toste verità (enraha)

Sally Hawkins sul trampolino in Happy-Go-Lucky (2008) di Mike Leigh

Bilancio del primo trimestre. All’università ho dato l’esame di polacco C1, per il quale ho dovuto lottare con la burocrazia (il mio piano di studi arriverebbe fino al B2), e ne sono uscito con un corrusco 1,3. Più un 1 secco per una tesina sul dialetto casciubo. Mi bacio i gomiti non per approfittare di questo safe space digitale di mia proprietà, ma mosso da un’emozione sincera e incredula, visto che studio il polacco da esattamente dieci anni, cinque alla Humboldt (ovviamente part-time), e in più di un’occasione una delle voci che ho in testa, rappresentante della vecchia, non sempre sana sindrome dell’impostore, m’ha sussurrato con distacco ‘non ce la farai mai’. E invece, almeno fino a questo punto, fatta ce l’abbiamo. L’ironia dei tanti progetti paralleli è che son tornato all’università per tuffarmi nel mondo nuovo della slavistica, imparare a raffica, perdermi e scovare sotto il segno della serendipity e alla fine aggiungere una lingua alle mie combinazioni di lavoro. Nel frattempo, il lavoro di traduttrice è diventato diafano come Marty McFly con la chitarra in mano, e la via maestra ha assunto i connotati di un posto fisso da bibliotecario in Prussia. Ovvero il piano B del mio studio alla Humboldt. Evviva i piani B.

Durante l’ultimo corso di polacco, insieme a commilitoni madrelingua abbiamo rivitalizzato un blog universitario nato un paio di anni fa, Polska nad Sprewą (la Polonia sulla Sprea), la cui idea di fondo è rintracciare orme e segnali culturali polacchi a Berlino. Per questa piattaforma polskoberlińska, tra le altre cose, ho recensito sia Kobieta z… di Małgosia Szumowska e Michał Englert, sia il sorprendente Vika! di Agnieszka Zwiefka, incentrato su Wirginia Talan Szmyt, dj ottuagenaria. Ho anche fatto qualche ricerca sugli autori polacchi che hanno scritto di Berlino.

Alla Tricianale, cioè la prima Berlinale a firma Tricia Tuttle, mi sono imbattuto nell’ultimo pastiche di genere di Cattet e Forzani, in un gustoso mediometraggio animato e ipercasalingo di Michel Gondry e soprattutto nel nuovo film di Edgar Reitz, che ho anche avuto il privilegio di intervistare per Indie-Eye. La prima all’Haus der Berliner Festspiele è stata un’esperienza indimenticabile, anche a causa di un incidente per fortuna non grave che l’ha interrotta di punto in bianco, aggiungendo pathos al pathos. Pubblico delle grandi occasioni, Tuttle a sorpresa sul palco prima della proiezione, proiezione – il film è un capolavoro tranciafiato – e coda con tutta la banda sul palco, così fitta che Lars Eidinger è rimasto ai bordi (immagino soffrendo come un cane). Al centro come la famosa roccia dell’Hunsrück, inscalfibile ed eloquente, lui, la memoria storica del cinema tedesco dai tempi di Oberhausen. La discussione è terminata perché un uomo accanto a Reitz è letteralmente carambolato giù dal palco come un birillo, preda di un improvviso svenimento. Dalla seconda fila centrale dov’ero ho visto il corpo scomposto, il saltello degli occhiali e ho temuto il peggio. Che non si è verificato. Ma è con questo episodio lancinante che è calato ex abrupto il sipario sulla presentazione di Leibniz, festa solenne per Edgar Reitz.

Un’altra sorpresa, meno bella ma grimaldella, è stata la visione di Hard Truths (2024), il ritorno di Mike Leigh all’Inghilterra contemporanea dopo i fastosi tuffi nel passato di Mr Turner (2015) e Peterloo (2020). Non un ritorno qualsiasi. La protagonista è Marianne Jean-Baptiste, indimenticabile in Secrets and Lies (1996) nonché compositrice per il successivo Career Girls (1997). Anche il titolo del film riffa la vecchia Palma d’oro, ormai splendida trentenne, che segnò il trionfo dell’immaginario sociologico di Leigh mettendolo al contempo in stand-by. Da sempre cineasta tradizionale nella forma ma rivoluzionario nel metodo, Leigh dopo il punto fermo di Secrets and Lies ha spesso alternato le sue classiche narrazioni umane più vere del vero a esperimenti variegati, negazioni puntuali della “maniera” sviluppata fino al 1996. Ecco allora che con Career Girls per la prima volta usa massicciamente il flashback, con Topsy-Turvy (1999) fa sia un film in costume, sia un fim-operetta sugli amati Gilbert e Sullivan, e con Happy-Go-Lucky una pellicola in cui, all’apparenza, manca il dramma e tutto va bene. All’apparenza. Perché il film con Sally Hawkins ed Eddie Marsan passato in concorso alla Berlinale del 2008 è la vera pietra di paragone per comprendere le ombre di Hard Truths.

