noi mammiferi

Mimi (Emmanuelle Seigner) festeggia Oscar (Peter Coyote) in Bitter Moon (1992) dopo avergli regalato una rivoltella.

Sono trascorsi esattamente settant’anni dal primo ruolo cinematografico di Roman Polański, nel film collettaneo Trzy opowieści (Tre racconti). Una particina nel secondo episodio, tra il giovanilistico e il militaresco, diretto da Konrad Nałęcki. Realismo socialista allo stato puro, che Polański ha sempre detestato. Tra i suoi primi cortometraggi realizzati nell’ambito della scuola di cinema di Łódź c’è Uśmiech zębiczny (Un sorriso dentale, 1957) della durata di due minuti scarsi. Un uomo scende le scale e sbircia da una finestrella che dà sul bagno dei vicini. Vede una donna nuda che si asciuga la faccia. Dopo qualche scalino torna su per godersi nuovamente lo spettacolo, ma stavolta c’è un uomo in pigiama che si lava i denti e gli rivolge il sorriso esagerato e finto tipico di questa pratica igienica.

Nóż w wodzie (Il coltello nell’acqua, 1962) non avrebbe mai passato il vaglio della censura senza l’apporto di Jerzy Skolimowski, che convinse Polański a inserire nei dialoghi qualche accenno alla lotta di classe e al duro lavoro degli operai. I due sembrano una coppia comica. Roman è piccolo, topastro, in Chinatown (1974) Jack Nicholson lo apostrofa con “midget” prima che il minigangster gli recida la narice sinistra. Skolimowski è un aitante ex pugile. Entrambi fecero la gavetta a Łódź anche grazie ad Andrzej Wajda, che li volle in piccole parti in film come Pokolenie (1955) e Niewinni czarodzieje (1960). C’è un forte senso di cerchio chiuso nel fatto che Skolimowski, insieme alla moglie Ewa Piaskowska, funga da cosceneggiatore di Polański per The Palace (2023).

Massacrato dalla critica, uscito in pochissimi Paesi – tra cui l’Italia, anche per motivi produttivi legati a Luca Barbareschi – The Palace è uno sconcertante, orgoglioso cinepanettone sfornato da un regista novantenne. Si tratta anche della sua prima sceneggiatura originale dai tempi di Frantic. Che piaccia o non piaccia, il film sta in piedi proprio grazie alla sfacciataggine. Rispetto ai tempi in cui le autorità polacche lo accusavano di “individualismo pessimista”, non è cambiato granché. The Palace gioca senza batter ciglio con modelli “bassi”, perfettamente elencati da Gordiano Lupi, e sfodera un cast di cariatidi impenitenti. C’è anche Sydne Rome, sintomo di una vicinanza indubbia con un altro film polańskiano dalla pessima reputazione, il verace Che? (1973). Cos’è Che? Risposta: una goliardata messa in scena nella villa amalfitana di Carlo Ponti, che vira al negativo Alice nel Paese delle meraviglie.

L’attrazione di Polański per lo sberleffo secco e l’ineluttabilità di un destino catastrofico è nota. A volte, questo strapiombo si manifesta tramite lunghe inquadrature che ci portano nelle fauci della brutta fine. In Repulsion (1965), la macchina da presa scorre sugli effetti personali della protagonista nell’appartamento ormai devastato, zoomando su una vecchia foto di lei da bimba. Un zoom analogo a quello dei titoli di testa, che esce letteralmente dalla pupilla di lei. In The Ghostwriter (2010), un foglietto passa di mano in mano fino ad arrivare sotto gli occhi della persona che nel giro di un minuto condannerà a morte il suo autore. In The Palace, un travelling rasoterra tra i miseri resti della festa di capodanno scova una coppia di amanti inaspettata. L’unico lieto fine degno di questo nome, per quanto sarcastico, c’è in Carnage (2011). Uno zoom all’indietro con carrello ascendente.

