modeste proposte editoriali

Immagine di copertina di Ganz normal anders (1989), a cura di Jürgen Lemke. Mann mit Papierhelm, di J.A.W.

Buchi, carotaggi, tagli profondi. Ho raccolto qualche idea per libri da fare, rispolverare, rifare e lucidare, che appoggio qui gratis et amore dei con la premessa forse scontata che son tutte lingue da cui traduco, quindi ci siamo capiti. Spunti copincollabili senza fatica, pur nel rispetto teorico della licenza Creative Commons spalmata su tutti i contenuti di questo blog.

Dal tedesco. Leggenda vuole, anzi storia certificata vuole che il primo Schwulfilm della DDR, Coming Out, per la regia di Heiner Carow, sia uscito la sera del 9 novembre 1989. Facile immaginarsi con quale successo di pubblico. Si sa meno che quello stesso anno uscì, sempre nei territori della Repubblica Democratica, un primo volumetto non fantascientifico né psicofarmacologico sull’omosessualità, ma proprio un libro che dava voce a tredici maschi gay cittadini tedeschi orientali. Si chiamava Ganz normal anders e a curarlo per Aufbau, senza metterci la propria voce né dichiararsi apertamente, fu Jürgen Lemke. Di suo ci sono la commovente dedica “Per Frank” a inizio foliazione e quattro righe a pagina 284 in cui ringrazia le persone intervistate e l’editor Helga Thron. Prefazione tra il nervoso e lo spiazzato di Irene Runge. Ganz normal anders è una strepitosa scatola nera sulla vita in Germania (Est) dalla seconda guerra mondiale in poi. Digiuno di qualsiasi scatto attivistico, ignaro sia dei film berlinoccidentali di Rosa von Praunheim, sia della Kleinstadtnovelle di Schernikau, il libro sembra la scena iniziale di 2001 col desiderio omosessuale al posto dell’utensile osseo. AIDS citata al volo da Bert a pagina 280, con un pizzico di sollievo dedicato alla sua relazione stabile con Rainer. Il tono cambia da intervista a intervista, si va dalle Tunten più sbracate e consapevolmente “capovolte” alle maschie nell’armadio che millantano bisessualità e altre scappatoie. Impagabile da questo punto di vista la conclusione del cinquantenne “R.”: “So, nun muß ich aber langsam los. Mein Zug wartet nicht. Kopfschmerzen habe ich auch von deiner vielen Fragerei. Und es gibt ein ganz falsches Bild von mir, wenn wir uns nur über Männer unterhalten”. Effetto straniamento e macchina del tempo assicurato. Un gioiello rimasto chiuso per decenni nella sua custodia crucca, tradotto solo in inglese nel 1991 – e in lettone.

Dall’inglese. William Friedkin è morto poche settimane fa. A Venezia è stato presentato il suo ultimo lavoro, The Caine Mutiny Court-Martial. Non è questa la sede per parlare dei suoi film, che meriterebbero orecchie su orecchie. Ma forse è questo il momento per farsi una sana overdose di video su youtube che lo vedono protagonista col suo umorismo caustico e la sua rara capacità di fare autoanalisi, spesso autocritica, passando senza colpo ferire dai grandi successi dei primi anni Settanta ai numerosi fallimenti successivi. Epocale la sua risposta a una domanda riguardante la lavorazione di quel capolavoro che è Cruising (1980): I don’t give a flying fuck into a rolling donut about what Pacino thinks. Esattamente dieci anni anni fa, per HarperCollins, è uscita la sua autobiografia, The Friedkin Connection, cinquecento pagine d’oro zecchino che ricostruiscono minuziosamente una delle carriere più incredibili e irripetibili nella storia del cinema americano. Il tomo copre cinquant’anni di film e documentari, fino a Killer Joe (2012), ergo mancano solo l’ultimissimo film e il suo home movie delirante su padre Amorth, che ha messo in difficoltà anche la mia profonda fede friedkiniana. Insomma, poco male, oltretutto come lettura è una goduria e ha una delle chiuse più sincere e devastanti che abbia mai letto, che riporto qui tanto non è uno spoiler: “I haven’t made my Citizen Kane, but there’s more work to do. I don’t know how much but I’m loving it. Perhaps I’ll fail again. Maybe next time I’ll fail better”.

