Dettaglio della copertina di Sex und Karriere (1976), ritratto di Rosa a opera di Millie Büttner
“Molti troveranno i miei film cinici e dilettantistici. Sono noto per farmi beffe dei miei attori. Il mio racconto autobiografico sarà considerato superficiale e pornografico. È schifosamente privato e proprio per questo motivo mi interessa renderlo pubblico, poiché al mondo ci sono un sacco di troie frocie e una società che crede sempre di essere migliore di loro. Non ci restano che autoconsapevolezza e orgoglio”.
Questo colpo di scudiscio è la stringata prefazione del libro-non-libro Sex und Karriere, uscito nel 1976 e inedito in Italia. Più che un libro, un catalogo egomaniaco, una filmografia completa di sinossi e specifiche tecniche per un autore attivo da meno di dieci anni, già prolifico ma sicuramente non ancora pronto per essere musealizzato. Rosa, va da sé, era di diverso avviso. Il volumetto contiene qualche riflessione sull’impatto di Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971), tuttora il suo film più influente, un’ottantina di pagine infarcite di immagini e documenti battuti a macchina di questo benedetto resoconto autobiografico steso a New York nell’inverno 1975/76, interessante solo per completisti, e il resto è una congerie di scartoffie e articoli di giornale a corredo della filmografia. Una trentina di titoli. Rosa von Praunheim è morto pochi giorni fa chiudendo un’opera inarrestabile e difficilmente scontornabile di oltre 150 film, per tacer del resto.
Tutti, nel mondo germanofono, sanno chi è e si sono sentiti a disagio almeno una volta per via delle sue dichiarazioni. Fuori dalla Germania, e fuori dalla bolla cinefila, Rosa stinge. Il primo mediometraggio che vidi, Can I Be Your Bratwurst, Please (1999), protagonista Jeff Stryker e girato in Ammeriga, è un inganno. Diverte, è camp, sembra un John Waters ripulito o un porno soft col freno a mano, ma gli manca l’energia grezza, l’orgogliosa approssimazione tipica di Rosa, che quando per un breve periodo ebbe una relazione con Werner Schroeter generò un clamoroso ossimoro stilistico. I film di Rosa sono svelti, brutti e cattivi, spesso contenutisticamente opinabili o volontariamente grossolani nella loro argomentazione. Non gli è mai interessato raffinarsi, da barricadero com’ era di un’idea di attivismo personale, fin troppo innamorato di New York (oggi si direbbe escapismo, esotismo, provincialismo puro) ma così tedesco da essere interessante di rimbalzo. La Germania ha in Rosa una figura monumentale che non tutti i Paesi hanno.
Grandioso, Rosa, lo è sempre stato nella cura della propria immagine, una sorta di Carmelo Bene del popolo, un Aldo Busi che vive sul palcoscenico del Costanzo Show. Leggendari i suoi cappelli, le sue mise da spettacolaccio del sabato sera, ma anche la nonchalance con la quale andava in giro per la Berlinale come un Holger qualsiasi (all’anagrafe è Holger), senza copricapi né colori sgargianti. Rosa c’era sempre. Rosa di Praunheim, quartiere francofortino, ha lasciato una traccia indelebile nel discorso pubblico tedesco, tematizzando la “condizione omosessuale” senza far sconti a nessuno, soprattutto a noi omosessuali, abbracciando le misure di prevenzione durante la crisi dell’AIDS in maniera ancora più radicale di chi, di prevenzione, si occupa davvero (e pestando, nel farlo, un paio di grosse merde bilanciate dalle migliori intenzioni), schiacciando il pedale sul fronte della visibilità con la sua famosa, sgarbatissima azione di outing di personaggi noti, e infine fungendo da mentore per i suoi Rosakinder – Chris Kraus, Axel Ranisch, Julia von Heinz, Robert Thalheim, Tom Tykwer. Talenti diversi che sono riusciti ad affermarsi grazie ai consigli pratici di Rosa, a partire dalla regola d’oro della messinscena: esporre, mettere in difficoltà, documentare lo scontro.
