Il Terzo Libro di Elia

Le mani di mio figlio fanno sollevamento pesi con un tomo di Nagib Mahfuz (o Nobel o niente).

Chiamatemi Dedda. Dev’essere successo in giugno, cioè trilioni di anni fa, quando Yassien mi disse che nostro figlio mi chiamava Dedda. Pensai prima a un’ipotesi fragile e affettuosa, poi a un caso di polisemia omofona, poi ebbi davvero il sospetto che Elia mi chiamasse, come mi chiama ancora, Dedda. Spesso sovrappensiero, giocando col ciuccio, quasi a dire quel tonto di Dedda, che robe che fa. A volte si canta da solo una didda dadda (dedda). Decisione filiale, insindacabile, come quella di chiamare Yassien Bebè. Quindi il babbo è Dedda, il papà è Bebè. E PucciPatati è PucciPatati è PucciPatati.

Trilioni di anni fa eravamo ancora nel socialismo, in un Plattenbau, con un bimbo koala che schizzava sul laminato muovendosi a foca sul dorso per la disperazione della fisioterapeuta, convinta che senza il passaggio del gattonamento Elia sarebbe cresciuto male, idiosincratico, con una rotella di meno. E ora? Ora siamo per la prima volta in una città città, che potrebbe essere Berlino ma chiamiamo Neukölln, con nessuna voglia di uscire dai suoi lontani confini. In casa, alla larga dalla botola che porta in cantina, c’è un bimbo koala che schizza sulle tavole di legno gattonando alla grandissima, urlettando quando si sente inseguito, con una voglia matta di sballottare tavolini, distruggere vasi, abbattere router e afferrare dizionari dal peso medio di un chilo. Le prese son già tutte tappate, ma i cavi abbondano e non c’è nulla di più indianagiòno che tirarli sperando di portarsi dietro una lampada o di assaggiare questi meravigliosi spinotti voluti dalla UE. Ma anche in questo mondo di avventura ci sono delle costanti introdotte ai tempi del socialismo e degli pterodattili, ad esempio il cane parlante Fisher Price dalle orecchie blu che ogni tanto canticchia con voce femminile: “Dov’è il pollice / dov’è il pollice / Eccolo qua / Eccolo qua / Come sta signore / Molto bene grazie / Vado via / Vengo anch’io”. Il costruttore s’è scordato il no tu no.

L’ode che non ho mai levato a Kreuzberg e Friedrichshain potrei scriverla adesso per Neukölln, questo universo autonomo e vispo al quale, in quasi vent’anni, non avrei dato tre copeche. Al massimo due. E ora mi chiedo, ma cosa ho fatto prima, perché ho aspettato tanto, come ho potuto essere così cieco? Già la Hermannstr. che porta a casa è una marcia trionfale di falafel sottocosto, insegne lovecraftiane, manieri abbandonati e cimiteri apollinei. Per tacer dei figuri che la popolano, categoria a cui apparteniamo anche noi, felici come pasque con la borsa della spesa e il dottor Koala nel marsupio. Ogni parallela è un mondo a sé, con cantonate hipster ben temperate dal classico spirito berlinese grezzo e solidale, rimasto intatto in anfratti sempre più angusti. Qui le proporzioni, rispetto ai Bezirke di cui sopra, sembrano invertite. Il gentrificato arranca, la spesa all’Hermann Quartier è un’esperienza antropologica che sa ancora di Novecento. Grazie anfratti intatti, grazie Stadtbild così avversato da quel pisquano di Merz.