La Pansy dell’ultimo film va ad arricchire la galleria dei personaggi femminili “devised by” Mike Leigh insieme alle proprie attrici protagoniste. Dalla finta acqua cheta Sylvia (Anne Raitt) di Bleak Moments (1971) passando per il ciclone Alison Steadman e i suoi personaggi frivoli ma non troppo (Nuts in May, 1976; Abigail’s Party, 1977; Life Is Sweet, 1990), il trio composto da Brenda Blethyn, Marianne Jean-Baptiste e Claire Rushbrook in Secrets and Lies, le amiche ritrovate Katrin Cartlidge e Lynda Steadman di Career Girls e la sconvolgente Imelda Staunton di Vera Drake (2004), Mike Leigh ha sempre mostrato un genio per la ritrattistica femminile. Il che non è sinonimo di empatia melodrammatica à la Cukor, Fassbinder, Almodóvar o Haynes. Le asperità di Naked (1993), che si apre con uno stupro, così come la messinscena impietosa di caratteri borderline, hanno suscitato critiche femministe e sospetti di cinismo, se non vera e propria exploitation. Hard Truths fa ben poco per smentire questo coro di giudizi impietosi: è il primo film all-black di Leigh, cineasta bianchissimo, la sua protagonista è negatività allo stato puro e la trama non svolta verso la speranza.

Personalmente, ritengo che i film di Leigh vadano lentamente appannandosi da trent’anni. Questo malgrado l’indubbia solidità di titoli come Another Year (2010) o Mr Turner. Gli anni Settanta delle Play for Today targate BBC non sono ovviamente ripetibili, né gli anni Ottanta thatcheriani fatti a pezzi in affreschi urbani viscerali e spietati come Meantime (1983) e High Hopes (1988), rispettivamente una delle primissime produzione del nascente Channel 4 e il primo titolo Thin Man Films creato insieme a Simon Channing Williams. Il compositore Andrew Dickson ha accompagnato Leigh per sei film, con la sua viola d’amore e temi tra l’ironico e il malinconico, partendo proprio da Meantime. Topsy-Turvy segna la rottura più evidente con un modus operandi ormai divenuto leggendario: budget più elevato, ambientazione storica, attenzione maniacale ai dettagli. Ma il Leigh che rapisce e sconvolge è quello sincronizzato con la contemporaneità, che trascorre settimane con gli attori per plasmare i personaggi sulla base di esperienze reali.

Distante anni luce dagli smussamenti retorici hollywoodiani o britannici in stile Richard Curtis, Leigh non ha mai fatto sconti con i suoi ensemble attoriali. La sofferenza è sofferenza, il trauma è trauma, il tic è tic. I suoi film grondano personaggi, anche in primo piano, con comportamenti vistosi, angolosi, fragili, talvolta nauseabondi. Allo stesso tempo non mancano momenti lirici, di speranza pura. Il finale di High Hopes, con Edna Doré che dice di essere sul tetto del mondo osservando i gasometri di King’s Cross. La zoppia quasi eroica di David Thewlis in Naked. I dialoghi in giardino che concludono Life Is Sweet e Secrets and Lies. Se non closure, almeno uno spiraglio. Un guizzo di vita. Hard Truths nega tutto questo con una programmaticità a tratti superflua, e pur dispensando qua e là leggerezza, non riesce a sconquassare davvero sul piano della sintonia umana. Un peccato, che ha tuttavia il pregio di mettere in luce ancora meglio uno dei titoli più ignorati di Mike Leigh: Happy-Go-Lucky.

Se la Pansy di Hard Truths vede tutto bigio e nulla è in grado di piegarla, la Poppy interpretata da Sally Hawkins è una inguaribile ottimista. Sempre col sorriso, sempre con la battuta pronta, mai un cruccio anche se le rubano la bici. In una delle scene più belle, Poppy vaga nella periferia londinese notturna e s’imbatte in un senzatetto che blatera in maniera incomprensibile. Lui è grande, grosso, mentalmente instabile e oggettivamente imprevedibile, ma lei non ha un briciolo di paura e gli parla senza batter ciglio, spinta da un’empatia che non è a sua volta follia o martirio, ma voglia reale di confrontarsi con l’altro. La stessa apertura che concede a Scott (Marsan), il suo istruttore di guida, con conseguenze – se non tragiche – almeno inquietanti. Se nel 2008 Scott poteva solo sembrare un disadattato razzista, omofobo e ammalato di solitudine, rivisto oggi fa suonare una batteria di campanelli, perché il personaggio incarnato da Marsan è lo specchio sputato dell’odierna tipologia incel, complottista, anti-tutto, credulona ed elettrice di populisti e dittatori che soprattutto negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere piuttosto bene. Sebbene non riesca a danneggiare la protagonista, basta la sua presenza – a volte grandioso innesco umoristico: enraha! – per cambiare di segno l’intero film. Oltretutto, c’è un chiaro parallelo tra Scott e uno degli scolari di Poppy, manesco poiché “inoltra” violenze domestiche. Da sorridente ritratto al femminile con tanto di esilaranti lezioni di flamenco, Happy-Go-Lucky diventa un film di denuncia sul maschilismo vittimista. E tra le righe, aggiungerei, anche se si tratta di un’impressione assolutamente soggettiva, fino all’allegro finale in barca vibra il sospetto che il nuovo fidanzato di Poppy, anche lui educatore, possa rivelarsi nocivo quando meno ce lo si aspetta.

