ve l’avevo detto io

Jan Tříska porta Sade a palate in Šílení (2005).

Sulla rivista Vertigo, numero estivo del 2006, si trova un decalogo a firma Jan Švankmajer il cui secondo comandamento recita: “Soccombi totalmente alle tue ossessioni. Non c’è niente di meglio”. Ci metto la firma, con tutti i rischi che comporta il soccombere ai loop bui che abbiamo dentro. Tra spazzarle sotto il tappeto, neutralizzarle o addomesticarle (illudendosi di poterlo fare), tanto vale soccombere alle ossessioni e lasciarle crescere con amore come una pasta madre. Švankmajer ha sempre dato libero sfogo ai propri tic, e in quasi sessant’anni di produzione cinematografica deve ancora fare un film che lasci indifferente.

Celebre per l’uso personalissimo delle tecniche di stop motion, pixilation e cut-out, anello di congiunzione tra l’animazione delle origini e i clippini di Gilliam per il circo volante, Švankmajer è molto di più di un semplice animatore mitteleuropeo. In alcuni suoi lungometraggi, l’animazione ha persino un ruolo ancillare. Animando gli oggetti, Švankmajer non punta al virtuosismo ma a un’estasi elementare. Ci vuole mostrare il grado zero, il passo uno delle cose. Il suo è un universo tattile, stranamente appetitoso, un’eterna fase orale senza il gravame delle interpretazioni freudiane. Tutto è organico, mobile e selvaggio, innervato di desiderio e sconquassato da questo desiderio. I lieto fine sono rari, al massimo beffardi. In questo abisso quotidiano in cui gli oggetti sono bestie e noi (grandi scimmie) siamo marionette, il soccombere è d’obbligo e si accompagna spesso a un epilogo drastico. L’unico argomento a sfavore di questa visione del mondo è l’età di Švankmajer, quasi novant’anni, come dire che di ossessioni, non necessariamente, si perisce ventisettenni come stelle del rock.

Malgrado la sua fama di “ultimo surrealista”, Švankmajer ha preso la tessera del club solo nel 1970. Fino a quel momento gira corti di animazione arcimboldiani, pasticciando con la plastilina e mettendo in scena marionette a misura d’uomo, come nell’esordio Poslední trik pana Schwarcewalldea a pana Edgara. Byt (“L’appartamento”, 1968), il suo primo capolavoro, è un corto in bianco e nero in cui si riversano influenze come Kafka e Magritte. Un uomo chiuso in una stanza, una porta da aprire e una soluzione atroce, se non fosse che il tono leggero butta tutto sul ridere. Zahrada, sempre del 1968, è il suo unico film senza animazioni di sorta. Il “giardino” del titolo è recintato da una catena umana di volontari che si asserviscono a un funzionario per espiare crimini politici. Tutto questo si intuisce soltanto, ma la metafora della sottomissione a un regime liberticida è evidente. Un paio di conigli bianchi prefigurano i lavori successivi su Lewis Carroll, e il gioco della morra cinese tornerà in Možnosti dialogu (“Possibilità di dialogo, 1982), forse il corto più apprezzato di Švankmajer.

Gli anni Settanta sono i più difficili, a causa di una censura politica che lo blocca dopo Jabberwocky (1971). Dal 1980 Švankmajer è di nuovo al lavoro, alternando cortometraggi ispirati ai suoi idoli letterari (oltre a Carroll, Poe) e preparando il suo primo film, Něco z Alenky (“Qualcosa da Alice”, 1988). Antidisneyana fino al midollo, questa versione del romanzo folle e fantasioso per eccellenza non scappa in una dimensione parallela in cui, traslando un minimo, basta seguire il sentiero dei mattoni gialli per divertirsi da morire. Qui Alice (Kristýna Kohoutová), una bambina in carne e ossa, vaga letteralmente di cassetto in cassetto, di stanza lercia in stanza lercia, inseguendo – con calma – un Bianconiglio più perturbante che coccoloso, e trovando chiavi e forbici in ogni dove. Tutto è 1:1, nessun plastico, nessuna miniatura. La sua discesa nella tana assomiglia più che altro a una calata in miniera, un lentissimo tuffo in paternoster. Invece di vermi, radici e teschi, la terra cela un dispositivo rotante sui cui piatti sono appoggiati ninnoli a non finire. L’inconscio, la terra che scaviamo, è una Kunstkammer. Un’intuizione che accompagnerà Švankmajer fino al suo ultimo film, il documentario Kunstkamera, nel quale passa in rassegna la sua collezione di oggetti, accrocchi, feticci, ossessioni tangibili.