A un tiro di schioppo, il Feld, che Vincenzo Latronico ha chiamato “quattro chilometri quadrati di potenziale puro”. C’è tanto di quel cielo, sull’ex aeroporto ora parco pubblico (finché dura), che spesso bisogna cambiare direzione per non lasciarsi accecare dal sole. Attraversandolo in bici si potrebbe chiudere gli occhi e staccare le mani dal manubrio per cinque minuti buoni. Ovvio, è una palla. Ma è il potenziale puro a sussurrartelo all’orecchio ogni volta, aggiungendo altro che cinque, dieci minuti, un quarto d’ora, chiudi gli occhi, spalanca le braccia, allarga l’inquadratura fino al Cinemascope! Il Feld è un tale concentrato di benessere cittadino che ogni volta che son lì, sotto una volta sconfinata di cielo terso, mi vien da pensare, vuoi vedere che adesso a Friedrichshain piove?

Elia gattona, Elia mangia pasta coi friarielli, Elia c’ha un gruppuscolo di denti acuminati come rasoi da lavare con un bellissimo spazzolino piccolino. Elia dorme. Ma come, ma quando? La storia di questi ultimi mesi/millenni è anche una storia dei preferiti di Spotify, messi scientificamente alla prova di un koala non sempre prontissimo a ronfare della grossa dopo qualche passo di danza col babbo. La (ri)scoperta più clamorosa è stata Mike Oldfield. Con Moonlight Shadow, almeno in due occasioni Pupi è partito alla volta dei sogni belli prima ancora che finissero i tre minuti e quaranta del pezzo. Anche To France funziona bene, oltre a essere un’ulteriore madeleine per noi bùmer cresciuti a Mulino Bianco e Drive In. I primi minuti di Tubular Bells, per intenderci la colonna sonora dell’Esorcista, sono musica perfetta per cullare: ripetitiva, avvolgente, birbante. Chissà a cosa pensa Elia mentre la sente, lui che conosce solo l’Esorciccio (“Se non ti addormenti entro le 21 chiamo l’Esorciccio”, adagio paterno). Altri pezzi in rotazione pesante quando il giuoco si fa duro: Breathe di The Silent League, Enjoy the Silence (di sapete benissimo chi), Decks Dark dei Radiohead, Neon & Ghost Signs dei Rialto, cioè dell’aristocratico Louis Eliot redivivo dopo quasi un quarto di secolo. E poi c’è Hoppípolla dei Sigur Rós, che sembra scritta per lui, quell’Hoppípolla di un bimbo Hoppípolla. Quando parte è un inno alla gioia che potrebbe annunciare qualsiasi cosa, anche la pace nel mondo. Noi qua siam gente semplice e pratica, ci accontentiamo di un inno a Elia cantato in hopelandic maccheronico da un dedda e da un bebé.

Britpop 2000

[libretto di Parklife, 1994]

Ancora oggi ripenso alla Brexit “with a pain that stops and starts / like a corkscrew to my heart / ever since we’ve been apart” – cantava Bob Dylan in You’re a Big Girl Now, una delle tracce più acuminate di Blood on the Tracks (1975). Un’insensatezza geopolitica che fa un male cane, sfrangiata e selvaggia nelle sue conseguenze, ma che soprattutto finisce per sradicare le passioni di gioventù. Istintivamente, collego la brutta fine del Regno Unito al lungo addio del mio genere musicale preferito, il britpop. Che fine ha fatto?

Cappello (introduttivo) e mani avanti. Sul britpop e suoi eroi scanzonati sono stati scritti fiumi d’inchiostro. A coniare il termine pare sia stato il giornalista musicale John Robb sul finire degli anni Ottanta, quando sulla scena apparvero cicloni – e meteore – come gli Stone Roses. Ma è solo con i Blur che il britpop prende forma e matura. Il primo album degno di questa etichetta è stato probabilmente Modern Life Is Rubbish (1993), seconda fatica del gruppo peraltro non premiatissima in termini di consenso. Il boom avviene l’anno dopo con Parklife, e nel frattempo il “sound” acquista una dimensione commerciale mutando di band in band. Tanto commerciale da diventare fenomeno di massa: vedi la “guerra dei singoli” del ferragosto 1995 ordita dai giornalisti, che mise Damon Albarn ai ferri corti coi fratelli Gallagher, vedi la colonna sonora di Trainspotting (1996, senza Oasis), vedi il party laburista che segnò l’entrata di Blair in Downing Street (1997, Noel Gallagher tra gli invitati).