La ridda di film di finzione, documentari, ibridi, corti e cortissimi, casalinghi e a zero budget firmati Rosa è un getto d’acqua color arcobaleno con la potenza di un idrante. Ti stende, e non sai esattamente cosa ti ha steso. Mettersi lì a voler studiare tutto rischia di essere una strategia punitiva. Il suo merito risiede più che altro nell’approccio maturato in quasi sessant’anni di attività, ovvero la compilazione di un’enciclopedia vecchio stampo del’immaginario e del pantheon LGBTQ made in Germany. Scremando le molte cose girate allo specchio, come l’ultimo, inguardabile Satanische Sau, conviene leggere Rosa come un cronista che incontra un Mario Wirz sfinito ma mai sconfitto, punzecchia Ralf König, indaga il mondo della prostituzione maschile a Berlino Ovest o tenta di raccontare la biografia di Magnus Hirschfeld. Con uno sguardo, questo sì, rimasto intatto da decenni: molto occidentale (nel senso di Berlino), estremamente GLBT (con L e T minoritarie) e convinto che basti la sfacciataggine per far funzionare un film. Da avanguardia scomoda, col passare del tempo Rosa è diventato una statua equestre vivente. Forse inevitabile. E peccato che nessun*, almeno in Germania, sia riuscito a riempire i vuoti. Ma se si parla di cultura frocia, Rosa ha scritto la Treccani e se l’è cucita addosso. A noi il compito di sfogliare prendendo appunti.
Il cuore della mostra autocelebrativa allestita a Berlino Ovest sul finire del 2012, Rosen haben Dornen (le rose hanno le spine), era un fantoccio di Rosa steso in posizione da salma su fondo nero, con tre cappelli che gli fluttuano sopra a mo’ di angeli. La morte di Rosa, questo il titolo. Da ipocondriaco furente che era, tanto da fare un film sulla propria ipocondria, Rosa è riuscito a superare indenne due pandemie e a fare tutto quel che voleva, compreso un romanzo, compresi dei disegnini incorniciati ed esposti in gallerie bene. Proprio in una di queste ultime occasioni sono riuscito a parlargli, porgendogli una rosa – fornita agli avventori a questo scopo – mentre troneggiava mascheratissimo e immobile tra i suoi quadretti. Grazie per il prossimo film, gli dissi all’epoca del suo ottantesimo compleanno, sicuro che l’opera in questione esistesse già, girata e montata in quattro e quattr’otto, pochi giga salvati sul desktop.
Perché Rosa von Praunheim è importante ancora oggi? Perché lo è il messaggio che conclude il suo film più famoso: Raus aus den Toiletten! Rein in die Straßen! Freiheit für die Schwulen! Basta sostituire i cessi con internet e il gioco è fatto. Battere digitalmente non è peraltro la stessa cosa di battere in carne e ossa, in un cesso o in un parco, in un locale o per strada, con le antenne dritte e il corpo che tracima sfrontatezza. Il desiderio di libertà espresso dagli anni Settanta, con la sua grana grossa, ha ormai ceduto il passo a una normalizzazione dello stigma, o a una normalizzazione del far finta di niente. Siamo tutti avatar farlocchi, asessuati, invincibili. Oggi più che mai c’è bisogno di sana, concreta audacia senza tanti fronzoli. Rosa dovrebbe diventare il metodo vincente di un nuovo attivismo da contrapporre alle forze tiranniche, ipocrite, conservatrici o, peggio ancora, pavide e indifferenti. Da rosa, come il triangolo rosa, a grimaldello (come Dietrich, Marlene).