L’Alice cecoslovacca del 1988 non è un film per bambini, o almeno non per bambini bravi. Col Bianconiglio scatta un tafferuglio di oggetti contundenti, la nostra eroina gli entra in casa e scopre che l’eterno ritardatario usa il letto come fosse una lettiera, il Brucaliffo diventa uno scorbutico Brucalzino e ci sono pure dei bucrani in carrozza, che per quanto irresistibili sempre teschi sono. Zero messaggi edificanti nel senso woke del termine. Il film si conclude con un’Alice desta ma non doma, circondata dagli oggetti che ha surrealisticamente combinato in sogno, eppure il coniglio impagliato è davvero uscito dalla teca. E queste forbici, le forbici che lei brandisce negli ultimi fotogrammi… cosa ci vogliamo fare? Che teste vogliamo tagliarci?

Něco z Alenky è una coproduzione britannico-elvetica. Del film esiste una versione doppiata in inglese che farà il giro del mondo, consentendo a Švankmajer di realizzare i trenta secondi di Flora negli Stati Uniti. Ma ormai la – vastissima – produzione di cortometraggi è acqua passata. Gli ultimi sono Konec stalinismu v Cechách (“La fine dello stalinismo in Cechia”) e Jídlo (“Cibo”), esempio perfetto della struttura narrativa circolare, nel senso del circolo vizioso, tanto cara a Jan. Il secondo lungometraggio è Lekce Faust (“Lezione Faust”, 1994), lettura anarchica di Goethe in cui ritornano in grande stile le marionette a misura d’uomo, o meglio di diavolo. Tra i loghi delle case di produzione compare anche quello di Athanor, fondata da Švankmajer. L’autore trasforma il classico tedesco in un oscuro rituale ceco cui si accede per puro caso prendendo un volantino, con una mappa, all’uscita della metropolitana di Praga. Gli scantinati, i teatri sotterranei e i cortiletti polańskiani prendono il sopravvento senza lasciare alcuno scampo a scorci cartolineschi e altre carinerie. Si affoga, persino, ma non nella Moldava: in un mare fatto di onde di cartone agitate manualmente.

Spiklenci slasti (“I cospiratori del piacere”, 1995) è una sceneggiatura dei primi anni Settanta tirata fuori da un cassetto pieno di altre diavolerie. Non ci sono dialoghi, e la prima sequenza animata arriva al minuto 44, cioè a metà film. La trama è esile ma non innocua: sei personaggi si danno da fare per allestire dei riti erotici che li ossessionano. Un esempio? Inalare palline di pane con due tubicini, per poi addormentarsi come sassi. Alcuni di loro si conoscono, potrebbero anche “farlo insieme”, ma tutti preferiscono la solitudine, l’abisso solipsistico della fissa. Alla fine, consumato il rito, senza alcun accordo esplicito, si scambiano le cassette degli attrezzi e ricominciano daccapo, una striscia di Moebius di onanismo e piacere proibito. In realtà il film spezza la concatenazione suggerendo, nel finale, che almeno uno di questi riti non è replicabile all’infinito – perché letale. Visto con gli occhi di oggi, Spiklenci slasti sembra anticipare il gusto di Michel Gondry per il bric-a-brac nerd e agrodolce. Titoli di coda da non perdere perché vi appaiono, accreditati come consulenti tecnici, i nomi di Sade, Masoch, Freud, Buñuel, del ceco Bohuslav Brouk e di Max Ernst, il cui “grande uccello antropomorfo” Loplop è al centro del rituale più sanguinoso. La colonna sonora, tra pathos classico e kitsch, pesca dal repertorio de L’âge d’or.