Ecco allora un livello superficiale e uno profondo. Chiacchiere e sorrisi, balli scatenati al ritmo di Common People, letture confidenziali dei palmi come in Secrets and Lies o il rituale bröntiano di Career Girls, ma in filigrana c’è una minaccia latente, abissale, insanabile come l’ottimismo saltellante di Poppy. Due dimensioni che si toccano senza contaminarsi. Non c’è redenzione nei film di Mike Leigh, al massimo un colpo di fortuna, così come non c’è dannazione. Vera Drake finisce in carcere perché aiuta altre donne ad abortire, senza nemmeno chiedere un penny in cambio. L’espressione di incredulità e sconcerto quando parla con due carcerate cui è stata comminata la medesima pena, e che hanno sempre usato metodi ben più pericolosi dei suoi, è una daga in pieno petto. Attenta a dove vai, Drake, le dice la guardia-cerbera che incrocia lungo le scale. Dove deve mai andare? Da nessuna parte.

Titoli di coda di A Mug’s Game (1973), corto didattico sul gioco d’azzardo prodotto dalla BBC.

Berlinali

Screenshot dallo streaming della Berlinale 74 per l’assegnazione dell’Orso d’oro alla carriera a Scorsese.

Quando nel gennaio del 2006 misi stabilmente piede a Berlino, il mio pensiero fisso era già al mese successivo, perché per la prima volta avrei avuto l’occasione di andare al festival. Ormai ci vado da quasi vent’anni, come pubblico e più spesso accreditato tramite Indie-Eye. In questa orecchia traccio un itinerario sghembo, assolutamente non rappresentativo, dei film che m’hanno scavato di più tra le pieghe del cervello e nei nervi ottici. Nessuno di questi titoli ha vinto il primo premio. Ho iniziato a frequentare la Berlinale in piena gestione di Dieter Kosslick, e col 2024 termina il non facile interregno Chatrian-Rissenbeek. Cresciuto con l’idea che dopo la Palma e il Leone venisse l’Orso, ora devo ammettere che questo terzo posto assoluto è più che mai traballante, anche se Berlino si conferma il primo festival di pubblico al mondo, dieci giorni durante i quali trovare i biglietti è spesso un’impresa e le sale sono sempre strapiene – a prescindere da quel che vi viene proiettato. Un risultato clamoroso che mette in ombra i consueti arbitri (circonflesso sull’ultima i) di selezionatori e giurie, nonché il costante calo delle prime mondiali – un fenomeno, quest’ultimo, che sta trasformando la Berlinale in uno sfavillante festival del riciclo.

Duemilasei. Il poster è sparato persino in copertina sulla miniguida alla Berlinale di Zitty, io non so chi sia Oskar Roehler ma Houellebecq lo conosco bene. Elementarteilchen (Le particelle elementari) è il primo film berlinalizio che mi fece friggere prima di approdare in sala. A colpirmi furono due cose: l’idea che un romanzo contemporaneo francesissimo venisse portato sullo schermo per vie crucchissime (produzione d’alto bordo di Bernd Eichinger), e la constatazione che anche in Germania esistesse uno star system. Alcune facce già note (Franka Potente, Moritz Bleibtreu), altre meno (Nina Hoss, Corinna Harfouch, Martina Gedeck, Michael Gwisdek, Christian Ulmen, Tom Schilling). Malgrado il film in sé non fosse epocale, la febbre per Roehler m’è rimasta per qualche anno, il tempo di vedere al cinema Lulu & Jimi (2008), rimasticazione senza vergogna di Wild at Heart, e due grotteschi schizzi autobiografici: Quellen des Lebens (2013) e Tod den Hippies! Es lebe der Punk (2015). Ho pure letto qualche suo romanzo, in particolare l’ottimo Herkunft (2011), spunto di Quellen des Lebens. Il maledettisimo sgarbato, sporco e cattivo di Roehler, spesso mal mutuato da Easton Ellis, è ormai ridicolo, e nella sua filmografia non mancano schifezze che pur di provocare finiscono per confondersi con la materia che trattano – tipo un film del 2018, di cui non cito nemmeno il titolo, tratto da un romanzo di Thor Kunkel, vicinissimo all’AfD.