Il britpop è una forma di musica pop per l’appunto, potabile e spensierata, alla quale non sfugge tuttavia il dato sociale. Dal punto di vista tecnico si rifà ai Beatles della metà degli anni Sessanta, post-caschetto ma pre-sperimentazioni pese. Da quello contenutistico, ecco che la Union Jack in cui si avvolse Morrissey nel 1992 per l’orrore di tanti commentatori – che avevano comunque visto giusto tra le righe dell’ex Smiths – diventa fonte di nuovo orgoglio, ma sempre in chiave ironica (Parklife) o di dichiarata denuncia (l’intero album Different Class dei Pulp, 1995). Tra un ritornello killer e un saltello col boccale di birra in mano, il britpop offre un tipo d’intrattenimento “allegro ma non troppo”, puntuto e agrodolce. A farlo sono nella stragrande maggioranza dei casi delle boy band (come i Beatles), anche se la mascolinità che emanano è spesso in falsetto, bowiana, più nerd che seducente nel senso classicamente eterosessuale del termine. Definizione. Questo genere musicale indie, di marca britannica, si sviluppa negli anni Novanta a partire da Blur e Pulp (His ‘n’ Hers, 1993) e si spiaggia, di fatto, nel 1999 con un colpo di coda bluriano (Coffee & Tv, dall’album 13) e il misconosciuto disco dei Ruth intitolato Harrison (col singolo I Don’t Know).

Tra queste due date si estende un panorama sconfinato e vario, con macchiette deliberate (i Menswear e l’album Nuisance), eccezioni di genere (le Elastica), cantautori subito smarcatisi dall’etichetta (Neil Hannon aka The Divine Comedy). Nella letteratura musicale esiste anche il termine post-britpop, app(i)oppato a sagome come Robbie Williams o i Coldplay. In questo articolo tenterò di rintracciare quel che resta del britpop “autentico” nel nuovo millennio, approdando di nuovo alla scrittura di Damon Albarn – l’unico che il genere l’ha modellato, se n’è stancato, l’ha saputo riprendere in nuove forme.

Intanto gli spin off. I Blur hanno avuto un lungo periodo di iato (“Banana Split” nelle parole di Graham Coxon), durante il quale il batterista Dave Rowntree ha fondato un gruppetto tutto suo, gli Ailerons, con esiti a volte niente male (Dig a Hole). Il succitato Coxon ha reagito alle crisi interne dandosi da fare come solista, e tra le sue tante fatiche spicca The Spinning Top (2009), col brano Humble Man. Lo scioglimento degli Oasis nello stesso anno ha dato il via alle carriere in solitaria dei due fratelli Gallagher, con buoni risultati nel primo album di entrambi: Noel – e gli High Flying Birds – nel 2011 (almeno il brano The Death of You and Me), Liam nel 2017 con As You Were (ottima la chiusa come I’ve All I Need).