Polański gravita da sempre tra due poli. Da un lato il beckettismo dei suoi primi cortometraggi come Dwaj ludzie z szafą (Due uomini e un armadio, 1958), Le gros et le maigre (1961), Ssaki (Mammiferi, 1962), che nel corso del tempo si tramuta in un gioco al massacro claustrofobico. Dall’altro lo sbraco, la goliardia pura, il kitsch. Un elemento più rischioso, che muove i primi passi col personaggio di Lionel Stander in Cul de sac (1966), in quello di Ruth Gordon in Rosemary’s Baby (1968) ed esplode in Che?, Pirates (1986), Bitter Moon (Luna di fiele, 1992), Carnage, A Therapy (2012), The Palace. Questo umorismo nero, non certo in punta di penna, innerva alcuni dei capitoli meno apprezzati della sua filmografia. Sicuramente Pirati, che vorrebbe far ridere ma fallisce di brutto. Luna di fiele è invece un’ottima sintesi di quello che Polański ama fare, rischiando, e con esiti fortemente altalenanti. La sceneggiatura del film, tratta dal romanzo Lune di fiele di Pascal Bruckner, reca le firme del regista e del suo storico collaboratore Gérard Brach.

In tutto, Polański ha diretto 8 lungometraggi con sceneggiature originali e 14 adattamenti (più Chinatown, scritto da Robert Towne). Luna di fiele segna l’ultima collaborazione con Brach. Si tratta di un film parigino, raccontato in flashback da una nave diretta in India che sta attraversando il Mediterraneo. C’è l’acqua, grande elemento minaccioso dell’universo polańskiano, c’è Emmanuelle Seigner forza della natura, c’è una doppia coppia di protagonisti in conflitto, tra attrazione e repulsione – meglio che in Carnage – e c’è una festa di capodanno letteralmente terminale. I ricconi che vomitano in barca li ha inventati Polański, e gli è bastata un’inquadratura. Nella sua decadenza a tratti implausibile, la spirale discendente di Luna di fiele dimostra tutta la forza, e tutta la debolezza, della visione del mondo polańskiana. Una visione programmaticamente, schematicamente provocatoria, decisa a tavolino e accompagnata da un risucchio visivo improvviso, scompaginante. All’apparenza classici, quasi hollywoodiani, i suoi film dell’età matura a ben vedere portano all’estremo questo metodo minuzioso che innesta in un découpage “standard” uno schiaffo ben assestato. Luna di fiele, confezionato come un thriller erotico decadente a un anno da Basic Instinct, con le musiche di Vangelis (!), è Polański al cubo, commovente e insopportabile, non per tutti i palati – grazie al cielo.

In Luna di fiele, Mimi conficca a terra due oggetti contundenti: prima un rasoio, poi una siringa. L’effetto è lo stesso del coltello che cade dalle mani di Rosemary (Mia Farrow) nella sequenza finale del film anno 1968 tratto da Ira Levin. Polański non ha mai preso sul serio l’horror. The Fearless Vampire Killers (1967), tra i suoi film più mansueti, è in realtà una parodia pre-Mel Brooks che diventa esilarante con la celebre gag dello specchio. Rosemary’s Baby è un film horror senza effetti speciali, eccezion fatta per due manone diaboliche che qualcuno sembra aver staccato dal mostro della laguna nera, eppure è terrorizzante. Tutto merito delle sue ellissi e di questa ultima sequenza di penetrazione nell’appartamento dei vicini senza la quale Dario Argento non avrebbe mai potuto ideare la conclusione di Suspiria. Negli extra del dvd, Polański scherza sostenendo che Rosemary potrebbe essersi immaginata tutto quanto. E in effetti, facendo un passo indietro, potrebbe essere una burla di pessimo gusto. Ciò detto, sfido chiunque a non uscire dal tunnel del film senza la certezza che Rosemary abbia messo al mondo il rampollo del demonio.

