toste verità (enraha)

Sally Hawkins sul trampolino in Happy-Go-Lucky (2008) di Mike Leigh

Bilancio del primo trimestre. All’università ho dato l’esame di polacco C1, per il quale ho dovuto lottare con la burocrazia (il mio piano di studi arriverebbe fino al B2), e ne sono uscito con un corrusco 1,3. Più un 1 secco per una tesina sul dialetto casciubo. Mi bacio i gomiti non per approfittare di questo safe space digitale di mia proprietà, ma mosso da un’emozione sincera e incredula, visto che studio il polacco da esattamente dieci anni, cinque alla Humboldt (ovviamente part-time), e in più di un’occasione una delle voci che ho in testa, rappresentante della vecchia, non sempre sana sindrome dell’impostore, m’ha sussurrato con distacco ‘non ce la farai mai’. E invece, almeno fino a questo punto, fatta ce l’abbiamo. L’ironia dei tanti progetti paralleli è che son tornato all’università per tuffarmi nel mondo nuovo della slavistica, imparare a raffica, perdermi e scovare sotto il segno della serendipity e alla fine aggiungere una lingua alle mie combinazioni di lavoro. Nel frattempo, il lavoro di traduttrice è diventato diafano come Marty McFly con la chitarra in mano, e la via maestra ha assunto i connotati di un posto fisso da bibliotecario in Prussia. Ovvero il piano B del mio studio alla Humboldt. Evviva i piani B.

Durante l’ultimo corso di polacco, insieme a commilitoni madrelingua abbiamo rivitalizzato un blog universitario nato un paio di anni fa, Polska nad Sprewą (la Polonia sulla Sprea), la cui idea di fondo è rintracciare orme e segnali culturali polacchi a Berlino. Per questa piattaforma polskoberlińska, tra le altre cose, ho recensito sia Kobieta z… di Małgosia Szumowska e Michał Englert, sia il sorprendente Vika! di Agnieszka Zwiefka, incentrato su Wirginia Talan Szmyt, dj ottuagenaria. Ho anche fatto qualche ricerca sugli autori polacchi che hanno scritto di Berlino.

Alla Tricianale, cioè la prima Berlinale a firma Tricia Tuttle, mi sono imbattuto nell’ultimo pastiche di genere di Cattet e Forzani, in un gustoso mediometraggio animato e ipercasalingo di Michel Gondry e soprattutto nel nuovo film di Edgar Reitz, che ho anche avuto il privilegio di intervistare per Indie-Eye. La prima all’Haus der Berliner Festspiele è stata un’esperienza indimenticabile, anche a causa di un incidente per fortuna non grave che l’ha interrotta di punto in bianco, aggiungendo pathos al pathos. Pubblico delle grandi occasioni, Tuttle a sorpresa sul palco prima della proiezione, proiezione – il film è un capolavoro tranciafiato – e coda con tutta la banda sul palco, così fitta che Lars Eidinger è rimasto ai bordi (immagino soffrendo come un cane). Al centro come la famosa roccia dell’Hunsrück, inscalfibile ed eloquente, lui, la memoria storica del cinema tedesco dai tempi di Oberhausen. La discussione è terminata perché un uomo accanto a Reitz è letteralmente carambolato giù dal palco come un birillo, preda di un improvviso svenimento. Dalla seconda fila centrale dov’ero ho visto il corpo scomposto, il saltello degli occhiali e ho temuto il peggio. Che non si è verificato. Ma è con questo episodio lancinante che è calato ex abrupto il sipario sulla presentazione di Leibniz, festa solenne per Edgar Reitz.