Duemilasette. In concorso c’è The Walker di Paul Schrader, ma il mio cuore vola verso This Filthy World, teatro filmato a cura di Jeff Garlin che ci restituisce il one man show itinerante di John Waters. Non certo un gioiello della settima arte, ma per chi ama Waters questa testimonianza la dice lunga sulla sua capacità di sopravvivere anche in tempi di magra. Avevo visto A Dirty Shame (2004) in un cinemino parigino e dopo vent’anni il papa del trash deve ancora uscirsene con un nuovo film, anche se sta lavorando alla trasposizione del suo romanzo di debutto Liarmouth. Sapendo di essere ormai un aggettivo, anzi un mondo a parte (vedi titolo del docu), Waters capitalizza dai primi anni Ottanta la propria aura mitica con libricini e altre forme derivate di intrattenimento, ma nulla supera il suo talento naturale di stand-up comedian.

Duemilaotto. Happy-Go-Lucky di Mike Leigh, non nella rosa dei suoi film indimenticabili, ma ennesima dimostrazione di come l’autore britannico sappia raccogliere le sfide più disparate. Accusato di ripetersi con le sue storie popolane agrodolci, in presa diretta, schiacciate sulla contemporaneità, subito dopo la Palma d’oro Leigh fece un film di soli flashback (Career Girls, 1997), poi uno in costume su Gilbert & Sullivan (Topsy-Turvy, 2000). Analogamente, questo film delizioso dominato da Sally Hawkins arriva dopo il Leone d’oro e tenta una strada impervia, cioè quella della commedia senza inciampi. Happy-Go-Lucky di nome e di fatto. Leigh non sarà ricordato per questi esperimenti, ma la sua grandezza è fatta anche dal coraggio di alternare le mille variazioni di una formula perfetta a ribaltamenti traumatici della medesima formula.

Duemilanove. Schrader in gran forma – e la partita si chiude. Adam Resurrected, dal romanzo di Yoram Kaniuk, è una delle prove migliori dello Schrader autonomo. Sta lì con Hardcore, Light Sleeper, Auto Focus. Tema rovente (Shoah), messinscena sempre in bilico tra il sublime, l’infimo e il Jerry Lewis clown straccione. Jeff Goldblum a quattro zampe va digerito con calma.

Duemiladieci. Primo anno di accredito via Indie-Eye, con l’emozione delle proiezioni al Berlinale Palast delle otto di mattina per i film in concorso. Uno di questi è Der Räuber di Benjamin Heisenberg, storia criminale vera, e austriaca, ripresa dal libro di Martin Prinz. La pulizia del cinema di Heisenberg si tuffa nel sudore cutaneo di un maratoneta col vizio delle rapine. Un piccolo classico di cui nessuno si ricorda più.

Duemilaundici. Tutti a parlare di 3D, tutti a parlare di eBook. Un po’ come oggi, tutti a parlare di AI/IA/KI. Probabilmente a vanvera. Zitto zitto, Werner Herzog si fa spiegare come funziona una macchina da presa 3D e ottiene il permesso di addentrarsi nella grotte di Chauvet. Lezione autoesplicativa e ludica sull’uso sensato delle tecnologie, Cave of Forgotten Dreams è Herzog allo stato puro, egomaniaco ed esploratore, estatico e concretissimo. Il momento in cui gioca con la camera manco fosse un trenino appena ricevuto per Natale è una dichiarazione politica sulla libertà del documentario, sulla porosità dei suoi confini e soprattutto sulla necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Brividi paleolitici.

Duemiladodici. Formatosi sotto la DDR, Andreas Dresen è tuttora uno dei più validi registi tedeschi, altalenante negli esiti ma sempre sincero. Il taglio politico può ricordare Ken Loach, ma con qualche tonnellata di ideologia in meno. Lo dimostra ad esempio il documentario Herr Wichmann aus der dritten Reihe, seconda puntata di un improbabile character study iniziato con Herr Wichmann von der CDU (2003). Dresen racconta la quotidianità di un giovane politico democristiano fino al midollo eletto in Brandeburgo, Bundesland dove la CDU non ha mai avuto vita facile. Empatici senza furberie né melassa, i due piccoli film su Wichmann vanno a comporre un trattatello sulla politica tedesca pre-AfD, e dimostrano che un documentario può anche non avere la schiuma alla bocca e lo schemetto pronto in stile Michael Moore. Altri tempi, davvero.

Duemilatredici. Philibert ha vinto la Berlinale nel 2023, ma anche nei vent’anni successivi a Être et avoir ha continuato a fare il suo lavoro di documentarista “di servizio pubblico”, puntuale, informativo e sempre attento al dato umano. Lo dimostra anche La maison de la radio, perlustrazione del Pentagono radiofonico francese, vale a dire Radio France. Non c’è argomento che Philibert non sappia rendere interessante.

