mondo sul groppone) e Haus zur Sonne (la casa esposta al sole). Entrambi arrivati nella cinquina del Deutscher Buchpreis, e magari “Haus”, quest’anno, ce la farà, scaraventando il buon Thomas su un bel numero di scrivanie non tedesche.

Quando partecipai all’Internationales Übersetzertreffen nel 2017 all’LCB berlinese, il titolo di quella settimana di workshop e networking traduttivo era proprio Die Welt im Rücken, con Melle ospite d’onore. Mi innamorai durante la sua lettura a voce alta di alcuni passi, con un finale da singhiozzo. Gli dissi che era riuscito a canalizzare un’idea non facile, a tratti impensabile come la morte, cioè la convivenza con una patologia cronica, anzi più che la convivenza un abbraccio incondizionato, compresa la militarizzazione – in senso buono – della malattia in forma di letteratura. Mi lasciai andare a un paragone con gli inizi dell’hiv, in testa più il blu jarmaniano che un qualche corrispettivo letterario. Ricordo la bocca secca alla fine del mio intervento. Melle annuì, mi firmò la copia, ed eccola qui, sulla scrivania, riletta di fresco per prepararmi alla Casa al sole.

Il prologo del Mondo sul groppone recita: “Ich möchte Ihnen von einem Verlust berichten. Es geht um meine Bibliothek. Es gibt diese Bibliothek nicht mehr. Ich habe sie verloren”. Dopodiché, con questo gancio nelle carni, non c’è modo di appoggiare il libro prima di pagina 348. Sempre che apprezziate gli ottovolanti. Perché se siete tipi apollinei da ecfrasi perenne no, Melle non fa per voi. Melle strattona, parte per la tangente, cade e riparte in quinta, spiazza e irrita, poi ti viene vicino e ti sussurra all’orecchio, ti commuove, e riparte, e rispiazza, e buonanotte ai suonatori. Il secondo capitoletto parla di quando ha fatto sesso con Madonna e Björk in quel di Kreuzberg, ovviamente nella sua testa, poi si salta al 1999, un altro balzo fino al 2006, al 2010, pezzi di diario, discettazioni musicali à la Nick Hornby, tanto internet, tanto riflettere sulla comunicazione in internet, aneddoti da far tremare i polsi, pensieri seri sulla malattia, altri rapidi e fuori controllo come una pallottola in uno scantinato pieno di tubi. Non tutto il romanzo tiene, ma è il carburante che lo anima a essere unico, più che nel suo genere (“ibrido”, “anfibio”, cose che sappiamo già) nella sua voce, quell’alchimia misteriosa che trasforma un libro in un auricolare con le tue iniziali sopra.

Die Welt im Rücken è un testamento sulla bipolarità, una preghiera scaramantica per farla finire schiaffandola sulla pagina. Per salvare non solo la propria biblioteca, ma tutto il resto – oggetti, salute, relazioni, reputazione – che finisce regolarmente maciullato dalle fasi di Raserei, quando la mania imperversa e tutto straccia, tutto consuma, anche il tempo. Anni interi di mania. Capitoletto 41 della parte sul 2010, testo: Bin ich nicht. Capitoletto 42, testo: Und wenn Sie wüssten, was da vorher stand. Eccezioni in un romanzo a cuore aperto che non teme di affrontare i temi in profondità, siano essi l’autodistruzione o la passione per Trent Reznor. Un romanzo berlinese, quello di Melle, insieme a David Wagner uno dei pochi capaci di trasmettere il senso di Kiez, di vita oscillante tra rione e metropoli che da sempre contraddistingue il paesone sulla Sprea.