A pagina 11 di Sex und Karriere si conclude così il breve testo intitolato Nach dem Schwulenfilm, Dopo il film frocio – correva l’anno 1976: “Il film ha cinque anni, ma è più attuale e necessario che mai. In tutto questo tempo non è mai stato girato un film sui froci che avesse un carattere emancipatorio. Solo merda commerciale come Festa di compleanno per il caro amico Harold, autocommiserativa come Il diritto del più forte di Fassbinder, che a quanto pare è ambientato solo per caso nel mondo gay, migliaia di porno stupidotti o robaccia underground à la Warhol che concepisce i froci solo come delle strane creature. Il lavoro dei gruppi è andato scemando. In America le attività si sono via via spostate dalle grandi città alla campagna, il che è molto positivo. Da noi nascono vari gruppetti di breve durata, i vecchi scompaiono. Gli eroi sono stanchi ormai: la rivoluzione non diverte più nessuno (e non solo tra noi froci). Oggi non sarei più riuscito a realizzare questo film per la televisione, sarebbe stato vietato in quest’epoca conformista. A volte penso di fare un film commerciale: una storia d’amore tra due uomini che descriva il kitsch ma anche gli sforzi emancipatori. Per i quali bisogna attivarsi, altrimenti si perde il coraggio e la voglia di insistere. Perché il lavoro su sé stessi e gli altri è faticoso, e io stesso ultimamente me la sono presa comoda, ritirandomi nel mio illusorio mondo artistico. Già, io stesso soffro per la medesima situazione inumana, il sesso anonimo, la difficoltà nel trovare il partner giusto con cui scopare ma anche parlare, una persona che io possa accettare sul piano umano e intellettuale e viceversa. Un sogno?”
Dall’indice di Storie sudate – il lavoro al tempo della crisi, Marco Del Bucchia, Massarosa 2012.
Nel primo pomeriggio di domenica 16 aprile è morto uno dei miei migliori amici, Stefano. Ci penso ogni giorno. Ogni giorno ho l’istinto di scrivergli. Ogni giorno mi domando: cosa ne pensa Stefano? Qual è la sua posizione? Niente condizionale. Tutto quello che so di politica lo so grazie a Stefano. E non sono l’unico a poterlo dire. Insieme a lui ho vissuto gli anni più intensi e sensati nell’alveo dell’attivismo LGBT+. Al suo fianco, spesso inevitabilmente con gli occhi piantati su di lui, le sue movenze, le orecchie apertissime per captare le strategie oratorie, i concetti grimaldelli, le parole giuste al posto giusto. Le trappole, anche. Stefano è morto, giovane, con quarant’anni di attivismo vibrante alle spalle, sinistra vera ma non ideologica, adattiva per cambiare le cose. Per provarci. Per rischiare, sempre, e vedere l’effetto che fa. Stefano, che lavora nel sociale, è un educatore nel senso più alto del termine. Il suo stile è leggendario. Ho recuperato un suo racconto apparso su una piccola antologia brossurata alla meno peggio. Lo appoggio qui, con minime variazioni redazionali (virgole et al.), nella forma di un omaggio a una persona indimenticabile. Il minimo che possa fare. Non detengo i diritti di Disputatio. Spero che, leggendo queste parole ribattute a macchina, venga voglia di recuperare il libricino originale curato da Andrea Genovali.
Parla Stefano.
Disputatio
di Stefano Pieralli
“Il suo curriculum è interessante, al pari di alcuni altri, abbiamo selezionato tre persone tra cui lei e le proponiamo di svolgere una settimana di prova non retribuita in affiancamento. Al termine della prova comunicheremo la nostra scelta”. La responsabile del servizio aveva pronunciato questa frase al termine del primo colloquio di valutazione, con tono rassicurante, ed era netta la percezione che avesse già deciso. Da tre anni, quattro mesi e cinque giorni Federico era rientrato in Italia dopo un periodo trascorso a Londra. Era partito nella speranza di trovare in Gran Bretagna un luogo di civiltà in cui poter trovare sé stesso, era tornato con qualche malattia venerea e senza un soldo in tasca. Negli anni passati a Londra aveva provato sulla sua pelle la madre di ogni discriminazione: la povertà. Aveva quindi deciso di tornare in Italia, dove la famiglia poteva garantirgli quel minimo di rete sociale utile a non sprofondare nel baratro dell’indigenza. Dopo alcuni anni trascorsi a somministrare hamburger e a raccogliere i bicchieri nei pub gay londinesi, Federico aveva rispolverato i suoi titoli di studio e preparato con arte e amore un curriculum formato europeo, inviandolo ovunque e a chiunque operasse nel sociale. Erano circa tre anni che si arrabattava tra contratti a termine, contratti a progetto, affitti di camere in appartamenti di studenti diffusissimi nel mercato immobiliare bolognese, abbandonati per tornare in famiglia ad ogni default finanziario, quando giunse la telefonata del centro di accoglienza per le dipendenze patologiche. Federico non si rammentava di aver inviato loro il curriculum, ma poco importava. “Sono d’accordo e accetto. In questo periodo non sono occupato: sono disponibile a un periodo di prova”. Federico chiuse così il colloquio e uscì dalla stanza incrociando uno dei suoi rivali. Avrà avuto venticinque anni: sicuramente inesperto, sentiva di non doverlo temere.