Duemilaquattordici. Vedi alla voce Roehler, anzi peggio. Per un periodo sono cascato nelle trappolucce tese da Dietrich Brüggemann, tipo Renn, wenn du kannst (2010) o anche il buffo Heil (2015), ma Kreuzweg avrebbe dovuto valere come un avvertimento chiaro. Esempio da manuale di virtuosismo fumogeno, questo film antireligioso mutua la struttura per tableaux dell’esordio Neun Szenen (2006) e punta all’applauso intellettualoide. Durante la pandemia, Brüggemann si è fatto riconoscere come mente (?) di un gruppo di artisti contrari a qualsiasi misura di contenimento, nel nome della libertà (?). Punti interrogativi che diventano puntini di sospensione.

Duemilaquindici. Forse il film berlinese per eccellenza degli anni Duemila, che regge anche a una seconda visione dopo lo choc della prima. Choc motivato dal fatto che il film, narrativo e in continuo movimento nella notte di Kreuzberg e Mitte, è un unico piano sequenza di più di due ore senza trucco né inganno. Brüggemann, hold my beer! Ma a rendere speciale Victoria, oltre a questo escamotage, è la credibilità di un flusso d’incoscienza tra balli, flirt e rapine sgrause, capace di rappresentare lo spirito di una città davvero libera e manigolda. Sono passati nove anni, e il clima che trasuda dal film è già fantascienza.

Duemilasedici. Primo film berlinalizio che vidi con Yassien, per giunta all’Admiralpalast e in presenza dell’amatissimo Terence Davies. A Quiet Passion segna il ritorno di Davies alla sceneggiatura dopo molti anni, e a posteriori vale come una prova generale del suo ultimo capolavoro, Benediction (2021). Malgrado le tante crinoline e una perfezione formale che può distrarre, quel che conta è la disperazione che pulsa sia in Emily Dickinson, sia nell’occhio che la sta filmando.

Duemiladiciassette. Anno epocale per Raoul Peck, che sbarca a Berlino con un film di finzione sul giovane Marx e con I Am not Your Negro, magnifico documentario su James Baldwin. Baldwin chi? – una domanda grossomodo lecita fino al 2017, che questo film presentato nella sezione Panorama Dokumente (forse la migliore di tutto il festival) ha definitivamente messo fuorilegge. Politica e attivismo per i diritti civili allo stato puro, con un recupero di materiale audiovisivo poi divenuto virale. Ricordo extra di questa Berlinale: la visione di un film davvero nuovo per linguaggio e impostazione drammatica, Félicité di Alain Gomis.

Duemiladiciotto. Riesco a intervistare Szumowska & Englert, con Twarz in concorso, ma il colpo di fulmine avviene tra le corsie di una Metro teutonica: In den Gängen di Thomas Stuber, da un racconto di Clemens Meyer. Se c’è un momento in cui Franz Rogowski e Sandra Hüller fanno il grande salto, è questo, grazie anche al sostegno del coprotagonista Peter Kurth. Stuber mai più così in forma nel portare sullo schermo la sua Lipsia dolente e proletaria. Una delle prime scene, il ballo dei carrelli elevatori a suon di Bach, è roba da pianto dirotto come l’utilizzo del medesimo brano all’inizio di After Hours, in un contesto diverso ma pur sempre lavorativo. Lo sapevate che il meccanismo pneumatico di un carrello imita il rumore del mare?

Duemiladiciannove. Un altro s-consiglio, che però a suo tempo mi rimase in testa molto più dei bei film. Der goldene Handschuh di Fatih Akin, da Heinz Strunk. Prima di trasferirmi in Germania, per me Akin rappresentava il meglio del cinema tedesco contemporaneo. Dopo aver visto questa celluloid atrocity senza ironia decisi di non vedere più film fatti da lui. Nel 2023 ho infranto il comandamento andando a vedere Rheingold – mannaggia a me. In compenso, sempre nel 2023, infrangendo il von-Trier-ban, ho visto la terza stagione di Riget e non me ne pento. Chiusa parentesi. Il filmazzo di Akin sul serial killer amburghese, malgrado la scenografia impeccabile, è un esempio perfetto di come non vada inscenata la violenza al cinema, cioè con un livello di laidume che pervade lo sguardo in maniera acritica, forse complice. Uno dei film più brutti mai visti in vita mia, e mi si perdonerà l’estrema personalizzazione.

Duemilaventi. Ormai rarissimi dato che con la serie Walker si è abbonato alle gallerie d’arte, i film “narrativi” di Tsai Ming-liang aumentano di valore col passare del tempo. Rizi è – finora – l’ultimo di questa maravigliosa graffa, e mantiene intatte tutte le ossessioni, tutte le compulsioni, tutte le squisite ripetizioni del cinema di Tsai, a cominciare dall’eterno protagonista Lee Kang-sheng. In sala, contai le inquadrature (quarantasei). Quanto di più vicino al porno ci possa essere nel cinéma d’auteur come lo intendeva Bazin.