L’elemento più orrorifico nei film di Polański sono i vicini. Una volta raggiunto il culmine della sua follia, Carole (Catherine Deneuve) riceve la visita, una vera e propria home invasion in forma di processione, dei vicini curiosi. Fa più paura la loro presenza appiccicaticcia che l’evidenza dei delitti di Carole. The Tenant (1976, da Le locataire chimérique di Roland Topor) è uno dei capolavori Brach-Polański. Anche qui, il terrore non ha bisogno di effettacci o violenza: sono i vicini, che ovviamente complottano, che ovviamente ci tengono d’occhio notte e giorno, che ci vogliono far impazzire, che ci vogliono trasformare nella persona che occupava l’appartamento prima di noi (e che, ça va sans dire, è schiattata in malo modo), sono loro a incarnare l’orrore. L’orrore è una persona in piedi per ore nel bagno al piano, dirimpetto alla nostra finestra.

Le tracce horror presenti in altri film sono red herrings, indizi che non portano da nessuna parte. In Macbeth (1971) le streghe ci devono essere per forza, ma a suscitare emozioni forti è soprattutto la breve sequenza concatenante a base di specchi, replicata più goffamente, in un digitale invecchiatissimo, nei titoli di testa della Nona porta (1999). Malgrado il suono sembri restituirci delle urla arcane, la Stonehenge che appare in Tess (1977) non vuole suggerire nulla di ultraterreno, semmai creare un’atmosfera spiazzante che anticipa la tragedia. “All of them witches” sono e restano i vicini di Rosemary, di primo acchito normalissimi. E se lo fossero davvero?

L’asso nella manica di Polański è l’esplorazione di un luogo chiuso, o di una risicata figura geometrica di personaggi. Tre in Nóż w wodzie e in Death and the Maiden (1994), quattro nei già citati Luna di fiele e Carnage, due e riga nel tour de force de La Vénus à la fourrure (2013), con Amalric e Seigner da annali. In questi luoghi è spesso la donna a dare il la. La prima moglie di Polański, Barbara Lass, è un’apparizione angelica in Due uomini e un armadio e Gdy spadają anioly (La caduta degli angeli, 1959). Deneuve dà corpo a tutta Repulsion, apparendo in ogni singolo inquadratura. Sharon Tate grazia The Fearless Vampire Killers con la leggiadria di Lass, salvo mostrare i denti nel finale. Nastassja Kinski veste i panni dolenti di Tess con la stessa caparbietà di Deneuve. E da Frantic in poi, la maîtresse indiscussa è Emmanuelle Seigner, con l’eccezione di Sigourney Weaver in Death and the Maiden.

Altri temi ricorrenti sono l’antisemitismo e la letteratura. Sommerso da critiche ormai ideologiche a causa della fedina sporca del regista, J’accuse (2019, dal romanzo di Robert Harris – come The Ghostwriter) è una disamina scientifica di come funziona l’odio nei confronti degli ebrei. Un film solidissimo, classico nella struttura ma spietato nel suo gioco di leve e ingranaggi, che si ricollega direttamente a un’altra storia vera, quella del Pianista (2001) – per certi versi, anche la storia di Polański. L’antisemitismo ha un posto di rilievo, molto più sottile, in Oliver Twist (2005, sceneggiatura di Ronald Harwood), adattamento dickensiano che poggia interamente sulla figura di Fagin interpretata da Ben Kingsley. Pur essendo un poco di buono che sfrutta i ragazzini, nel finale tutta l’empatia si riversa su di lui e sul patibolo che lo attende. Davvero un lupo vestito da agnello questo film “per famiglie” che in realtà scombina le carte alla maniera sottocutanea del miglior Polański.

Meno riuscito il filone più letterario, che consiste non solo in adattamenti, ma in storie che vogliono riflettere sulla letteratura. Si parte con The Ninth Gate (1999) da Arturo Pérez-Reverte, passando per il thrillerone su Tony Blair The Ghostwriter, fino a D’après une histoire vraie (2017, da Delphine de Vigan). Ghostwriter a parte, gli altri due titoli sono degli indubbi pesi mosca nella filmografia polańskiana, un po’ come La rivière de diamants (1964, episodio del film Les plus belles escroqueries du monde, prima produzione internazionale per Roman) e The Palace, peso mosca sì, ma che ronza. Se La nona porta tenta di ripetere i colpacci hollywoodiani di Rosemary’s Baby e Chinatown senza tuttavia trasmettere un reale senso di minaccia, il film con Seigner nei panni di una scrittrice in crisi è davvero un’opera senile, fragile e poco seducente, con suggestioni lesbiche imparagonabili al ciclone di Bitter Moon.