Come si fa a non amare Terry Jones? Il Python tranquillo, quello che metteva d’accordo tutti, invitava la truppa a scrivere a casa sua e quando necessario, senza frizzi né lazzi, si metteva dietro la macchina da presa. Il secondo ad andarsene dopo Chapman, in seguito a un lungo declino cognitivo già ravvisabile durante gli show all’arena O2 nel 2014. Insieme al sodale Palin, Jones amava la goliardia made in Oxford, il Medioevo e le favole. Ne ha scritte un bel po’, e tra il 1990 e il 2002 è pure uscito con Mondadori. Una parentesi che inizia con Nicobobinus (trad. Laura Cangemi) e termina con Lo scudiero e il cavaliere (trad. Giovanni Luciani), entrambi con le magnifiche illustrazioni di Michael Foreman. In realtà quella dello scudiero è una vera e propria trilogia proseguita con The Lady and the Squire (2000) e The Tyrant and the Squire (2018), pubblicato due anni prima della sua morte e probabilmente affastellato a partire da appunti, spizzichi e mozzichi. Nel 2011 però Jones era ancora in piena forma, e diede alle stampe due chicche: la raccolta di racconti Evil Machines, edita via crowdfunding con marchio Unbound, e soprattutto l’esile ma esilarante Trouble on the Heath, una “quick read” di cento paginette a corpo grosso uscita per Accent Press al costo di una sterlina e novantanove. Ambientato nella zona di Londra dove viveva, col parco di Hampstead Heath a fare da sfondo e quasi da personaggio a sé, il libricino frulla cani piscioni, gangster russi e palazzinari in un concentrato tardo-pythoniano efficace e senza un filo di grasso. Non esplosivo come Mr. Creosote, ma a volte contagioso come le casalinghe sfrante interpretate da Terry.

Dal polacco. Letteratura ancora poco nota – soliti noti a parte – e perlustrata a fatica per paura del mondo slavo e dei picchi sconcertanti dell’anima nazionale, quella polacca è uno scrigno col doppio/triplo fondo che merita di spingersi oltre i reportage e i (sacrosanti) premi Nobel. Prendiamo Eliza Orzeszkowa, esponente di spicco del positivismo tardo ottocentesco e di quella che allora si chiama praca organiczna, lavoro organico, tesa al graduale ripristino della Polonia (sud)divisa. Qualche traccia del suo coevo Prus si rimedia sul mercato italofono, ma di lei si sono perse le tracce da esattamente sessant’anni, quando le edizioni Paoline e le del Grifo azzardarono la pubblicazione di un suo romanzetto di 75 pagine. Di tutt’altra levatura Nad Niemnem (1888, “sul fiume Niemen”), uno dei capisaldi della letteratura polacca, che andrebbe recuperato insieme al coevo Lalka (“la bambola”) di Prus. Peraltro, se la prende con la Russia zarista.

Ugualmente importante, e noto almeno tra i cinefili grazie alla trasposizione di Andrzej Wajda, è Popiół i diament (1948) di Jerzy Andrzejewski. Cenere e diamanti (1958) è il film-universo della cinematografia polacca, un concentrato di analisi storica, sociologica e realismo magico oltre la cortina di ferro che non ha perso un minimo della sua energia. Mi fregio, e consentitemi l’inciso nerd, di averlo ancora in videocassetta originale rimediata nell’armadietto del bookcrossing all’istituto di slavistica berlinese. Il romanzo ebbe una genesi travagliata. Uscito nel 1947 con un altro titolo (“Subito dopo la guerra”), pochi mesi dopo venne riscritto dall’autore per rispettare le linee guida del nuovo governo filosovietico, che Andrzejewski sosteneva almeno sul piano ideologico. Successive modifiche arrivarono alla spicciolata fino al 1954. Quindi non è un romanzo: sono almeno due, il primo tutto da disseppellire. Popiół i diament è lo specchio del caos in Polonia durante gli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, tra potenze in ascesa e gruppi clandestini. Ultimo avvistamento in Italia: anno 1961, editore Lerici, traduzione di Vera Petrelli.