“Sono lieta di comunicarle che al termine delle prove di tutti i candidati, dopo esserci confrontati con l’operatore che vi ha affiancato, abbiamo deciso di proporre a lei il posto vacante nell’équipe del nostro centro. Il contratto prevede sei mesi di prova al termine dei quali, se tutto andrà bene, avvieremo un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Domani è atteso nella nostra sede centrale per un colloquio con il presidente, e là firmerà il contratto”. Tempo indeterminato, che bella parola, che suono sublime. Erano tre anni che Federico aspettava di sentirla pronunciare. Era quasi commosso. Ora il suo viaggio verso la civiltà, verso un luogo in cui poter essere sé stesso, poteva ricominciare. Sarebbe stato un lungo viaggio, ma questa volta dentro di sé. La mattina seguente si alzò di buon’ora, un po’ ansioso ed eccitato ma sicuro di sé, e si avviò all’incontro con il presidente. A breve, il suo presidente. La sede centrale era un luogo maestoso e ben tenuto, molto diverso dai tuguri a cui Federico si era abituato dalle precedenti esperienze lavorative nel sociale; era chiaro che non si trovasse nella sede di una tipica cooperativa sociale emiliana.
Guardandosi attorno iniziò a scorgere numerosi simboli religiosi, e mano a mano che si avvicinava all’ufficio del presidente i simboli aumentavano in modo esponenziale. Iniziò a inghiottire nervosamente. Dopo pochi minuti di attesa si aprì la porta dell’ufficio e fu invitato ad accomodarsi. Alle pareti numerose figure sacre, nella stanza alcuni mobili antichi di indubbio valore. In fondo alla stanzona, dietro una scrivania anch’essa antica, un signore sulla sessantina vestito in modo sportivo con la barba bianchissima: l’archetipo estetico del missionario progressista. Federico inghiottiva sempre più nervosamente. Era dalla prima comunione che non frequentava ambienti religiosi, ne percepiva l’ostilità, il giudizio morale. “Mi racconti un po’ di lei” gli chiese con tono gentile il presidente. Federico, che non aveva più saliva da inghiottire, si rese conto in un istante che doveva creare, inventare, raccontare un altro sé, altrimenti la suadente parola “tempo indeterminato” non sarebbe mai più stata pronunciata. Federico scelse di riadattare la realtà, cambiò il genere sessuale alle sue relazioni, non si dichiarò pagano ma solo agnostico e disse non aver mai trovato la donna giusta con cui avere figli. Gli sembrò un compromesso accettabile per un lavoro a tempo indeterminato. In fondo, Federico un figlio lo avrebbe voluto davvero, ma in quel contesto dichiararsi a favore dell’adozione per le coppie dello stesso sesso sarebbe stato sconveniente. No, meglio tacere. Il presidente ascoltò in silenzio il racconto di Federico, con attenzione. Al termine del racconto chiese a Federico se desiderasse un caffè. Dopo alcuni minuti di imbarazzante silenzio entrarono due ragazzi in camice bianco, con cappello da cucina, in parte nascosti da straripanti vassoi. Il presidente versò il caffè e porse a Federico alcuni pasticcini e brioche salate. Poi disse: “Lei pare molto tranquillo, questo è considerato generalmente un pregio, ma si ricordi che in questo lavoro la prima cosa è non farsi mettere i piedi in testa. Avrà a che fare con ragazzi di strada. La responsabile del centro l’ha selezionata e io mi fido delle scelte dei miei collaboratori”. Non fu proferita più alcuna parola se non di cortesia. Federico consegnò la documentazione che gli era stata richiesta, firmò il contratto e fuggì da quel luogo.