Duemilaventuno. Festival virtuale azzoppato dalla pandemia, sfida non indifferente per Chatrian e Rissenbeek. Il programma è quel che è ma qualche perla c’è, come Una película de policías di Alfonso Ruizpalacios, pseudodocumentario che lancia domandone feconde a noi spettatori. Nella sua frammentarietà, quasi un saggetto sulla metamorfosi del cinema in questi anni di crisi in senso lato.

Duemilaventidue. Dopo tante incertezze, una certezza: Ulrich Seidl. Con Rimini, l’autore austriaco porta alla Berlinale la prima parte non dichiarata di un dittico destinato alla conclusione – choc – con Sparta. In assoluto uno dei migliori film narrativi di Seidl, e forse l’unico al mondo a captare la riviera romagnola senza alcun senso d’inferiorità rispetto a Fellini. La riviera d’inverno come sfondo di un’umanità sfatta e finita.

Duemilaventitré. Qui l’Orso dorato ci sarebbe stato di brutto, ma è comunque un bene che l’abbiano agguantato Nicolas Philibert e i suoi matti. Con Roter Himmel, Christian Petzold torna a una forma smagliante che non si vedeva da Yella e sforna un gioiello che parla di letteratura, editoria e altre miserie. Facendo ridere e piangere.

Duemilaventiquattro. Settantaquattresima Berlinale appena finita, impressioni troppo fresche, ma è impossibile sbagliare segnalando quello che passerà alla storia come l’ultimo film di Edgar Reitz, Filmstunde_23. Qui si apre, potenzialmente, una parentesi lunga come un’enciclopedia vecchio stile su Heimat. Ma forse conviene fare solo un commento di superficie. Con la sua serie infinita, tre “stagioni” e mille bellissimi rivoli, Reitz utilizzò un termine, Heimat, dalla chiara accezione romantica, salvandolo dalle grinfie dell’ideologia nazi e dal genere conciliante degli Heimatfilme. Ora, nel 2024, anno di rischiosissime elezioni a iosa, Die Heimat è il nuovo nome di un partito neonazi fondato nel 1964, la merdace NPD. A questo punto, alas, siamo (di nuovo) arrivati.

stan wojenny

Dettaglio del dipinto AE73 di Zdzisław Beksiński (1973)

FilmPolska è il più grande festival di cinema polacco organizzato al di fuori della Polonia. Si svolge a Berlino nell’arco di una settimana ed è un’ottima occasione per fare il punto. Quest’anno c’è anche una retrospettiva su Zbyszek Cybulski, il James Dean dell’Est Europa, nato nella campagna ucraina nel 1927 e deceduto a Wrocław quarant’anni dopo, sotto le ruote del treno che aveva tentato di prendere al volo.

Entrambi i film (nuovi) che ho visto rientrano nell’alveo ampio e frastagliato del cinema civile polacco. Wszystkie nasze strachy (‘tutte le nostre paure’) è l’opera prima di Lukasz Ronduda e Lukasz Gutt, vincitrice all’ultimo festival di Gdynia. Dawid Ogrodnik interpreta l’artista contemporaneo Daniel Rycharski, omosessuale e cattolicissimo, famoso per aver tematizzato la violenza ai danni delle persone LGBT[IAQ*+…] in opere che fondono vita contadina e simboli religiosi. Le più famose sono le croci-spaventapasseri con i vestiti delle vittime di omo- transfobia, spesso suicide. Sulla carta una bomba, in realtà un film esile, con zero credibilità nella messinscena dei rapporti gay, che schiaccia l’acceleratore solo quando si tratta di celebrare la campagna e la fede, i due pilastri della cultura polacca. Non mancano le stoccate alla politica agricola europea. In sostanza, la cultura queer passa solo perché agganciata alla vita nei campi e a una spiritualità senza tempo che serve a modernizzare. Lo stesso sottotesto che si coglie in Boże Ciało (Corpus Christi, 2019) di Jan Komasa, distribuito anche in Italia, dove un giovane scapestrato che si spaccia per prete finisce per incarnare la chiesa anni duemila. Non esiste Polonia senza cattolicesimo, soprattutto in seguito al nesso creatosi tra l’elezione di un papa polacco e la caduta della cortina di ferro. Al cinema, pochissimi si azzardano a criticare la chiesa, tanto meno adesso che i finanziamenti per le opere cinematografiche sono ancora più legati alle direttive del governo. Il discorso portante è oggi più che mai antisovietico, nazionalista – uno spazio politico creatosi nel 1990 e lubrificato dai veti che la Polonia si può permettere dal 2004 – e malsanamente cristologico. Insomma, il messianismo ottocentesco di Mickiewicz è ora pratica quotidiana.