La musica ha sempre un ruolo di primo piano. Il geniale Krzysztof Komeda, morto giovanissimo nel 1969, ha accompagnato Polański dalla fase dei cortometraggi fino alla ninna nanna di Rosemary’s Baby. Un esempio per tutti: i titoli di testa di Cul de sac. Philippe Sarde ha composto l’indimenticabile tema di Le locataire. Wojciech Kilar, deceduto nel 2013, ha siglato la colonna sonora di The Ninth Gate, The Pianist, Death and the Maiden (in cui però, già nel titolo, stravince Schubert). Dal 2010 il regista si avvale della collaborazione di Alexandre Desplat, il cui piglio brillante e minimalista funge da contrappunto perfetto per le sue storie buie o sbracate. Lo si vede molto bene nel corto A Therapy, marchetta per Prada in cui un Ben Kingsley terapeuta s’innamora della pelliccia di Helena Bonham Carter mentre lei è stesa sul lettino. Venere in pelliccia prima di Venere in pelliccia.

I film di Polański amano insediarsi nei non-luoghi, sulle barche, in villette e isolette, a un passo dalle scogliere, tra quattro mura che sono prigioni dorate – ma anche nelle grandi città. Le due produzioni hollywoodiane di Robert Evans che lo hanno lanciato definitivamente hanno come sfondo New York (Rosemary’s Baby) e Los Angeles (Chinatown). Londra è un personaggio a sé in Repulsion e Oliver Twist. Varsavia, o meglio una Varsavia ricostruita, fellinianamente finta, è sinonimo di The Pianist. Amsterdam e le sue stramberie affiorano ne La collana di diamanti. In questo ambito, Parigi ha un ruolo speciale. La torre Eiffel si vede da lontano nel cortometraggio Le gros et le maigre, ambientato attorno a una casupola su una collinetta. Polański, che fa “il magro” angariato dal “grasso”, alla fine avrebbe la possibilità di fuggire nella metropoli ma resta dov’è, circondato da tanti fiorellini. Parigi, spesso livida, più stradale che cartolinesca, funge da sfondo anche per Le locataire, per l'”intrigo internazionale” con lieto fine obbligatorio di Frantic, per Luna di fiele, Venere in pelliccia, Quello che non so di lei. Ma a prescindere dalle coordinate, quel che è conta è il livello di minaccia. Mentre nei film di Woody Allen c’è sempre uno sguardo turistico, innamorato, c’è l’abbraccio delle location, in Polański il luogo è lì per ostacolare, angosciare, far fuori.

Il corto Morderstwo (Omicidio, 1956) impiega meno di un minuto e mezzo per mostrare una porta che si apre, un uomo in impermeabile nero che entra, si dirige verso un uomo che dorme, gli pianta un coltellino nel petto e se ne va. L’assassino si vede in faccia prima che esca: è paffuto e baffuto. Cammina usando un bastone. Le inquadrature sono tre, con movimenti di macchina essenziali. Noi restiamo lì, nella stanza, testimoni impotenti che hanno visto tutto. Come ci sentiamo? C’è piaciuto? Vogliamo ripetere l’esperienza? A settant’anni di distanza le domande son sempre valide, e le risposte sono: insomma, sì, eccome.