Un genere in cui la Polonia ha sempre avuto fortuna grazie a Lem è stato la fantascienza di stampo sovietico, quindi più pensosa, tecnocratica, filosofica rispetto alla media dei volumetti Urania. Un genere inanellato alla perfezione da Tarkovskij negli anni Settanta, quando portò sullo schermo sia Solaris (1972), sia Stalker (1979), cioè Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackij. Leggere Lem al giorno d’oggi non è facilissimo. Io c’ho provato con Solaris, che unisce intuizioni rapinose a impreviste cadute di stile, ad esempio la descrizione razzista di una donna nera che appare, “fantasma su Marte”, al protagonista. La forza di Lem si lascia riassumere dal titolo del suo ultimo romanzo, Fiasco, scritto nel 1986 per conto dell’editore tedesco Fischer, che gli staccò un lauto anticipo. L’umanità non ce la può fare. L’universo non è morto, anzi è vivo e intelligentissimo come l’oceano di Solaris, ma è anche indifferente, incomprensibile e intraducibile, con buona pace della fantascienza occidentale conquistadora e ottimista, vedi Arrival (2016) di Villeneuve. Ma non c’è solo Lem. Sul finire dei fatidici Settanta, in Polonia un romanzo di fantascienza divenne ancor più popolare: Robot (1973) di Adam Wiśniewski-Snerg, recentemente riproposto addirittura da Penguin in una collana di classici SF. Scritto in prima persona non si sa se da un automa o da un individuo, il romanzo è lineare e travolgente nel raccontare un viaggio tra macchinari steampunk, oceani di mercurio e società non lontane da quella, di lì a poco egemonica nell’immaginario collettivo, à la Blade Runner.

Dal francese. La storica Sophie Bessis (Tunisi, 1947) è “juivarabe”. Da sempre sulle barricate per i diritti delle donne nel Maghreb, ha pubblicato numerosi testi sui rapporti tra il Nord e il Sud del mondo ed è una delle pochissime autrici a occuparsi dell’identità ebraica all’interno del mondo arabo. Lo fa ad esempio nel pamphlet Je vous écris d’une autre rive – Lettre à Hannah Arendt (Elyzad, Tunisi 2021). Scritto durante i primi mesi di pandemia, il testo parte da una provocazione per affrontare un tema più ampio e stringente. Bessis lo fa da ebrea tunisina, femminista e amante del pensiero arendtiano, che mette in discussione in quanto di matrice eurocentrica. La tesi è che la materia culturale per un dialogo costruttivo esiste già, soffocata però da nazionalismi e letture manichee. “Cara Hannah Arendt, è stato l’anno scorso, in riva al mare, che ho deciso di scriverle”. Inizia così questo breve saggio che si rivolge all’intellettuale tedesca sull’onda dell’inesauribile risonanza dei suoi testi. “La follia, diceva il suo amico Albert Einstein, consiste nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. E se la nostra follia fosse dovuta al rifiuto dell’Altro?”. Citando un testo contenuto in Politica ebraica (Cronopio 2013), Bessis ricorda come Arendt stessa non veda altra soluzione “per i nazionalisti coerenti, che diventare razzisti”. Secondo l’autrice, il problema dell’impostazione arendtiana è la “negazione dell’esistenza degli ebrei arabi”, come si evince da un suo articolo del 1942, nonché la collocazione dell’intero bacino del Mediterraneo nella sfera d’influenza culturale europea. L’auspicio è che lo stato israeliano ritrovi la propria componente orientale rimossa, disinnescando in tal modo i conflitti che lo minacciano e fanno virare a destra le sue politiche. A patto, ovviamente, che anche il nazionalismo arabo si smussi. “Da troppo tempo gli arabi vogliono essere soli”. L’antidoto all’antigiudaismo arabo sta prima di tutto nella riscoperta di una dimensione cosmopolita. Il testo è strutturato come un’unica, lunga lettera ad Arendt, con un post-scriptum che riflette sul virus come acceleratore dei nazionalismi. Di Bessis esiste un solo libro in italiano, L’Occidente e gli altri. Storia di una supremazia, edito vent’anni fa dalle Edizioni Gruppo Abele. Forse è il caso di tornare con lo sguardo all’altra sponda.

Fliegender Zirkus

Non avevo mai guardato integralmente il Circo volante dei Monty Python (1969-1974). Grazie allo shutdown, e come antidoto alla follia, l’ho fatto. Ben fatto. Parlare dei Python a sette anni dal loro ufficiale, definitivo scioglimento, a uno dalla morte di Terry Jones, a ventuno da quella di Graham Chapman e dopo le intere enciclopedie loro dedicate è una Olimpiade per deficienti come quella da loro realizzata per la televisione bavarese. Quindi procedo a passo – ministeriale – dell’oca.