A pagina 140, capitoletto 5 della parte sul 2006, si parla della Haus zur Sonne, idea di Melle per uno spettacolo teatrale (una delle sue occupazioni fisse). Questo è il germe del romanzo uscito poche settimane fa, il secondo dal 2017 dopo il dimenticabile Das leichte Leben (KiWi, 2022). Dimenticabile, trascurabile, come mai? Perché nella Vita facile Melle trama a tavolino azzardando una critica sociale con punte di maledettismo del tutto inefficaci. Funziona meglio, invece, un altro suo romanzo-romanzo, cioè 3000 Euro (2014), che parla di come un deficit finanziario – quello del titolo – riesca a far ruzzolare il protagonista ai piedi della piramide, rischiando di non rialzarsi più dai margini. Più che un plot di finzione pura, un’ipotesi fondata su esperienze vere raggranellate durante le manie. Anche Haus zur Sonne è fondamentalmente fiction, ma questa finzione narrativa si installa nel dispositivo ibrido di Die Welt im Rücken. Quindi sì, è un secondo libro dedicato alla sindrome bipolare, con episodi e riflessioni di un narratore in prima persona che può solo essere Melle. Lo scollamento con quella che possiamo chiamare realtà si verifica però alla prima pagina, quando il protagonista riceve una busta azzurrina e scintillante contenente la risposta positiva da parte della Haus zur Sonne. Una clinica per suicidi.

Come si sono affrettati a scrivere alcuni critici letterari tedeschi, nel libro c’è un lieto fine e dirlo non è uno spoiler. Sia pure psicosi delle ore 4:48, ma il sole sorge ancora. In effetti, Melle ci risparmia il bizzarro corto circuito provocato dalla eventuale dipartita del suo personaggio. A contare davvero è comunque la sua abilità di rendere credibile la rampa della trama, ovvero la decisione incrollabile del protagonista di farla finita – perché la malattia sta vincendo, le preghiere non sono servite, la prossima mania rischia di essere, se non l’ultima, insostenibile quanto a perdite, vergogna, depressione. Ecco allora che il libro decolla, con enorme coraggio, da dove eravamo rimasti col Mondo sul groppone, replicando almeno in parte quella struttura composita, e approda in una clinica fantascientifica, peraltro sovvenzionata dal Bund, che tratta coi guanti i suoi ospiti accompagnandoli fino alla Fine. Non mancano incontri clou tra i corridoi pulitissimi, e somministrazioni di sogni a occhi aperti fondate sui desideri dei pazienti. Un po’ Arancia meccanica, un po’ Qualcuno volò sul nido del cuculo, Haus zur Sonne è una mossa letteraria sul filo di lana con la cazzata sempre dietro l’angolo, salvata in corner dal serbatoio empatico di Melle, dalle cose vere, e da un finale non clamoroso sulla carta ma entusiasmante a leggersi. La vita va avanti.

“Das hier – wirklich weg?” si chiede il protagonista a pagina 244, prima crepa seria nel progetto di ammazzarsi per via istituzionale. Haus zur Sonne è un portentoso breve invito a rinviare il suicidio, senza argomenti giudicanti o sbandate retoriche penose. Il tema viene preso sul serio – e chi ha letto Die Welt im Rücken crede subito alla volontà del protagonista – e altrettanto seriamente viene sviluppato passo passo, firma dopo firma, colloquio medico dopo colloquio medico, finendo per “scegliere la vita”, come direbbe Renton, ma sapendo bene che la vita è tutt’altro che una casa baciata dal sole. Del resto, se così fosse, sai che noia. Ed è questo che rende così speciale Melle. Non l’attrazione per l’estremo, il provocatorio, il cinismo houellebecquiano, bensì un’accettazione dolorosa, assoluta e a occhi spalancati della condizione umana. Fragile, autodistruttiva, malata, geniale, e vivaddio.

[Di Thomas Melle in Italia è uscito solo Sicario (OR. Sickster) nel 2015, ed. Fandango, trad. Fabio Lucaferri].