Unheimat

Vitus Zeplichal è Hille Vavra in Das Unheil (1972)

In quest’orecchia scritta sotto antibiotici (Amoxicillina 500, 3 volte al dì) si parla dei film narrativi di Peter Fleischmann, nome noto ai collezionisti di videocassette pirata dei decenni andati. Fleischmann ha avuto un momento di gloria sul finire degli anni Sessanta, dissipando questo credito nel corso dei vent’anni successivi. Spesso avvicinato alla rosa del Nuovo Cinema Tedesco, non troverete il suo nome in calce al manifesto di Oberhausen (se è per questo, nemmeno i nomi di Herzog, Fassbinder o Schlöndorff) ma è proprio durante l’epoca d’oro del cinema autoriale germanofono che Fleischmann ha tentato di profilarsi, interpretando il ruolo del provocatore caustico, del Querdenker, del Nestbeschmutzer. Termini invecchiati male, tant’è che una delle ultime interviste a un Fleischmann ormai senile legge Die Hamburger Krankheit (1979) in un’ottica antivaccinista. Autore “contro”, Fleischmann, lo è sempre stato, in maniera disordinata e un filo pretenziosa, eppure i suoi film contengono cazzotti che fanno male ancora oggi. A cominciare dallo smontaggio, e alla riscrittura, dell’Heimatfilm.

Come i succitati “pensatore obliquo” o “insozzator del nido”, anche Heimat non è facile da tradurre e va adattato di caso in caso. Il concetto è comunque chiarissimo: la Heimat è il posto da cui si proviene e dove si sente il calore di casa. Fin dagli anni Trenta, il cinema germanofono ha elevato a genere questo luogo dell’anima, contaminandolo immediatamente di elementi politici. Nessuno degli Straßenfilme urbani dell’epoca, come Asphalt (1929), odorava d’Heimat, mentre invece Riefenstahl e Trenker hanno sempre girato Heimatfilme, meglio se in alta montagna o in luoghi d’esilio da colonizzare (o purificare). La patria interiore ha bisogno d’aria frizzante e panorami mozzafiato – e allora anche Tutti insieme appassionatamente è un Heimatfilm, a maggior ragione perché tratto da un best seller austriaco (Vom Kloster zum Welterfolg di Maria Augusta Trapp, 1952) e remake di Die Trapp-Familie (1956) di Wolfgang Liebeneiner, regista della scuola di Goebbels e fulgido esponente di quel “cinema di papà” avversato dal Neuer Deutscher Film. Nell’Heimatfilm, l’origine seda e appaga. Il suo destino è l’armonia. Fleischmann spacca per la prima volta in maniera programmatica questo paradigma con Jagdszenen aus Niederbayern (Scene di caccia in bassa Baviera, 1969), dopodiché, sempre in ambito bavarese, sarà Herbert Achternbusch a prendere il testimone della sovversione costruendo un percorso originalissimo e, in fin dei conti, rappacificante. In Achternbusch lo sberleffo è sempre dialettale, mentre Fleischmann prende le distanze dal suo tabellone prima di lanciare le freccette.

“Scene di caccia” nasce come pièce teatrale per mano di Martin Sperr nel 1966. Si tratta di una delle prime opere di successo ad affrontare di petto il tema dell’omosessualità nella bacchettonissima Bundesrepublik ancora dotata di paragrafo 175. Sperr e Fleischmann scrivono insieme la sceneggiatura, Sperr interpreta anche il protagonista Abram accanto ad Angela Winkler (Hannelore), futura Katharina Blum per Schlöndorff. La storia narra del ritorno al paesello di un ragazzo che ha fatto un periodo di galera per essere stato colto in flagranza di frocioreato, ma prima che scatti la caccia tra i boschi eponima dell’opera Abram si macchierà di un delitto ancora peggiore. Né la pièce, né il film hanno finalità educative o attivistiche limitatamente ai diritti civili. Ma anche il film di debutto di Rosa von Praunheim, Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971) mischia agenda barricadera e profondo cinismo nell’affrontare il tema. Le carəzzə dei giorni nostri non andavano per la maggiore. A rendere memorabile il film di Fleischmann è tuttavia un altro contrasto, estetico-morale. La fotografia in b/n di Alain Derobe e i fluidi, lunghissimi movimenti di macchina riproducono tutta la bellezza dell’Heimatfilm, che va a infrangersi contro la superficie inumana di quasi tutti i personaggi, contro il loro comportamento irregimentato e protonazi, le teste di maiale che finiscono sotto la mannaia. L’atteggiamento furbescamente stroheimiano di Fleischmann, consapevole di aver confezionato il film che i bavaresi (e i tedeschi) avrebbero amato odiare andò incontro a platee in rivolta e critici in sollucchero. Con Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach (1971) Schlöndorff non riuscirà a essere altrettanto sottile e crudele sciroppando immagini in bianco e nero dalla Germania profonda. Nel 1981 Edgar Reitz, lui sì firmatario di Oberhausen, ripristinerà l’Heimatfilm in chiave autoriale e conciliante con i primi episodi in b/n dell’omonima serie, mantenendo questa impostazione fino alla pellicola Die andere Heimat (2012). Das weiße Band (2009) di Michael Haneke è senza dubbio un anti-Heimatfilm, molto in debito con Fleischmann.