Un’altra sorpresa, meno bella ma grimaldella, è stata la visione di Hard Truths (2024), il ritorno di Mike Leigh all’Inghilterra contemporanea dopo i fastosi tuffi nel passato di Mr Turner (2015) e Peterloo (2020). Non un ritorno qualsiasi. La protagonista è Marianne Jean-Baptiste, indimenticabile in Secrets and Lies (1996) nonché compositrice per il successivo Career Girls (1997). Anche il titolo del film riffa la vecchia Palma d’oro, ormai splendida trentenne, che segnò il trionfo dell’immaginario sociologico di Leigh mettendolo al contempo in stand-by. Da sempre cineasta tradizionale nella forma ma rivoluzionario nel metodo, Leigh dopo il punto fermo di Secrets and Lies ha spesso alternato le sue classiche narrazioni umane più vere del vero a esperimenti variegati, negazioni puntuali della “maniera” sviluppata fino al 1996. Ecco allora che con Career Girls per la prima volta usa massicciamente il flashback, con Topsy-Turvy (1999) fa sia un film in costume, sia un fim-operetta sugli amati Gilbert e Sullivan, e con Happy-Go-Lucky una pellicola in cui, all’apparenza, manca il dramma e tutto va bene. All’apparenza. Perché il film con Sally Hawkins ed Eddie Marsan passato in concorso alla Berlinale del 2008 è la vera pietra di paragone per comprendere le ombre di Hard Truths.

La Pansy dell’ultimo film va ad arricchire la galleria dei personaggi femminili “devised by” Mike Leigh insieme alle proprie attrici protagoniste. Dalla finta acqua cheta Sylvia (Anne Raitt) di Bleak Moments (1971) passando per il ciclone Alison Steadman e i suoi personaggi frivoli ma non troppo (Nuts in May, 1976; Abigail’s Party, 1977; Life Is Sweet, 1990), il trio composto da Brenda Blethyn, Marianne Jean-Baptiste e Claire Rushbrook in Secrets and Lies, le amiche ritrovate Katrin Cartlidge e Lynda Steadman di Career Girls e la sconvolgente Imelda Staunton di Vera Drake (2004), Mike Leigh ha sempre mostrato un genio per la ritrattistica femminile. Il che non è sinonimo di empatia melodrammatica à la Cukor, Fassbinder, Almodóvar o Haynes. Le asperità di Naked (1993), che si apre con uno stupro, così come la messinscena impietosa di caratteri borderline, hanno suscitato critiche femministe e sospetti di cinismo, se non vera e propria exploitation. Hard Truths fa ben poco per smentire questo coro di giudizi impietosi: è il primo film all-black di Leigh, cineasta bianchissimo, la sua protagonista è negatività allo stato puro e la trama non svolta verso la speranza.

Personalmente, ritengo che i film di Leigh vadano lentamente appannandosi da trent’anni. Questo malgrado l’indubbia solidità di titoli come Another Year (2010) o Mr Turner. Gli anni Settanta delle Play for Today targate BBC non sono ovviamente ripetibili, né gli anni Ottanta thatcheriani fatti a pezzi in affreschi urbani viscerali e spietati come Meantime (1983) e High Hopes (1988), rispettivamente una delle primissime produzione del nascente Channel 4 e il primo titolo Thin Man Films creato insieme a Simon Channing Williams. Il compositore Andrew Dickson ha accompagnato Leigh per sei film, con la sua viola d’amore e temi tra l’ironico e il malinconico, partendo proprio da Meantime. Topsy-Turvy segna la rottura più evidente con un modus operandi ormai divenuto leggendario: budget più elevato, ambientazione storica, attenzione maniacale ai dettagli. Ma il Leigh che rapisce e sconvolge è quello sincronizzato con la contemporaneità, che trascorre settimane con gli attori per plasmare i personaggi sulla base di esperienze reali.

Distante anni luce dagli smussamenti retorici hollywoodiani o britannici in stile Richard Curtis, Leigh non ha mai fatto sconti con i suoi ensemble attoriali. La sofferenza è sofferenza, il trauma è trauma, il tic è tic. I suoi film grondano personaggi, anche in primo piano, con comportamenti vistosi, angolosi, fragili, talvolta nauseabondi. Allo stesso tempo non mancano momenti lirici, di speranza pura. Il finale di High Hopes, con Edna Doré che dice di essere sul tetto del mondo osservando i gasometri di King’s Cross. La zoppia quasi eroica di David Thewlis in Naked. I dialoghi in giardino che concludono Life Is Sweet e Secrets and Lies. Se non closure, almeno uno spiraglio. Un guizzo di vita. Hard Truths nega tutto questo con una programmaticità a tratti superflua, e pur dispensando qua e là leggerezza, non riesce a sconquassare davvero sul piano della sintonia umana. Un peccato, che ha tuttavia il pregio di mettere in luce ancora meglio uno dei titoli più ignorati di Mike Leigh: Happy-Go-Lucky.