Otesánek (2000) è il film più tradizionale di Švankmajer, e al contempo forse quello più godibile. La fonte è una favola ceca su una coppia senza figli che decide di adottare un pezzo di legno chiamandolo Otik. Otik, come tutti i pezzi di legno amati di questo mondo, si anima per la gioia di mamma e papà… ma è vorace, così vorace che puntini puntini puntini. Favola nerissima sull’infanzia e i ruoli genitoriali, Otesánek tracima occorrenze dell’immagine più significativa nell’universo švankmajeriano, cioè il primissimo piano di una bocca che parla o mangia. Fase orale. Inoltre, come in Ginger e Fred ci sono diversi inserti nella forma di pubblicità fittizie, una delle quali coincide col corto Meat Love. Un’altra promuove il ferro da stiro Inferno. E una sera, per distrarsi, la coppia va al cinema a vedere il film Kanibalowe IV – che purtroppo non esiste. Il terzo atto del film sembra una versione estesa del corto Do pivnice (“Giù in cantina”), con una nuova Alice (Kristina Adamcová) che adotta Otik e gli dà libero sfogo, anche se il destino del famelico marmocchio – ormai grande come un baobab – è scritto nella favola, ed è roba da Grimm. Favola che nel film viene visualizzata mediante un cartone animato da Eva Švankmajerová. Momento clou, che ho notato solo alla n-visione del film dopo più di vent’anni dalla prima al Lido: Otik si lava le radici nell’acqua, come gli ha insegnato la seconda madre (una bambina impicciona), prima di divorare il padre sceso ad ammazzarlo con una sega elettrica, ma che gli si offre in ginocchio come un agnello sacrificale.

Con Šílení (2005), Švankmajer ibrida Poe con Sade, il dottor Catrame col dottor Piuma, riflettendo ad artigli spianati sull’ospedalizzazione della follia. Animazione centellinata, di fatto circoscritta a intermezzi con lingue e pezzi di carne in movimento tra gli interstizi delle location, sempre accompagnati dal medesimo spezzone musicale in stile carillon – una scelta, quella del brano ripetuto alla nausea, cementatasi in Spiklenci slasti. Per la prima volta, inoltre, il regista introduce il film mettendosi direttamente in scena. All’apparenza un gioco, questo escamotage tra Hitchcock e Rod Serling diventerà sempre più ingombrante negli ultimi film, fino a dettare la struttura di Hmyz. È spassosissima anche l’introduzione di Přežít svůj život (“Sopravvivere alla propria vita”, 2010), film sulla psicoanalisi realizzato interamente con la tecnica del cut-out, à la Gilliam insomma. Uno stile straniante che per la prima volta sposta l’attenzione dalla trama, o perlomeno dai suoi accenni, al medium, salvo stenderci con un’ultima scena, autentico scatto da rettile in una vasca piena di sangue. Sul numero monografico di Moviement del 2010 dedicato a Švankmajer, ancora oggi un punto di riferimento critico, Michele Faggi scrive: “All’allucinazione del cristianesimo contro cui Švankmajer sembra scagliarsi con furia tutta surrealista in Lunacy, il suo film più stratificato nelle declinazioni di una visione post-bretoniana tanto da sovrapporre una superficie di genere molto marcata e da sembrare a tratti un esperimento ingiurioso vicino al cinema di Jesus Franco, Švankmajer sostituisce in Surviving Life la minaccia di un’altra cura, quella dell’interpretazione psicanalitica” (p. 81).

Anche Hmyz (“Insetto”, 2018) ha un’introduzione (a quattro minuti dall’inizio) con l’autore in scena, ma da eccezione questa diventa la regola in un film che Švankmajer ha presentato come la sua ultima opera di finzione. Boutade surrealista, perché si tratta semmai di un semidocumentario grottesco sulla troupe che sta girando un film su una catastrofica produzione amatoriale della pièce Ze života hmyzu (“Immagini dalla vita degli insetti”, 1921) di Josef e Karel Čapek. Il taglio meta, da extra di dvd, impedisce il classico tuffo švankmajeriano in un universo pulsionale senza via d’uscita. Da questo punto di vista, il film risulta un po’ trascinato, goliardico, ma anche qui c’è una zampata d’orso finale. Ed è già contenuta nell’intro, in cui Švankmajer annuncia che il testo teatrale dei fratelli Čapek, celebre per il suo pessimismo nel paragonare la società ceca a un manipolo d’insetti, si conclude con un buongiornissimo posticcio e a doppio taglio.