Das Unheil (1972) cerca di ripetere il colpaccio, stavolta sulla base di una sceneggiatura scritta insieme a Martin Walser. In parallelo, Wenders e Handke stavano lavorando alla Paura del portiere prima del calcio di rigore. La storia, ambientata in un’anonima cittadina dell’Assia, è quella del maturando Hille Vavra, vicino a posizioni di estrema sinistra e rampollo di una classica famiglia borghese. Il padre, pastore, pensa unicamente alla conservazione delle campane e alle celebrazioni per i tedeschi di Slesia sfollati in seguito alla guerra mondiale. Hille è svampito, va malissimo in latino e quando la proprietaria del negozio di animali gli chiede di occuparsene per un paio di settimane, lui se ne scorda con conseguenze tragiche. In un certo senso, la sventura del titolo è il protagonista stesso. Sul finale la catastrofe colpisce tutta la comunità, con un’industria che inquina le acque e una rivolta raccontata con toni che ricordano il Lindsay Anderson di If…. (1969). Notevole anche la sequenza nel seminterrato arredato di tutto punto con gli anziani che cantano Heimat, Heimat, che vista oggi sembra il trailer ante litteram di Im Keller (2014) di Ulrich Seidl. Su vimeo si possono vedere i primi minuti del film, disponibile per il noleggio digitale in versione restaurata. Per molti anni Das Unheil è scomparso dai radar, e ora colpisce come i piani sequenza di Fleischmann, la macchina da presa che insiste, accompagna e insegue (persino una piuma, in barba al banale) creino un’atmosfera molto più dei temi sociali inseriti a mo’ di pasquinate. L’ossessione di Hille per un giochino idiota a molla, simile alla pallina di gomma di Michele Apicella, spalanca più abissi della critica alla società ingessata.