Se la Pansy di Hard Truths vede tutto bigio e nulla è in grado di piegarla, la Poppy interpretata da Sally Hawkins è una inguaribile ottimista. Sempre col sorriso, sempre con la battuta pronta, mai un cruccio anche se le rubano la bici. In una delle scene più belle, Poppy vaga nella periferia londinese notturna e s’imbatte in un senzatetto che blatera in maniera incomprensibile. Lui è grande, grosso, mentalmente instabile e oggettivamente imprevedibile, ma lei non ha un briciolo di paura e gli parla senza batter ciglio, spinta da un’empatia che non è a sua volta follia o martirio, ma voglia reale di confrontarsi con l’altro. La stessa apertura che concede a Scott (Marsan), il suo istruttore di guida, con conseguenze – se non tragiche – almeno inquietanti. Se nel 2008 Scott poteva solo sembrare un disadattato razzista, omofobo e ammalato di solitudine, rivisto oggi fa suonare una batteria di campanelli, perché il personaggio incarnato da Marsan è lo specchio sputato dell’odierna tipologia incel, complottista, anti-tutto, credulona ed elettrice di populisti e dittatori che soprattutto negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere piuttosto bene. Sebbene non riesca a danneggiare la protagonista, basta la sua presenza – a volte grandioso innesco umoristico: enraha! – per cambiare di segno l’intero film. Oltretutto, c’è un chiaro parallelo tra Scott e uno degli scolari di Poppy, manesco poiché “inoltra” violenze domestiche. Da sorridente ritratto al femminile con tanto di esilaranti lezioni di flamenco, Happy-Go-Lucky diventa un film di denuncia sul maschilismo vittimista. E tra le righe, aggiungerei, anche se si tratta di un’impressione assolutamente soggettiva, fino all’allegro finale in barca vibra il sospetto che il nuovo fidanzato di Poppy, anche lui educatore, possa rivelarsi nocivo quando meno ce lo si aspetta.

Ecco allora un livello superficiale e uno profondo. Chiacchiere e sorrisi, balli scatenati al ritmo di Common People, letture confidenziali dei palmi come in Secrets and Lies o il rituale bröntiano di Career Girls, ma in filigrana c’è una minaccia latente, abissale, insanabile come l’ottimismo saltellante di Poppy. Due dimensioni che si toccano senza contaminarsi. Non c’è redenzione nei film di Mike Leigh, al massimo un colpo di fortuna, così come non c’è dannazione. Vera Drake finisce in carcere perché aiuta altre donne ad abortire, senza nemmeno chiedere un penny in cambio. L’espressione di incredulità e sconcerto quando parla con due carcerate cui è stata comminata la medesima pena, e che hanno sempre usato metodi ben più pericolosi dei suoi, è una daga in pieno petto. Attenta a dove vai, Drake, le dice la guardia-cerbera che incrocia lungo le scale. Dove deve mai andare? Da nessuna parte.

Titoli di coda di A Mug’s Game (1973), corto didattico sul gioco d’azzardo prodotto dalla BBC.

la corrente

Il palo della luce come si vede nella Part 6 di Twin Peaks: The Return (2017, immagine fotoscioppata)