Maestro dei girotondi senza senso, dello sberleffo spiazzante (ma mai cinico), Jan Švankmajer resta un autore isolato: il suo modo artigianale di smontare la vita di tutti i giorni non ha seguaci, ma nemmeno imitatori efficaci. I fratelli Quay gli hanno dedicato un documentario, ma sul lato pratico i loro film di animazione, sebbene tecnicamente ineccepibili, sono gravati da un intellettualismo che li svuota. Il piacere che si assapora in Byt, Možnosti dialogu o Jídlo è fisico, tattile, vorace – crudele, anche. È la voglia infantile di confondersi col mondo che ci circonda, non il cielo ma gli oggetti, non i massimi sistemi ma la pelle e il terriccio. Assaggiare tutto, mangiare tutto per vedere cosa succede. Elementi che ritornano, come un catalogo secentesco e scombiccherato, nel documentario Kunstkamera (2022), per il quale rimando a un’ottima recensione.

[Aggiunta del dicembre 2025: sono finalmente riuscito a vedere Kunstkamera, al Brotfabrik Kino. Con tanto di scherzo surrealista degli organizzatori, che hanno proiettato la versione lunga di due ore spacciandola, anche nel programma, per quella standard di 52 minuti. Che dire? Visione completista, con le quattro stagioni di Vivaldi spalmate senza sosta, e a volte con effetti speciali casalinghi, su tutti e centoventi i minuti di questa mappatura 1:1 di un villino tanto caro al movimento avanguardista cecoslovacco. Effetti da dj di provincia per far coincidere la durata dei concerti di Vivaldi (un’ora e mezza al massimo) con quella necessaria a mostrare ogni singola opera conservata a Horní Staňkov. Il montaggio a raffica che segue i violini barocchi non aiuta a godersi tutto, e questo tutto è oggettivamente troppo. Un guazzabuglio arcimboldesco musealizzato, quindi statico, che solo qualche zampatina di montaggio, più sonoro che visivo, riesce a rendere interessante. Leggi: bruitage che accompagna improvvisamente un’opera o un suo dettaglio, come uno sferragliar di posate, lo scampanellio del giullare di Faust, suoni organici e appiccicaticci. Tra conchiglie, alambicchi, teschi leprini e accrocchi vari, di Švankmajer, nella Kunstkammer, si vedono solo il teatro di Faust, il calesse di Alice… e quella che dovrebbe essere la sua camera da letto estiva, munita di cuscini e ciotole per il cane (primissimo piano surrealista della pappa a cubetti industriale, che cozza con l’arte per l’arte documentata fino a quel momento). L’ultima immagine, sfumata al nero dei titoli di coda, è quella delle pantofole consunte del nostro. Un progetto davvero surrealista per ossessività e sadismo, che forse funziona meglio nella sua versione compatta. I rari momenti di contrasto o timido commento iniettano tensione in un progetto altrimenti assimilabile a un catalogo filmato]

Negli ultimissimi minuti di Hmyz compare l’attore preferito da Švankmajer, Pavel Nový, nei panni di un barbone a caccia di cibo di bidone in bidone. Malgrado la spazzatura onnipresente, il vomito che irrompe come un torrente in una scena di Přežít svůj život, la cacca di piccione che tappezza la stanza del protagonista in Lekce Faust, malgrado le lingue che strisciano su qualsiasi cosa come lumache turbo in Šílení, Hmyz si conclude con quella che sembra una famiglia felice a passeggio mentre tutti si dicono buongiorno. Con tanto di bimba cresciuta a velocità supersonica, Otesánek docet. Un lieto fine? Švankmajer ce lo sbatte in faccia prima di chiudere baracca: Já jsem vám to říkal.

“Ve l’avevo detto io” – ultima immagine di Hmyz (2018).

immagini viscerali

Sarà perché sto per tornare all’università nei panni dello studente lavoratore e tardone, sarà perché anni or sono le ho voluto tanto bene. Per farla breve, ho ripescato la mia vecchia tesi di laurea e le ho fatto il tagliando. S’intitola Linee di massima pendenza e parla di cinema e filosofia. Spunto, l’immagine-pulsione accennata da Gilles Deleuze nel primo dei suoi trattati scopofili degli anni Ottanta. Obiettivo d’antan: discutere la tesi – correva l’anno 2001 – infliggendo una celluloid atrocity in forma di videocassetta alla commissione accademica.