Dorotheas Rache (1974) è un film da prendere con le molle. Non è un caso che manchi dal sito ufficiale che gestisce il lascito di Fleischmann, mentre invece è stato recuperato via deep dark web sul meritorio rarefilmm. L’unico posto, peraltro, dove si possono vedere i primi tre film di Christian Petzold, prodotti per la televisione. Scritta insieme a Jean-Claude Carrière (una manovra per qualificarsi come il Buñuel teutonico) e con una colonna sonora di Philippe Sarde, la pellicola è una parodia scoperta dei cosiddetti Aufklärungsfilme, vale a dire i film “educativi” girati per spiegare gli argomenti più delicati. Il primo film in assoluto sull’omosessualità, Anders als die andern (1919, di Richard Oswald), è un Aufklärungsfilm con comparsata serissima del sessuologo Magnus Hirschfeld. Cinquant’anni più tardi, il genere funge semmai da giustificazione per immersioni pruriginose tra il porno soft e il mondo movie. In questo caso pediniamo la protagonista (Anna Henkel) in una spirale, piuttosto indigesta, di voyeurismo ed exploitation, femminista nelle ambizioni ma ultramaschilista nell’esito. La “vendetta” di Dorothea consiste, alla fine del girone infernale, nel rititarsi in campagna coi suoi amici coetanei e spassarsela senza che il nostro occhio batailliano possa continuare a fare il peeping Tom. Dietro di lei vengono tirati dei tendaggi rossi, e Dorothea svanisce in dissolvenza con un gatto in braccio. Lei, la sua Heimat, l’ha trovata. Se esiste un modello per la trasposizione cinematografica di Der goldene Handschuh (2019) a cura di un Fatih Akin allo sbraco, è questo. A cominciare dall’uso che Fleischmann fa delle canzoni Schlager più melense, vere protagoniste musicali del film. La dolcissima Dorothea (questo il titolo italiano) è una celluloid atrocity figlia del proprio tempo. La negatività escoriante delle Scene di caccia diventa qui un mostrare e un osare a tutti i costi in evidente concorrenza col porno, dal quale non sempre riesce a distinguersi, né facendo leva sul grottesco, né ricorrendo all’umorismo (anche Deep Throat è un film umoristico). E allora il film si apre con una Dorothea in cenci reduce da un incontro ravvicinato di quel tipo là, per il quale ha ricevuto in regalo dagli alieni uno strano uovo cosmico fumante. I genitori, al solito borghesi e un po’ citrulli, si domandano se la pillola funzioni anche in casi come questo. Fleischmann e Carrière danno spazio alla prostituzione improvvisata, alle pratiche estreme (con un cliente crocifisso dalla gamba amputata), persino alla pedofilia e all’incesto. A un certo punto compare Gesù Cristo (simil-hippie) che dice alla protagonista: “Schlafe mit Kindern und Narren, und Du wirst glücklicher sein”. Detto fatto: Dorothea approccia uno scolaretto per strada – salvo essere poi scacciata dalla madre – e si concede a un pazzo vagabondo mentre una giovane donna utilizza le sbarre del passeggino per masturbarsi al ritmo dell’amplesso. Situazioni gratuite e drammaturgicamente piatte che trovano però un corrispettivo diretto nella volontà di provocare (per provocare) di pellicole coeve come Sweet Movie di Dušan Makavejev o anche il Salò di Pasolini. Sono gli anni Settanta, bellezza. In un’altra scena, Dorothea mette il padre in imbarazzo ipotizzando di andare a letto insieme. Cosa che non succede (e ci mancherebbe). Meno maledettista ma più curiosa, a quasi mezzo secolo di distanza, è la professione del padre interpretato da Günter Thiedecke, imprenditore che fa Lachsäcke, letteralmente bisacce che, se scosse, riproducono il suono di una risata. Bisacce e altri articoli demenziali degni dell’ispettore Clouseau. La scena in cui si vede la catena di montaggio di questi dispositivi vale tutto il film. E il dramma vero, nel contesto slabbrato della trama, è che la concorrenza dell’Estremo Oriente sta facendo fallire la fabbrica, tant’è che alla fine l’uomo è solo nello studio di registrazione a incidere le proprie stesse risate. Possibili metafore a non finire, valide ora come allora, sul capitalismo e oltre.