Alcune band si sono avventurate, a loro rischio e pericolo, negli anni Zero. I gallesi Catatonia, con la straordinaria voce di Cerys Matthews, sono arrivati al 2001 con l’ultimo disco, Paper Scissors Stone, aperto da Godspeed. I Gene, fotocopie senza vergogna degli Smiths, si sono parimenti spiaggiati nel 2001 (Libertine, col singolo We’ll Get What We Deserve). Anche i Rialto, arrivati tardi nel 1998 con uno splendido debutto eponimo, hanno chiuso i battenti nell’estate del 2001 con Night on Earth, mossa più elettronica ma comunque riconducibile sotto l’egida del genere. Fun fact: il cantante dei Rialto, Louis Eliot, ha il sangue blu (cosa che avrebbe fatto inorridire Jarvis Cocker dei Pulp). I Mansun, che con Attack of the Grey Lantern (1997) avevano tentato un concept degno dei Genesis, sono scomparsi nel 2004 pubblicando un triplo album “completista” intitolato Kleptomania, con rarità e un disco inedito, discreto ma ormai senza pubblico. Tra i più insistenti (e talentuosi) anche i Supegrass, che Spielberg avrebbe voluto per un biopic sui Monkees. Il gruppo di Gaz Coombes, giocoso fino a un certo punto, ha saputo tracciare un itinerario originalissimo, contaminando il classico britpop con elementi progressive. Life on Other Planets (2003) è la loro ultima prova davvero pop, aperta dalla fulminante “Za“.

Altri gruppi sono tuttora tra noi, anche se diversi dagli esordi. Gli Embrace ad esempio, buttatisi nell’orgiona del tardo britpop coi loro pezzi strappalacrime (e qualche perla), continuano a pubblicare e resistono malgrado una poco plausibile svolta rock. Nel 2004 Chris Martin ha scritto per loro Looking As You Are, sintesi perfetta delle ambizioni e dei limiti del cosiddetto post-britpop. I My Life Story, che in origine avevano saputo imprimere al genere un interessante spin orchestrale, si sono riaffacciati nel 2019 con l’apprezzabile World Citizen. I Keane, arrivati sulla piazza nel 2004, sfornano un pop non banale con elementi britpoppeschi e cenni a Bowie (Perfect Symmetry, 2008). Quanto ai James – in due occasioni prodotti persino da Brian Eno – la bilancia pende sempre più dalla parte del rock, ma dopo quasi trent’anni continuano a ricoprire un ruolo assimilabile a quello degli Oasis (senza cadere nelle stesse trappole).

Eterni ritorni. Come quello degli Suede, il volto glam del britpop, tornati insieme nel 2013 ma perseguitati dalla sfortuna di uscire (sia in quell’anno, sia nel 2016) in contemporanea con David Bowie, finendone inevitabilmente eclissati. E dire che Bloodsports ma soprattutto Night Thoughts (con What I’m Trying to Tell You) sono dischi di pregevole fattura, capaci di aggiornare alcuni umori specifici degli anni Novanta. Gli Shed Seven, più vicini al rock da pub, hanno un passato di tutto rispetto nell’epoca d’oro del genere e il coraggio di osare ancora, ad esempio nel 2017 con l’album Instant Pleasures, il cui brano People Will Talk ha la forza di una macchina del tempo che ti scaraventa vent’anni indietro – nel nome dello spasso.

Un discorso a parte lo meritano, come già suggerito, i Blur e Damon Albarn. The Magic Whip (2015) sembra la versione matura di The Great Escape (1995), il disco col quale i Blur rischiarono di passare alla storia come una band da luna park. Non una sbavatura, non una nota di troppo ma soprattutto la capacità di tornare a fare pop con intelligenza, pizzicando corde diverse rispetto a quelle ormai diventate stereotipo. Tra i vari progetti laterali e solisti di Albarn, il posto d’onore lo merita senza dubbio The Good The Bad and The Queen, ormai chiuso dopo la morte di Tony Allen. Due gli album all’attivo, uno più bello, influente e disinteressato dell’altro a piacere a tutti i costi. Sono dischi pensosi, eclettici, tuttavia estranei a qualsiasi forma di sperimentalismo oscuro. In particolare Merrie Land (2018) riesce a fungere da commento politico sulla Gran Bretagna in stato confusionale che ha deciso di isolarsi sventolando antichi vessilli imperialisti. E Gun to the Head, traccia numero tre, è il risultato di un processo di ruminamento e giocoleria degli stilemi pop anni Novanta. Epitaffio di una parabola iniziata con la Swinging London e proseguita con la Cool Britannia. La musica è finita.