Ricordo ancora il momento in cui, a casa di mia nonna paterna, lessi il capitoletto striminzito di Cinema 1 – L’immagine movimento che tratta l’immagine-pulsione. Doveva essere il 1998, a suo tempo ero un collezionista ossessivo e corsaro di film in formato analogico, e le poche righe che Deleuze dedica a questo tassello difettoso della sua tassonomia mi lasciarono a bocca aperta. Seppi subito di aver trovato l’incrinatura attraverso la quale passa la luce. Mi attrezzai per un lavorone e ne uscirono quattrocentocinquantamila battute tra il visionario e la schiuma alla bocca. Abituato com’ero a scrivere a mano (a caratteri maiuscoli, come se non peggio di un serial killer), l’esperienza di usare Word sul pc attrezzato con Windows Millennium Edition è stata formativa nel senso agghiacciante del termine. Le tesine le avevo scritte tutte su un computer accessibile via Norton Commander. Refusi e sbavature a balùs.

Questo spiega il tagliando a vent’anni tondi di distanza. Riaprendo il file, l’orrore ha spalancato le sue fauci lovecraftiane fin dal frontespizio, al che mi son detto diamogli una scorsa. Ora il testo è più leggibile, ha delle pagine in meno – roba compilativa inutile – e sebbene le norme adottate siano quelle che sono, stanno in piedi. Il rizoma è salvo, anche se sbuffa e sferraglia come un marchingegno steampunk. Qua e là ho anche aggiustato l’argomentazione e inserito dei passi che portano l’immagine-pulsione negli anni Venti di questa nostra millennium edition. Il file sta qui:

A mo’ di abstract, c’era una volta Gilles Deleuze senza Félix Guattari. Deleuze era un cinefilo compulsivo, e tra il 1983 e il 1985 pubblicò l’opera in due volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Traduzione italiana rispettivamente di Jean-Paul Manganaro e Liliana Rampello, edita da Ubulibri (ora Einaudi dopo auspicabile revisione). Non una storia del cinema, bensì una tassonomia, o meglio una cassetta degli attrezzi – metafora che aiuta a capire l’intero costrutto del pensiero deleuziano. Prima di approdare a una dimensione più cerebrale e postmoderna (quella di cui si occupa Cinema 2), in Cinema 1 il filosofo individua delle “immagini” che vanno pian piano a comporre la sintassi filmica classica. Parte dal primo piano (immagine-affezione, possibilità pura) ma s’inceppa subito in quello che rappresenta lo snodo negativo, devastante e malfunzionante che ostacola il raggiungimento dei solidi stilemi del cinema hollywoodiano (l’immagine-azione). Questo passo falso, che disfa invece di imbastire, che fa terra bruciata e non ci fa uscire dalla sala con un senso di appagamento e conferma, questo Odradek riottoso del grande schermo è l’immagine-pulsione.

Come riconocerla? Da pezzi, abbozzi, sintomi e feticci, dai Triebe freudiani che ci squassano impedendoci di pensare razionalmente. Vettori che puntano al sesso – quasi mai riproduttivo -, alla morte (propria e altrui), al denaro. Storie viscerali che finiscono male. Congegni narrativi carichi come molle, che ti esplodono in mano. Dischi rotti. Ambienti esauriti, corpi sfiniti. È il naturalismo, versione grezza del realismo e al contempo più vera del vero. Perché neanche la realtà ha la battuta pronta e un lieto fine dietro l’angolo.

Deleuze individua due maestri della pulsione al cinema: Erich von Stroheim e il Luis Buñuel allo stato brado, tra Las Hurdes (1932) e la rinascita con Viridiana (1961). In mezzo ci sono i famigerati “film messicani”, allora in parte reperibili solo grazie a Fuori orario. Stroheim rappresenta la forma più pura di immagine-pulsione, autodistruzione compresa. Greed (1924), tratto dal romanzo McTeague dello “Zola americano” Frank Norris, segna il punto di non ritorno per un cinema non solo inguardabile da parte del pubblico di massa, ma soprattutto improducibile a livello finanziario. Non a caso, il film circolò in una versione vergognosamente monca per interi decenni, e col sonoro Stroheim dovette appendere la cinepresa al chiodo. Solo Billy Wilder in Sunst Blvd. avrà il genio e la riconoscenza di farlo riapparire sullo schermo, lui e un altro martire delle metamorfosi produttive di nome Buster Keaton. Nella tesi parlo ampiamente sia di tutti i film diretti da Stroheim, sia del Buñuel costretto alla sua traversata nel deserto. Pur di lavorare, il regista spagnolo accettò infatti per un quarto di secolo progetti spesso alimentari, nei quali riuscì tuttavia a infilare dei semini. Autentica sabbia negli stessi ingranaggi che andava ordendo. Con Buñuel l’immagine-pulsione diventa inserto disturbante, sabotaggio. A una messinscena tutto sommato piana si aggiungono elementi come un cazzotto (o un rasoio) nell’occhio. Los olvidados (1950) ingannò tutti con l’etichetta neorealista quando invece il neo era nero, le scene oniriche invadevano la realtà sotto forma di polli minacciosi e il grottesco, la cattiveria, da marchi d’infamia diventavano semplicemente la misura del mondo. Per sicurezza, Buñuel aveva pure girato un happy end. Altrimenti rischiava di finire lui nella Tierra sin pan.