Gli episodi sono in tutto quarantasette e mezzo. Ai quarantacinque della serie regolare prodotta dalla BBC (13 + 13 + 13 + 6) vanno infatti aggiunti i due strepitosi speciali girati nei pressi di Monaco di Baviera nel 1971 e nel 1972, il Fliegender Zirkus. Peraltro qualitativamente superiori grazie all’impiego della pellicola. Risale al 1971 un’altra chicca, anch’essa in pellicola, girata in occasione dell’Euroshow. Lo speciale sul Mayday. Non è interamente originale ma contiene la leggendaria Flish Slapping Dance, i cui trenta secondi killer saranno riproposti anche nel corso della terza serie. Il pezzo forte dei due episodi “tedeschi” sono gli sketch sportivi, ideati sull’onda delle Olimpiadi. Non è un caso che questi spezzoni ritornino in quasi tutte le successive antologie e come intervalli negli spettacoli live (dall’Hollywood Bowl all’O2). Nella forma letterale di una videocassetta pescata nell’immondizia, il corto sul Mayday viene recuperato durante lo speciale di due ore andato in onda su BBC2 nell’ottobre del 1999. Prima dimostrazione di come i Python, seppur monchi (Graham morto, Idle fisso negli USA), avessero ancora delle cartucce originali da sparare.

Le quattro stagioni “classiche” sono molto diverse tra loro. La prima è un miracolo di scrittura, e non a caso contiene dei classici riproposti (e imitati) senza sostanziali modifiche per cinquant’anni di fila. I gruppi creativi attorno al tavolo di casa Jones sono ben definiti: Cleese e Chapman scrivono assieme (dialoghi serrati, dialettica urticante), idem per Palin e Jones (esplosioni surreali, goliardate visive), Idle scrive da solo (giochi di parole, canzoncine, punchline degne di Tyson), Gilliam sta per conto suo, disegna, anima, crea l’immaginario che renderà unica la comicità dei Python, preparandola al salto cinematografico. Due esempi galattici. It’s a Tree (dal decimo episodio, “Untitled”) e The Visitors, dal nono (The Ant, an Introduction), uno dei migliori a lanciare in pista i sei pitoni insieme a Carol Cleveland. Kammerspiel devastante e rigorosamente anti-woke (ante litteram: siamo nel 1969), lo sketch definisce al meglio i ruoli del sestetto: Chapman “straight man” goffo e impomatato, Cleese aggressivo e impassibile, Jones detonante con le sue risate muliebri, Palin demente e anale, Gilliam grottesco allo stato puro e Idle sfrontato e querulo, munito come al solito di battute al fulmicotone. What is brown and sounds like a bell? Dunnng. La seconda stagione contiene alcuni degli episodi migliori in quanto episodi – The Spanish Inquisition, Spam – e rappresenta un’ottima via di mezzo tra il lavoro di scrittura dello sketch e quello di messa in scena, volto sempre di più a creare un flusso, un racconto d’immagini con elementi che riaffiorano di continuo. L’isolamento dello Science Fiction Sketch (settimo episodio della prima serie), coi suoi ventitré minuti compatti e un po’ brodosi, non si ripeterà mai più. La terza stagione arriva dopo il film And Now for Something Completely Different, che offre alla platea britannica un primo best of di gag rigirate appositamente in pellicola e lievemente imbellettate quanto a resa visiva. Arriva anche con un John Cleese stanco del format e stufo dell’alcolismo di Chapman. L’argomento è delicato e vanta teorie e testimonianze varie come quelle sulla fine dei Beatles. Basti dire che Cleese era già molto famoso prima dell’avvio del Circo volante, scalpitava per realizzare dei progetti in solitaria (e ci riuscirà alla grande con Fawlty Towers) e Chapman, be’, in alcuni sketch della terza serie si vede che legge da un pannello. Una fragilità che spezza il cuore e si riallaccia a quella di Terry Jones nei live all’O2 del 2014. Detto questo, anche la terza serie ha degli episodi d’oro – soprattutto nella prima metà, culmine con l’All-England Summarize Proust Competition – ma risulta un po’ appesantita da un livello eccessivo di sofisticazione: la sigla parte nei momenti più imprevisti, si gioca molto sui falsi finali, lo squalo da saltare è all’orizzonte. La quarta stagione è indubbiamente la più fiacca. Cleese non c’è, l’equilibrio del gruppo collassa. Si salva il segmento iniziale dell’ultimo episodio, Most Awful Family in Britain, mentre l’acconciatura di Chapman nel quinto (Mr Neutron) apparirà come il feto di 2001 nei primi minuti del live anno 2014.