Il film successivo di Fleischmann, Der dritte Grad (La faille, 1975, titolo italiano La smagliatura), è un poliziesco kafkiano tratto dal romanzo Lo sbaglio di Antonis Samarkis. Trio di attori di richiamo (Piccoli-Tognazzi-Adorf) scaraventati sotto il sole del Peloponneso. Musiche di Morricone, almeno una scena memorabile (il barbiere sudato) e la sensazione di un progetto a tavolino che strizza l’occhio a quattro mercati europei e a due fenomeni cinematografici di quegli anni, cioè i film di Petri e di Costa-Gavras. Esito tutto sommato neutro – con due dettagli che restano nella testa, guarda caso giochini kitsch: un “labirinto del minotauro” di plastica da manovrare manualmente per farvi zigzagare una pallina metallica, e uno strepitoso accendino robotico cosparso di conchiglie che Adorf mostra con orgoglio durante una cena al ristorante. La faille si recupera solo in dvd raschiando il fondo del barile. Altrettanto irreperibile Frevel (1983), storia dall’impostazione gialla con Fleischmann anche attore protagonista e la colonna sonora di Brian Eno. Questo a dimostrazione di come il regista fosse non solo attento all’avanguardia musicale, ma anche un nome spendibile ad altissimi livelli. Complice Il morbo di Amburgo (1979), una zampata scomposta ma assimilabile a Scene di caccia per eco di critica e pubblico. Stavolta il co-sceneggiatore di Fleischmann è addirittura Roland Topor, reduce dal successo di Le locataire di Polański. L’apocalisse sociale si compie sotto forma di un’epidemia misteriosa che si diffonde per via aerea e colpisce in maniera imprevedibile: gli infetti s’immobilizzano di colpo, cadono a terra, si mettono in posizione fetale e muoiono. Schiatta anche il cancelliere. Nella seconda parte del film portano tutti le mascherine chirurgiche. La colonna sonora include la kosmische elettronica di Jean-Michel Jarre, che veicola alla perfezione un’atmosfera fantascientifica. In realtà a Fleischmann interessa solo portare avanti il suo vecchio giochino: tesi provocatorie che non stanno in piedi, sabotaggi e frecciate. La lettura più facile è quella della natura che si ribella – all’epoca Joseph Beuys era su tutti i giornali, stavano nascendo i Verdi – ma la pellicola non è trainata da una logica di genere. Il virus non è interessante. Nell’economia della sceneggiatura colpiscono di più la morte dell’eroe – o presunto tale – a metà film, Fernando Arrabal nei panni di un disabile in sedia a rotelle (Ottokar), arrogante come tutti i maschi adulti incontrati da Dorothea, e una persona intersex denudata per épater le bourgeois. L’apparizione delle guardie bavaresi nella seconda parte è un chiaro richiamo a Scene di caccia. Il finale è una cannonata a parte, e visto che il film è disponibile su youtube coi sottotitoli sconsiglio la lettura del resto del paragrafo se si ha intenzione di vederlo. La protagonista femminile, Ulrike (Carline Seiser) sopravvive e si ritira nella propria Heimat insieme al nonno. Ed è proprio lui, che canta uno yodel decerebrato nella baita mentre la final girl viene portata via in elicottero dalle autorità – a scopi di vaccinazione coatta, vecchissima paura crucca – a segnare ancora una volta il KO per uppercut dell’Heimatfilm. Assurda e contagiosa, questa è l’ultima risata sguaiata a firma Peter Fleischmann.

Nel 1989, con 35 milioni di marchi di budget, il regista conclude il decennio d’oro del botteghino tedesco occidentale col flop che affosserà il resto della sua carriera. Es ist nicht leicht, ein Gott zu sein (Non è facile essere un dio) è la trasposizione di un classico della fantascienza sovietica di Arkadi e Boris Strugazki, sceneggiata ancora una volta insieme a Carrière. Fantascienza filosofica (i fratelli Strugazki sono gli autori di Stalker) tutta rocce, deserti, complotti e parrucconi grigi di nylon. Effetti speciali ridotti al minimo, messinscena teatrale. Ci sono Pierre Clementi nei panni di un sovrano isterico e persino Werner Herzog in un cameo che termina al minuto 16 con due lance nella schiena. Mero esperimento di Ostpolitik cinematografica a pochi mesi dalla caduta del Muro, il film si traduce in una maldestra allegoria della propensione umana alla barbarie. Colonna sonora a cura di Hans-Jürgen Fritz, piena di flauti sudamericaneggianti, e pezzone finale da juke boxe – It’s Hard to Be a God! – cantato da Grant Stevens. Chiunque egli sia. Nel 2013, prima di morire, Alexei German girerà una versione terragna e in bianco e nero del romanzo. Nel frattempo nel cinema tedesco è forse emersa un’unica personalità affine a Fleischmann, Christoph Schlingensief, fustigatore dell’Heimat – intesa come patria nazionale – e della CDU con i suoi happening pieni di attori fassbinderiani, unica concessione all’Autorenkino in film altrimenti brutti, sporchi e cattivi. Schlingensief è morto nel 2010, Fleischmann nel 2021. Oggi nessuno ha più voglia di frullare insieme distopie facili, bordate sociali e umorismo da whoopee cushion. Un male?

Edward Żentara e Werner Herzog in Es ist nicht leicht, ein Gott zu sein (1990)