wishlist immaginaria

Philip Ridley non pubblica romanzi dal 2005. Questa lista di libri che non esistono ma sarebbe bello se esistessero non può che cominciare con l’autore di Crocodilia, Gli occhi di Mr. Fury e Vinegar Street, personalità morrisseyana ed eclettica che in termini quantitativi continua a dominare i miei scaffali di narrativa. I suoi film, da The Reflecting Skin (1990) a Heartless (2010), sono coraggiosi e disturbanti, ambientati in un mondo fatto di minacce, perversioni, gioventù e bellezza selvaggia. Oggi si direbbe queer. Ridley ha la rara capacità di calarti in questo mondo con un’inquadratura, un paragrafo, due battute d’un copione. Negli ultimi anni si è dedicato solo al teatro, e annualmente pubblica una nuova pièce con la puntualità d’una Nothomb. Alcune (The Pitchfork Disney, Leaves of Glass, Feathers in the Snow) sono straordinarie, ma senza l’esperienza diretta della performance manca sempre qualcosa. Sul fronte letterario, Ridley ha pubblicato molto per un pubblico giovane, e il suo ultimo romanzo Zip’s Apollo è per ragazzi. La speranza che torni a scrivere letteratura scapestrata e scapigliata è l’ultima a morire.

Nel 2017 m’incaponii per portare in Italia Thomas Melle, l’autore di Die Welt im Rücken (Rowohlt). Invano. Già pubblicato senza fuochi d’artificio nel 2015 da Fandango (Sicario, or. Sickster, trad. Fabio Lucaferri), Melle è uno di quegli autori che meritano una seconda chance. Oltretutto, bisogna prenderlo quando è in buona. Die Welt im Rücken è un testo anfibio, tra autobiografia e visione allucinata, che parla di bipolarità. La sua. Certi brani mi fanno piangere a comando. Anche Melle è ormai principalmente autore teatrale, e ogni tanto traduce dall’americano. 3000 Euro è un altro suo ottimo romanzo, ancora inedito in Italia, ma Il mondo in groppa farebbe sfracelli con la giusta promozione e la presenza magnetica dell’autore, che non sai mai se ti vuole abbracciare o mollarti un cazzotto. Mi piace pensare che abbia un capolavoro in canna.

Cronenberg dovrebbe tornare dietro alla macchina da presa proprio quest’anno, con un vecchio script à la body horror e il corpo allenato di Viggo Mortensen (peraltro già protagonista del primo lungometraggio di Philip Ridley). La notizia è buona, ma lo è anche lo strano secreto letterario che ci ha propinato poco prima di Maps to the Stars, Consumed (2014). In molti casi, il passaggio alla letteratura da parte di cineasti famosi è poco spettacolare se non marginale (vedi Fountain Society di Wes Craven), ma in Consumed emerge il lato più chirurgico e accademico di Cronenberg, anche se la trama sovraccarica sembra a tratti un bloc notes con spunti e suggestioni – a cominciare dalla Corea del Nord, in pieno hype crescente prima della presidenza Trump. Una seconda prova sarebbe un evento, altro che Tarantino transmediale.

Un appello a Iperborea. Il norvegese Erlend Loe ha alle spalle una produzione altalenante, ma almeno due romanzi con protagonista Andreas Doppler, Vita con l’alce (trad. Cristina Falcinella, 2007) e Volvo (trad. Giuliano D’Amico, 2010), sono da antologia per i tocchi surreali e amabilmente nerd. Da alcuni anni non si traduce più nulla, sebbene l’elenco dei romanzi, a detta di wikipedia, sia in crescita. Che si traduca! Discorso più tristo per il finlandese Kari Hotakainen, autore tra l’altro di Via della Trincea (2009) e La legge di natura (2015), entrambi tradotti da Nicola Rainò. Sembra fermo, Kari, speriamo non sia così.

L’americanissimo (di provincia) Mitch Cullin rischia di passare alla storia come un pony monotrucco, grazie all’indimenticabile A Slight Trick of the Mind (2005, tradotto da Giovanna Scocchera per Giano). Il precedente Tideland (2000, portato sullo schermo da Terry Gilliam) lo colloca automaticamente nei pressi di Philip Ridley per immaginario e tensioni sessuali latenti. Con la differenza sostanziale che Cullin è meno ossessivo, buio, e ha saputo affrontare il proprio orientamento sessuale con discreti risultati in UnderSurface (2002). Da molti anni non si fa sentire, e gli ultimi progetti lasciano a desiderare. Un peccato, perché con Trick ha dimostrato di saper rimasticare un mito altrui (Sherlock Holmes) senza cadere nel mero parassitismo.