“L’8 dicembre Maria, il 24 Franco, il 25 Elena, il 26 Carina, il 31 Federico…” durante la settimanale riunione di équipe la responsabile del centro stava elencando i turni di lavoro durante le feste. La comunicazione dei turni di dicembre era un momento molto atteso dall’équipe, non solo per organizzare il proprio tempo libero durante le festività più importanti dell’anno, ma anche per determinare il gradimento che riscuoteva il o la lavoratrice. Più la festività era importante, più il lavoratore o la lavoratrice chiamata a coprire il turno era in “disgrazia”. Era il secondo 31 dicembre consecutivo per Federico, un segnale inequivocabile. Nelle strutture residenziali per persone con dipendenze patologiche, la presenza degli educatori è prevista ventiquattr’ore su ventiquattro e trecentosessantacinque giorni all’anno. Un lavoro pesante, impegnativo, con innumerevoli responsabilità. Un lavoro sottopagato in cui il tempo libero assume un valore enorme ed è una forma di retribuzione aggiuntiva. La definizione dei turni era uno strumento di valorizzazione o di oppressione nei confronti del personale. Uno strumento molto amato dalla dirigenza, attraverso il quale poteva trasformare, in pochi mesi, un contratto a tempo indeterminato in un contratto a termine. Il centro per le dipendenze patologiche non licenziava mai, erano sempre i lavoratori o le lavoratrici a rassegnare, stremate, le proprie dimissioni. Il primo anno, il turno del 31 dicembre era scontato: Federico era l’ultimo arrivato nell’équipe e quell’assegnazione nei turni gli parve lo scotto da pagare per il suo noviziato. Il secondo anno, l’assegnazione del turno il 31 dicembre lasciò Federico basito. I rapporti con il resto dei componenti dell’équipe non erano esaltanti ma in ogni situazione corretti, almeno da parte sua. Con la responsabile i rapporti gli parevano buoni; anzi, a lui la responsabile del centro piaceva molto. Non capiva. Federico uscì dalla riunione dell’équipe perplesso, preoccupato, con la copia dei turni in mano chiedendosi cosa fosse accaduto, cosa stesse accadendo, perché fosse caduto in disgrazia. Le colleghe non lo avevano mai particolarmente amato, non aveva lasciato spazio a relazioni amicali e aveva sempre tenuto tutte a debita distanza. Ma poteva la sua reticenza relazionale essere causa della sua disgrazia? In fondo, da educatrici professionali Federico immaginava letture articolate delle relazioni impersonali: era sempre più perplesso.