Il cinema in Piazza Maggiore a Bologna. Lo scorso giugno ho zigato per dieci minuti di fila rivedendo In the Mood for Love dopo quasi vent’anni, e tra i restaurati c’era anche La strada. Che mi ha colpito meno rispetto al passato, soprattutto certe lungaggini, certe ellissi nel rapporto tra Gelsomina e Zampanò, delle dissolvenze al nero poco oneste. Ma a una scena penso ancora oggi. Dura un minuto secco, tra 24’50” e 25’50” (purtroppo niente link, il film intero su youtube non c’è più). Gelsomina ritrova Zampanò addormentato come un sasso presso il suo motocatorcio e fa due passi negli immediati dintorni avvolta in scialle e cappottino. Il paesaggio è brullo, quasi postbellico. La periferia di un piccolo centro laziale. In sequenza, 1) incontra una bimba e la fa ridere imitando col corpo la sagoma di un alberello spoglio in mezzo al campo, nient’altro che un tronco con un ramo che sporge a destra 2) incontra un bimbo seduto tra le zolle che le dice “Lì dentro è morto il cane” 3) va alla staccionata del posto dove sarebbe morto il cane, non vede nulla (o almeno noi non vediamo nulla) e in compenso sente il brusio dell’elettricità proveniente dal vicino palo della luce. Gelsomina appoggia l’orecchio al palo: prima il destro, poi – dandoci la nuca – il sinistro. Dissolvenza incrociata con Zampanò che si sveglia.

Fellini e Lynch sono nati lo stesso giorno, e numerologia a parte si sa quanto l’influenza del regista riminese si senta nell’universo lynchiano. Basta quella scena di flânerie rurale per farci passare davanti agli occhi tutti gli alberi rinsecchiti dipinti da Lynch, compresa l'”evoluzione del braccio” di Twin Peaks: The Return, cioè la trasformazione in CGI del Man from Another Place resasi necessaria dopo il mancato accordo con Michael J. Anderson. Necessity is the mother of invention. Dopo l’albero, il cane (The Angriest Dog in the World, protagonista in rigor mortis di una striscia a fumetti), e dopo il cane l’elettricità. La corrente elettrica attraversa l’intera filmografia lynchiana come una linfa mitopoietica, esplicitata in Fire Walk with Me. Non spiegata, va da sé. Esplicitata in una sequenza ridotta ai minimi nella versione del 1992 e ripescata per l’edizione dvd dotata dei “Missing Pieces”. In questi quattro minuti di ipnosi sono racchiuse tutte le sinapsi di Twin Peaks, destinate a trovare una forma definitiva nella terza stagione e nei libri tie-in di Mark Frost. A cominciare dal ruolo dei “Woodsmen”, che in sé fondono la potenza distruttiva della radioattività e quella misteriosa e feconda dell’elettricità. Non solo. Nella Part 15, Cooper si risveglia nel corpo di Dougie Jones quando questi, guardando Sunset Blvd. e udendo il nome di Gordon Cole, smette di mangiare un dolce e infila la forchetta nella presa della luce. Pali inquietanti, prese che fungono da teletrasporto tra una dimensione e l’altra, leve che azionano macchine arcane. È tutto elettrico, luminoso e sferragliante.

Gelsomina origlia il crepitio della corrente. Prima di lei s’erano già viste le onde elettriche andare su e giù lungo il corpo robotizzato di Brigitte Helm, o la scena ripetuta mille volte del dottor Frankenstein che ricorre ai fulmini per animare la sua creatura. Dopo di lei, riavvolgendo il nastro verso gli anni Ottanta, ecco la saetta che colpendo l’orologio di Hill Valley consente a Marty McFly di tornare nel proprio tempo con la DeLorean; il serial killer di Wes Craven (Shocker, 1989) che sottoposto alla sedia elettrica diventa etere e continua a uccidere sfrigolando; oppure, nomen omen, Le avventure del ragazzo del palo elettrico (1987) di Tsukamoto. L’ultimo ruolo cinematografico importante per David Bowie è quello di Nikola Tesla in The Prestige (2006) di Nolan, un trionfo di fulmini senza fili che teletrasportano cose, animali, cadaveri.