Bini Adamczak l’ho tradotta nel 2018 per Sonda, il mio editore del cuore da quando ho cominciato a fare seriamente questo lavoro. Il suo libretto sul comunismo raccontato ai giovini è un grimaldello pazzesco, che prima ti dà uno zuccherino – con tanto di illustrazioni – e nella seconda parte si tuffa in un’argomentazione alta, nient’affatto adatta a giovini lettrici, tanto complessa quanto vibrante. Bini è comunista, e malgrado questo aggettivo sia ormai fuori dal tempo e dallo spazio, riflette una fede ideale ancora capace di generare contenuti affascinanti, motivanti. Belli. Sono anche convinto che questo suo approccio politico nel senso profondo del termine, da agit-prop instancabile, troverebbe una chiave congeniale in ambito lgbt+. Da bini mi aspetto un pamphlet sull’identità trans* di quelli che ti entrano sotto la pelle e te la cavano.

Sempre Sonda, editore del cuore non a caso, diverso attivismo. Doglands (2011) di Tim Willocks, tradotto da me l’anno seguente, è forse il libro che amo di più tra tutti quelli che ho riscritto in italiano. È antispecista senza il ditino alzato, una storia di cani che va oltre l’aspetto favolistico o da novella esemplare. Piacerebbe anche a chi legge volentieri storie di gatti o gabbianelle. È universale, mozzafiato, empatica, e l’autore vi infonde il respiro epico e hard boiled di altri suoi romanzi. Purtroppo, il seguito annunciato anni fa deve ancora vedere la luce. DogLines dovrebbe chiamarsi, strizzata d’occhio a Chatwin nel nome della libertà. Noi si aspetta (poco) pazienti.

Se c’è un autore italiano che mi manca, in forma di libro, anche se non è quello il suo medium principale, questo autore è Spiro Scimone. Insieme a Francesco Sframeli ha fondato quasi trent’anni fa una compagnia teatrale che va esperita, come tutte le compagnie teatrali, a teatro. Han pure fatto un film, Due amici (2002), gradevole bizzarria nel panorama cinematografico nostrano. Al contrario di Ridley, però, i testi scarni di Scimone, i suoi ping pong laconici e lapidari rivivono sulla pagina acquistando un’autonomia insperata. Beckett? Diciamo Beckett. E anche un pizzico di Ionesco. Ubulibri li ha pubblicati almeno fino alla Busta (2006), poi basta.

Mi piacerebbe poi, ma potrei anche dirglielo di persona, che Giuliana Olivero tornasse a scrivere. Il suo tocco abrasivo, evidentissimo nel Calcio di Grazia (Dalai, 2002), ha saputo adattarsi persino al genere “giallo regionale” con La confessione (END, 2014). A suo tempo mi disse di voler scrivere un secondo giallo ambientato nel mondo bovino delle rèine, le vacche da combattimento valdostane. Che poi non combattono mica. Surrealtà, quiete montana e affari sporchi. Un colpaccio assicurato che merita solo di espandersi via word processor.

Due dei libri che letto più voracemente negli ultimi anni sono delle liste. Quella stilata di Christopher Fowler dei “forgotten authors”, uscita in due tempi e formati diversi. E quella, scoperta di recente, dello sfrontato Frédéric Beigbeder, che nel 2011 pubblicò un “primo bilancio dopo l’apocalisse“. Entrambe idiosincratiche e opinabili, ma ricchissime di spunti. Per dirne una, dopo aver letto la classifica dei cento libri prediletti da Beigbeder mi sono riletto il vincitore, American Psycho, e gli ho dato ragione quasi a ogni pagina. Ecco, dovrebbe rifarlo questo giochino. O aggiornarlo un minimo, riflettendo sugli ultimi dieci anni. Fossi in lui, che di pochissimi autori arriva a citare due titoli, arriverei a tre aggiungendo a The Atrocity Exhibition e Crash Miracles of Life (2008), molto più di un’autobiografia ben temperata scritta da un malato terminale su suggerimento del medico curante. E qui il desiderio d’encore sbatte contro un muro, perché Ballard è morto.