“Ne avete ancora per molto?” Federico aveva somministrato l’ultima terapia (quella delle 20:30) e attendeva che gli ospiti di turno finissero di riordinare la cucina prima di consegnare il film per la programmazione serale. Dopo alcuni mesi di discussioni accese era riuscito a convincere i ragazzi ospiti della struttura a visionare film di qualità durante i suoi turni serali, e si preoccupava lui stesso di proporli e recuperarli. Era assolutamente convinto che il depauperamento culturale fosse per molti di loro la causa principale della dipendenza patologica. L’assenza di strumenti culturali impediva a molti di dare letture complesse agli avvenimenti della loro vita, impediva di capire, sentire, digerire le proprie emozioni. Riuscì quindi a sostituire la visione dei soliti film d’azione con quella di importanti e originali film d’autore. Per portare i ragazzi dalla sua parte, alla prima proiezione aveva proposto loro Belli e dannati di Gus van Sant. Un film bellissimo, una libera interpretazione dell’Enrico IV di Shakespeare. Un grande successo non mitigato dalle proposte successive. Se debitamente stimolati, i ragazzi rispondevano alla grande. Quella sera, invece, il film scelto era Frida, un’opera molto recente di Julie Taymor incentrata sulla sofferta vita privata della pittrice messicana Frida Kahlo, interpretata da Salma Hayek. Federico adorava quel film che aveva visto decine di volte, e ogni volta era un viaggio nell’abisso, nel suo abisso. Sarebbe stato bellissimo se i ragazzi si fossero fatti trasportare dalla storia, dalla musica, dai colori di Frida. “Operatore abbiamo finito” un urlo dalla cucina avvisò Federico che il turno del riordino era terminato. Si avviò in cucina col il dvd di Frida in mano, un controllo veloce sulle pulizie svolte poi corse in sala tv. Era ansioso di captare le reazioni dei ragazzi, si aspettava molto da loro, o meglio da alcuni di loro.
Federico si svegliò, bussavano alla porta dell’ufficio dove vi era un divano letto per l’operatore in turno di notte, si vestì velocemente e aprì. Sulla porta Raffaele, un ragazzo napoletano di ventiquattro anni, il più giovane tra gli ospiti del centro. “Che c’è Raffaele, non stai bene?”. Mentre poneva la domanda si rese conto che il ragazzo era praticamente nudo, solo in slip. “Posso entrare” chiese il ragazzo, “non mi sento bene, non riesco a dormire, ho bisogno di parlare”. Il ragazzo si rivolse a Federico con tono gentile, per nulla sofferente. Alle 3 di notte non è semplice essere empatici. “Stai così male da non riuscire a indossare un pigiama?” Federico usò un tono di rimprovero: voleva ripristinare da subito una certa distanza professionale. Quasi istintivamente sentiva il bisogno di schermarsi dietro il proprio ruolo. “Sali in camera e mettiti qualcosa addosso”. Era turbato da quel corpo seminudo. Raffaele era un bellissimo ragazzo: alto, snello, tonico, con lineamenti dolcissimi. “Io intanto preparo un caffè”. Prese le chiavi della cucina e il caffè gelosamente custodito in un mobile dell’ufficio/camera. Nei centri per le dipendenze patologiche, il caffè e le sigarette erano considerati beni voluttuari, somministrati con parsimonia sull’onda di teorie educative alquanto repressive. Raffaele scese dopo pochi minuti. Il caffè era sul fuoco. Indossava una canottiera e una tuta aderente che fasciava cosce e glutei maestosi. Federico versò i caffè, li mise su un vassoio con lo zucchero insieme a qualche biscotto e una bottiglietta d’acqua e andarono in ufficio. Lo fece per sé, sentiva il bisogno di trattarsi bene, di volersi bene. Dopo il caffè non poteva mancare una sigaretta che offrì anche a Raffaele, rompendo così ogni schema prestabilito nei rapporti operatore-ospite. Lo fece senza pensarci troppo, era notte ed era stanco. Si meritava un buon caffè e una sigaretta e probabilmente se la meritava anche Raffaele, se non altro per lo sforzo di essere lì a ventiquattro anni nel tentativo di far riparare la propria vita. Raffaele pareva rilassato e felice dell’accoglienza ricevuta: “Scusi operatore se mi permetto: ma lei è ricchione?” Federico sobbalzò sul divano, il biscotto che stava masticando divenne improvvisamente un mattone piantatosi in gola. “I ragazzi della sede del reinserimento raccontano di vederla spesso in giro per Bologna e che lei è ricchione”. Federico si attaccò alla bottiglietta: pareva volersi annegare. Non gli piaceva negare il suo orientamento sessuale, tutt’al più non affrontava l’argomento, ma dinanzi a una domanda diretta come comportarsi? Dall’età di diciassette anni aveva giurato che non avrebbe mai mancato di rispettare sé stesso negando la sua natura, la sua vita. “Raffaele, mi hai svegliato alle 3 di notte per avere informazioni sulla mia vita privata?” Disse Federico con tono seccato.