L’altro film recuperato a FilmPolska, già in concorso a Venezia 78, è il nuovo gioiello di Jan P. Matuszyński, l’autore di Ostatnia rodzina (‘l’ultima famiglia’, 2016), film biografico sul pittore tardo surrealista Zdzisław Beksiński. Żeby nie było śladów (‘che non lasci tracce’, sceneggiatura di Kaja Krawczyk-Wnuk) è la storia vera, e allucinante, dell’assassinio di Grzegorz Przemyk avvenuto nella primavera del 1983, pochi mesi prima che venisse sospesa la legge marziale (stan wojenny) voluta da Jaruzelski per contrastare Solidarność. In soldoni e spoiler-free: il maturando Przemyk viene prelevato dalla milizia a Varsavia vecchia per nessun motivo apparente – sta cazzeggiando con un amico – e dopo essersi rifiutato di esibire il documento viene pestato al distretto. Muore pochi giorni dopo a causa di lesioni interne. Visto che il ragazzo è figlio di una poetessa vicina al sindacato, Barbara Sadowska, le istituzioni mettono in moto un meccanismo straziante per seppellire la cosa (non ce la fanno), sovvertire i fatti (ce la fanno), scaricare il barile dalla milizia ai barellieri (ce la fanno) e risparmiare i pezzi grossi (ce la fanno). Il caso è caduto in prescrizione nel 2010. Żeby nie było śladów dura due e ore e quaranta, Grzegorz muore dopo un quarto d’ora. Non c’è un solo minuto superfluo.

Ex studente e ora professore presso la scuola di cinema di Kieślowski a Katowice, Matuszyński riesce là dove il maestro del Decalogo ha sempre avuto difficoltà, cioè nel fare cinema politico tout court. Con una differenza fondamentale a discolpa di Kieślowski, che ha sempre affrontato il presente e quindi la censura di regime. Matuszyński ripesca perle nere della storia polacca, e in filigrana si coglie una critica più ampia alle istituzioni applicabile anche all’opportunismo dell’epoca Kaczyński. Quando Przemyk venne barbaramente pestato davanti agli occhi del suo migliore amico, Kieślowski aveva da poco conosciuto Piesiewicz e insieme stavano assistendo ad alcuni processi-farsa innescati dalla legge marziale con l’idea di farci un documentario. Progetto poi scartato e virato alla finzione, con la sceneggiatura “paranormale” del lugubre Bez końca (Senza fine, 1985). La filmografia di Kieślowski precedente a quegli anni è una cornucopia di osservazioni entomologiche che spaziano in tutti gli ambiti della società polacca, dimostrando particolare affetto per la città operaia di Łódź (Z miasta Łodzi, 1968), medici e infermieri (Szpital, 1976) e giovani coppie (Pierwsza miłość, 1974). Il suo primo lungometraggio, Personel (1975, per la tv), s’immerge tra le maestranze di un teatro e mette a nudo gerarchie, angherie, ingerenze da parte delle autorità. Uno slancio di impegno civile che in Blizna (La cicatrice, 1976) scende a compromessi e si stempera in immagini specchiate, avvisaglie del suo cinema più formalista e festivaliero anni Novanta. Spokój (La calma, 1976), prima collaborazione con l’attore Jerzy Stuhr, parla del fallito reintegro nella società di un pregiudicato, distrutto dalle tensioni tra classe operaia e apparati. Nel film, Kieślowski utilizza per la prima volta degli animali in chiave metaforica, in questo caso dei cavalli – visti dal protagonista prima in tv per puro caso, poi al galoppo nella notte – che rappresentano una serenità selvaggia e irraggiungibile. Nel successivo Amator (Il cineamatore, 1979), l’animale totemico e latore di sventure è il falchetto. La critica neanche tanto sottile al regime passa in secondo piano rispetto a una celebrazione quasi diagnostica della passione di filmare intesa come spostamento di realtà, dipendenza totalizzante, droga bellissima e perniciosa. Già in Klaps (1976), il regista aveva realizzato insieme ad alcuni colleghi un breve manifesto ipnotico montando gli attimi del ciak presi dai film più disparati. Cos’è un ciak? Rumore secco, azione!, sorpresa, scompiglio, inevitabile scarto. Kieślowski lo colloca invece al centro della visione, una manovra rivoluzionaria che ricorda gli esperimenti di Grifi e Baruchello. Un blob ante litteram. E parlando di cinema che si ciba di altro cinema, in Amator c’è un lungo frammento di Barwy ochronne (Colori mimetici, 1976) accompagnato dalla comparsa del regista Krzysztof Zanussi, che il protagonista Filip Modz (Stuhr) invita a un cineforum.