Il terzo esempio deleuziano di immagine-pulsione, meno presente in Cinema 1, è dato da Marco Ferreri, il fisiologo per eccellenza del cinema italiano. Nella tesi ne parlo con particolare attenzione al corto Il professore, alla Donna scimmia e allo straordinario Break up, versione lunga dell’Uomo dei cinque palloni. In Ferreri l’immaginario pulsionale diventa più pop e stravagante rispetto alle classiche ossessioni stroheimiane o buñueliane per i piedi o gli animali selvatici. Break up racconta la storia di un industriale del cioccolato (Marcello Mastroianni) che s’incaponisce per capire fino a che punto si possa gonfiare un palloncino. A casa ne ha cinque, e quando anche il quinto esplode frustrando il suo intento scientifico – che nel frattempo gli ha desertificato la vita – non gli resta che buttarsi dalla finestra, spiaccicandosi su una macchina nella Milano prenatalizia. Analoghi percorsi verso il fondo, in un assurdo che fa male, si assistono nei ben noti Dillinger è morto e La grande abbuffata. Ferreri è stata una figura mastodontica del nostro cinema, spesso presa sottogamba per via della presunta sciatteria o della bassezza incomprensibile dei suoi temi.

Con Ferreri termina la parte di ricerca classica della tesi e inizia quella sperimentale con la sigaretta nelle narici. Puntando tutto sul verde della roulette, azzardo nomi nuovi nel prosieguo dell’immagine-pulsione secondo la buona vecchia politica degli autori baziniana. Questi nomi sono David Lynch (in primis l’incipit di Blue Velvet, ma anche la striscia di Moebius decerebrata di Lost Highway), Peter Greenaway (che fonde barocco digitale, ossessioni idiosincratiche e carnezzeria) e Jan Švankmajer, surrealista come Buñuel, maestro nel far rivoltare gli oggetti e nel ridurre gli esseri umani a insetti sragionanti. In coda, un cenno a Tsai Ming-liang e a qualche nome – anche nuovissimo – che fa collidere la pulsione col cervello, la fame da zombi con l’emicrania, il genre col gender.

Mentre ero sotto tesi ho avuto il privilegio di intervistare di persona, a Ostia, l’unico accademico italiano che all’epoca aveva sposato con slancio la tassonomia deleuziana: Roberto De Gaetano. La lunga chiacchierata con lui ha segnato il momento più alto di un periodo altrimenti caotico, con un drone in testa e troppi eventi in contemporanea per lanciarsi nell’ascensore senza fili della concentrazione vera. Tant’è che nella versione finale della tesi uno dei nomi ricorrenti compariva col nome di battesimo sbagliato (Roberto Grande invece di Maurizio), Buñuel aveva un segno diacritico ceco sulla n invece della bisciolina giusta e i refusi, anche nei paragrafi chiave, spuntavano come ovolacci. Tutto questo, dopo il tagliando, non c’è più. È rimasto qualcos’altro. Il giorno della discussione proiettai una vhs assemblata poche ore prima con due videoregistratori. Si vedeva questo:

Pure la data di realizzazione di Queen Kelly avevo sbagliato, 1919 invece di 1928-9. Non so cosa dissi, alla fine strinsi la mano solo al relatore capo – che non avevo chiamato chiarissimo sui volumi sfornati in copisteria – tornai a casa in vespa e vidi una mail di De Gaetano che lamentava la cattiva citazione dell’amico Grande. Già lavoravo a tempo pieno da un anno e mezzo: decisi che l’accademia non faceva per me. E rieccoci, come un disco rotto al ralenti, rieccoci qui vent’anni dopo con le stesse immagini in testa, e quache drone in meno.