La conclusione del Circo volante segna solo l’inizio di sei carriere tentacolari, al loro meglio quando sono tornate a compattarsi in un’unica, creosotiana creatura. Ovviamente nei film a sé stanti, tutti diretti da Terry Jones, tra i Python quello più attento all’unità del gruppo, capace di trovare il giusto compromesso al momento giusto. Holy Grail e The Meaning of Life recano una chiara impronta Palin-Jones-Gilliam, il primo con l’attenzione al Medioevo, il secondo per il ritorno allo sketch, allo “ripping yarn”, meglio se pirotecnico come Every Sperm Is Sacred. Life of Brian è universalmente considerato il loro capolavoro, e i sei diretti interessati confermano anche perché l’hanno scritto su un’isola da sogno e l’hanno girato in Tunisia invece che in Scozia sotto 16 tonnellate di pioggia al giorno. Mi permetto di dissentire. Il film del 1979 realizzato coi soldi di George Harrison è un classico vero, ma gli manca l’anarchia caotica e pezzente di Holy Grail. Quanto a The Meaning of Life, che rischiò di vincere a Cannes, contiene dei momenti apicali anche in termini cinematografici e lisergici. Il cortometraggio introduttivo, con un Gilliam regista pronto a sfornare Brazil, l’intervallo (The Middle of the Film) e naturalmente lo sketch al ristorante. La mentina è farina del sacco di Cleese.

Nel 1983, i Python erano bell’e finiti come gruppo. Eppure era iniziata una fase nuova, che tutto sommato prosegue ancora oggi. In questa fase il leader indiscusso si chiama Eric Idle, ed è una fase di rimasticamento e adattamento transmediale. Già nel corso degli anni Settanta i Python hanno pubblicato degli album con contenuti originali (Eric the Half-a-Bee, Sit on My Face) riproponendoli con gusto dal vivo. Il Live all’Hollywood Bowl del 1982 è sintomatico di questa propensione al riciclo intelligente, che mischia antiche pepite catodiche con recuperi filologici (sketch pre-Python di Cleese e Chapman, come i quattro gentlemen dello Yorskhire o il wrestler solitario) e soprattutto tanta, tanta musica. Al momento, le quattro stagioni del Circo sono disponibili su Netflix. Ma se dovessi consigliare una mentina propedeutica, allora che sia lo show del 2014 andato in scena con dieci repliche all’O2 londinese. Sì, ci sono cinque maschi bianchi settantenni, quattro dei quali timbrati Oxbridge, determinati più che mai a battere cassa. E c’è l’unica donna della serie originale, Carol Cleveland, riproposta come allora – allegramente troia e senza battute memorabili. Ma il pythonesco è sempre stato così, anapologetically cheeky, maschilista, discontinuo e incline al nudo frontale anche se si tratta di uno pseudomessia. Il live del 2014 è merito del fiuto di Idle, che negli anni precedenti ha saputo mietere successi clamorosi come Spamalot o il rilancio in classifica di Always Look on the Bright Side of Life. Non solo musica e balletti, però: anche una selezione impeccabile di sketch (dal vivo, o riproposti su schermo gigante come le animazioni di Gilliam e qualche carotaggio chapmaniano) e soprattutto il coraggio di osare il ritocco, l’ammodernamento, la strizzata d’occhio dell’ultim’ora. Ecco allora che Cleveland propone a Palin un “blowjob” come alternativa ai cinque minuti di alterco a pagamento, ecco Cleese & Palin che si prendono ampie licenze (ed excursus contro i tabloid) nel rifare il Pappagallo morto. Ed ecco, soprattutto, un Terry Gilliam scatenato e scatologico più che mai, unico Gumby superstite, e un Terry Jones già malato, con deficit cognitivi, che sale sul palco e fa il possibile, abbracciato metaforicamente dai colleghi. In Crunchy Frog, Cleese gli strappa di mano il cartoncino da cui sta leggendo – ed è come il fuck pronunciato al funerale di Chapman. Dolce, esilarante, liberatorio. Prima dell’ultimo rito collettivo, i Python si erano riuniti in occasione dello speciale anno 1999 e, anche se sparpagliati, nel film per ragazzi girato nel 1996 da Jones, The Wind in the Willows. L’ultima occasione che li vede di nuovo insieme, tutti e sei, risale al 1989 ed è in qualità video pessima. Si tratta dell’antologia in VHS Parrot Sketch not Included, aperta e chiusa da uno Steve Martin in stato di grazia. Il quale, alla fine, apre e chiude in un battibaleno un armadio dove sono chiusi i Python, tra cui Graham malato terminale di cancro. Sarebbe morto di lì a poco. La testa di Jones si è spenta del tutto il 21 gennaio scorso. Two Down, Four To Go.