“No, ma ho bisogno che mi risponda” disse Raffaele guardando nel vuoto.
F: “Sono solito mantenere un certo distacco tra vita personale e vita lavorativa”.
R: “Io sono solito non avere una vita”.
F: “Pensi che avere dettagli sulla mia vita possa aiutarti in qualche modo?”
R: “Al reinserimento ormai parlano solo di lei, possibile che non lo sappia?”
F: “Non so nulla e non mi interessano i pettegolezzi tra voi”.
R: “Non sono pettegolezzi: dicono di averla vista baciare un ragazzo”.
F: “E anche se fosse? Non capisco il tuo interessamento, o vuoi avere più elementi da riportare ai tuoi compagni? Domani c’è una partita di calcio tra centri: vuoi fare colpo coi tuoi amici?”
R: “È ingiusto: io ho anche litigato per difenderla”.
F: “Ma non c’è nulla da difendere”.
R: “La deridono, la sfottono… non le importa?”
F: “Guarda, Raffaele… mi spiace se hai litigato per me e ti ringrazio, ma non dovevi farlo: tu devi pensare a te, al tuo percorso”.
Raffaele fissava il vuoto, in silenzio, sembrava assente. Passarono alcuni minuti prima che riprendesse a parlare.
R: “Non ne ho mai parlato con nessuno e le chiedo di non parlarne con nessuno. So che voi avete il segreto professionale, siete come i preti non è vero?”
F: “Non proprio come i preti”.
R: “Mi deve assicurare che non dirà nulla a nessuno”.
F: “Nemmeno all’équipe?”
R: “Soprattutto all’équipe”.
Federico, che ormai aveva intuito di che stesse parlando, rassicurò il ragazzo sul suo silenzio.
R: “Prima di entrare qui mi vedevo con un ragazzo di trentacinque anni del mio quartiere, è sposato ma gli piacciono i giochi particolari. Sta nella camorra del quartiere: io ci andavo, almeno credevo, perché mi dava la roba, non mi dovevo sbattere e mi faceva vivere bene. Mi faceva sentire bene. Da quando sono qui penso solo a lui e mi manca. Mi faceva sentire bene, mi manca, con lui stavo bene”. Raffaele parlò per più di due ore, Federico ascoltava, attento, rapito da quella storia ancora più intensa delle pagine scritte da Gide che era solito divorare con ingordigia ogni sera prima di coricarsi. Alle 6 del mattino lo mandò in camera, non voleva che qualche ragazzo si accorgesse che aveva passato la notte nell’ufficio/camera, viste le voci che giravano sul suo conto. Chissà quali dicerie ne sarebbero derivate: meglio essere prudenti. La collega per il passaggio del turno arrivò come previsto alle 9. Federico era provato dalla notte in bianco e decise, come aveva assicurato a Raffaele, di non dire nulla. Salì in macchina velocemente, sentiva la necessità di correre a casa dalle sue tranquillizzanti abitudini, tra le sue cristallizzate sicurezze, e si chiedeva come avrebbe potuto aiutare quel ragazzo. Cosa avrebbe potuto fare, cosa sarebbe stato giusto fare. La riunione di équipe si teneva ogni settimana il mercoledì con ordine del giorno variabile a seconda delle necessità della struttura. Quel mercoledì all’ordine del giorno c’erano i piani terapeutici di alcuni ospiti, tra cui Raffaele. Federico ascoltò attentamente la relazione sul piano terapeutico di Raffaele esposta dall’educatrice titolare del progetto, Maria. In quella relazione non vi era nulla del Raffaele che aveva conosciuto. La collega stava svolgendo il compitino senza passione, credibilità, utilità terapeutica. Non conosceva nulla di Raffaele. Federico non poteva intervenire, aveva promesso di non parlare, ma anche nel caso sarebbe servito a qualcosa? Maria, come le altre colleghe, non avrebbe mai potuto prendere in considerazione che per un ospite del centro il ritorno alla vita potesse voler