Considerato a suo tempo l’anti-Wajda per il suo approccio accademico e lo stile pulito, Zanussi è il vero punto di riferimento di Kieślowski, che con Amator compie la svolta dal “sociale” al cosiddetto cinema dell’inquietudine morale. All’apparenza innocuo, con le sue atmosfere da campo estivo per giovani universitari, Barwy ochronne resta probabilmente l’esempio più fulgido di denuncia della corruzione nel sistema polacco, tanto da subire sabotaggi (con effetto boomerang) al momento dell’uscita nelle sale. Wajda, per decenni nume tutelare della cinematografia nazionale, non ha mai sfoggiato la raffinatezza psicologica di Zanussi, preferendo inserire direttamente Lech Wałęsa in Człowiek z żelaza (Palma d’oro nel 1981) o contaminando l’adattamento del classico della letteratura Ziemia obiecana (La terra della grande promessa, 1975), ambientato a Łódź durante la rivoluzione industriale, con una scena al limite dello splatter – all’85° minuto – e uno sfondamento clamoroso della quarta parete (133°: vedere per credere). Se Zanussi è sinonimo di sottigliezza, Wajda ha sempre optato per narrazioni potenti e polacche fin nel midollo come la pièce Wesele (‘le nozze’, 1901, di Stanisław Wyspiański, versione di Wajda anno 1973), caposaldo del “teatro enorme” targato Młoda Polska. Non è un caso che a rifare – ben due volte – Wesele al cinema sia stato l’autore contemporaneo forse più vicino al materialismo di Wajda, ovvero Wojciech Smarzowski. Tornando a Krzysztof Kieślowski, Krótki dzień pracy (Una breve giornata di lavoro, 1981), film ripudiato dal suo autore, segna l’ultima volta in cui il regista affronta di petto la semiattualità, mettendo in scena la protesta del 1976 contro il carovita nella periferica Radom, con lo scontro impari tra manifestanti ed esponenti del partito. Come in Blizna, il protagonista fa parte dell’apparato e l’esito confuso, a tratti pedante della pellicola deriva dalla difficoltà di conciliare tutte le prospettive.

Sono pochi i film contemporanei che cercano di raccontare la società polacca in un’ottica politica. Il già citato Smarzowski ci è riuscito con Kler (2018), racconto altmaniano di una chiesa cattolica che coincide col potere e l’abuso. Sebbene molto più mansueto di quanto vorrebbe (ma almeno non manicheo nel fare di tutti i preti un fascio), Kler è un ottimo esempio del cinema di Smarzowski: esagitato, caustico, esilarante quando ricorre ai video amatoriali o ai prelievi dal flusso delle camere di sorveglianza. Spesso, purtroppo, la grana grossa prende il sopravvento sulla denuncia, ottundendola. Parimenti ondivaga nei risultati, ma molto più raffinata quanto a senso dell’umorismo, Małgorzata Szumowska ha avuto il coraggio, in Twarz (2017), di sbattere al muro in un colpo solo l’idiozia della società consumistica, l’ottusità della classe dirigente e la ridicola grandeur della chiesa cattolica, che a Świebodzin ha fatto erigere una statua di Cristo più alta di quella di Rio. Premessa perfetta per il colpo di coda finale. Come Agnieszka Smoczyńska (autrice del fulminante esordio Córki dancingu, 2015), Szumowska sta ora tentando faticosamente la fortuna all’estero.

Żeby nie było śladów è un segnale di speranza in una Polonia che rischia di far passare ancora di più in secondo piano i diritti civili a causa della nuova fase geopolitica rovente. La chance di fungere da nuovo “centro periferico” dell’Europa, incarnando lo struggimento per i kresy (‘terre di confine’) tanto importanti nei libri di Sienkiewicz, rischia di dare libero sfogo a una politica già profondamente conservatrice. In questo quadro, la Vergangenheitsbewältigung di Matuszyński è preziosa perché dimostra quanto sia facile sia infliggere delle ingiustizie abissali, sia difenderle mediante il ricatto e l’oppressione. Tutto pur di non disturbare il manovratore di turno. Uno dei pochi a prendere a cuore il caso di Grzegorz Przemyk è un avvocato che ha nello studio un famoso dipinto kafkiano di Zdzisław Beksiński del 1973. Come se le immagini distopiche del pittore protagonista di Ostatnia rodzina portassero con sé il seme della ribellione alla legge marziale. Matuszyński fa un lavoro certosino che va dai vertici della Repubblica Popolare, quindi Jaruzelski e la sua cerchia ristretta, fino al cuore delle famiglie coinvolte, lacerate tra fedeltà agli ideali, scontri centro-periferia e paure umanissime (una delle testimoni chiave non si presenta al processo perché la polizia segreta ha scoperto dei suoi flirt con ragazzi non ancora diciottenni). La faccia di bronzo dello straordinario Robert Więckiewicz – una sorta di moderno Sordi polacco – nei panni del generale a capo della milizia è la pietra tombale su qualsiasi tentativo di fare giustizia. Tutto dovrebbe scorrere “senza lasciar tracce”, al pari delle lesioni inflitte calciando il ventre. Il film, perentorio e dolente, vuole sostenere il contrario. Che non è mai troppo tardi. Per fare un’inquadratura con pollici e indici. E dare quel colpo di ciak che apre gli occhi.

Krótki dzień pracy (1981, dettaglio) di Kieślowski. ‘Il programma del partito è il programma della nazione’. Sullo sfondo, manifestanti in arrivo.