Be Kind Rewind (2008) di Michel Gondry fa razza per conto suo nel trattare l’elettricità come una forza dirompente. Jack Black vive un camper accanto alla centrale elettrica, indossando copricapi improvvisati per schermarsi dalle radiazioni (soprattutto colini o altri scarti di cucina). Un bel giorno decide di sabotare la centrale, una di quelle enormi in cui a Lynch piacerebbe organizzare picnic. L’impresa va storta, si becca una raffica di folgori azzurrine e si magnetizza. Tanto da cancellare il contenuto di tutte le videocassette del negozietto gestito da Mos Def per conto di Danny Glover. Se ne accorgono quando Mia Farrow si lamenta del fatto che Ghostbusters non si vede. Al che i due amici decidono – dopo tredici anni non è più uno spoiler – di girare loro stessi i film che danno a noleggio per un dollaro al giorno, usando una videocamera analogica. Montano in macchina e sfornano gioielli nerd di un quarto d’ora circa.

Li chiamano “sweded films“, con un riferimento alla Svezia dadaista come la trama stessa di Ghostbusters, famosa per non voler dire nulla. Al procedimento fatto in casa si prestano anche Rush Hour 2, The Lion King, Robocop, The Island of Dr. Moreau, Boogie Nights, Driving Miss Daisy (con Mia Farrow al posto di Jessica Tandy e Glover al posto di Freeman), 2001, 2010 (l’anno del contatto, ma fisico-sessuale), Boogie Nights, When We Were Kings, Carrie, King Kong, Men in Black, Les parapluies de Cherbourg. Menzione speciale per Boyz n the Hood e la trovata di simulare le chiazze di sangue attorno alla testa con delle pizze. Ma il migliore di tutti è il clippino che rifà il film stesso fungendo da trailer ufficioso e innescando una mise en abyme da giramento di capo. Gondry scatenato.

Be Kind Rewind non è solo la commedia più riuscita di Gondry, ma anche il film che meglio esibisce la sua estetica empirica – e forse l’ode per eccellenza alla VHS. Meno lugubre di Trash Humpers (2009) di Harmony Korine, girato interamente in videotape ma affossato da una morbosità che non incoraggia una seconda visione. In pratica, videoarte. Così non è per Gondry, sempre contagioso col suo approccio ludico alla finzione. Perché ricorrere agli effetti speciali quando bastano forbici e cartoncino, madri dell’invenzione, per simulare qualsiasi cosa? Le trovate estemporanee di Be Kind Rewind ridicolizzano la CGI usata per la scena della centrale elettrica e soprattutto dimostrano come la creatività sia più potente degli stessi strumenti messi in campo per tutelarla, in questo caso il diritto d’autore sventolato dagli studios che, sguinzagliando Sigourney Weaver, ottengono la distruzione delle cassette pirata mediante rullo compressore.

Ciò che non può essere distrutto è la forza della comunità raccoltasi attorno a questi filmini, assurti a celebrazione della comunità stessa. E allora, filmando in bianco e nero con un ventilatore acceso davanti all’obiettivo a mo’ di effetto anticante, ecco che i residenti di Passaic decidono di raccontare, inventando tutto, la leggenda locale del jazzista Fats Waller, allo scopo di salvare dalla gentrificazione l’angolo di edificio che ospita il negozio di videocassette e in cui, in realtà, Fats Waller non ha mai vissuto. Mitopoiesi pura per rafforzare la tenuta sociale. Il risultato è un home movie commovente come saprà fare solo Likarion Wainaina in Supa Modo (2018). La sera della prima nel negozietto, il televisore da due soldi collegato alla videocamera si fracassa ma l’impiegato del Blockbuster fornisce un beamer. Il film amatoriale viene proiettato su un lenzuolo. Il colpo di scena da lacrimoni è che la pezzuola viene calata davanti alla vetrina, per cui da fuori si vede tutto, invertito e senza suono. Basta questo a radunare una folla che fa cambiare idea agli immobiliaristi pronti con le ruspe. Per galvanizzare basta un film girato dietro l’angolo, tra amici, con materiale di scarto, in bianco e nero artificiale e con un ventilatore acceso davanti all’obiettivo, montato in macchina, con le immagini invertite lungo l’asse verticale – e muto.