dire affrontare il tema del suo orientamento sessuale. Erano quasi tutte sposate o fidanzate con cosiddetti ex, e chi ancora non lo era ci stava lavorando. Per le educatrici dei centri per le dipendenze patologiche i ragazzi ospiti sono spesso una sfida da vincere, e il trofeo è l’altare. L’erotismo femminile nel sociale di matrice cattolica è un universo che spaventa. Federico sapeva che attraverso l’équipe non poteva incidere sul percorso terapeutico di Raffaele, ma non intendeva lasciarlo solo e così aprì con lui, senza verbalizzarlo, un proprio percorso terapeutico, perché gli aveva chiesto aiuto. Decise che sarebbe diventato il suo educatore ombra: a ogni turno festivo o serale, quando era l’unico educatore in turno, si ritagliava uno spazio da dedicare a Raffaele. Lunghi colloqui in cui sostenerlo, motivarlo a conoscersi, ad apprezzarsi, a sentire i propri sentimenti e a non reprimere le proprie pulsioni, ma riconoscerle per viverle dignitosamente. Per molti mesi andò alla struttura con grande motivazione: sentiva di compiere un importantissimo lavoro. Raffaele era un ragazzo in gamba e forse grazie anche al suo aiuto avrebbe potuto vivere la sua vita serenamente, liberamente. I lunghi colloqui tra Federico e Raffaele infastidivano e ingelosivano gli altri ragazzi e in breve tempo, all’insaputa degli interessati, fiorirono nel centro le più fantasiose ipotesi sul loro presunto rapporto. “L’educatore e il giovane ospite” avrebbe potuto essere il titolo del libro contenente i racconti che circolavano sul loro conto. Nel frattempo Raffaele stava sempre meglio, il suo percorso progrediva assieme alla sua consapevolezza, lucidità e volontà di cambiare vita, e doveva molto a Federico. Lo sapeva e gli era grato. Glielo disse quando si salutarono il giorno in cui si trasferì all’agognata sede del reinserimento, la fase conclusiva del programma terapeutico. Un lungo abbraccio, virile stretta di mano, ma nessun bacio. Dio, incarnatosi nell’équipe, li osservava.
Giunto a casa, Federico lesse e rilesse il foglio turni di dicembre. Il secondo Capodanno in turno era un’ingiustizia, decise quindi di chiedere un incontro con la responsabile e le telefonò per un appuntamento. La settimana successiva, al termine della riunione di équipe, l’incontro ebbe luogo. La responsabile era visibilmente infastidita da quella situazione che non aveva potuto evitare, e dinanzi alle rimostranze di Federico non provò neppure ad abbozzare giustificazioni. Andò al nocciolo della questione. “Era mia intenzione parlarti passate le feste, ma vista la tua insistenza sono costretta a darti oggi il quadro della situazione. Io, l’équipe tutta e i dirigenti del centro siamo sconcertati dal tuo lavoro, non riteniamo tu sia in grado di svolgere il ruolo di educatore, ma considerato che hai un contratto a tempo indeterminato e che, in ogni caso, abbiamo bisogno di qualcuno che svolga un ruolo operativo ti informo che, dall’anno nuovo, non avrai più alcun ragazzo riferito di cui curare il progetto terapeutico. Ti occuperai esclusivamente dei trasporti e della manutenzione della struttura”. Federico restò senza parole davanti a tanta durezza. Era un fulmine a ciel sereno, non aveva mai avuto alcun sentore di una situazione così compromessa. A lui sembrava di lavorare bene, con Raffaele poi era sicuro di aver svolto un ottimo lavoro, certo nessuno lo sapeva, ma era la prova provata che lui era in grado di svolgere il ruolo di educatore. D’istinto reagì in termini sindacali.
F: “Quindi mi abbassate il livello? Non credo possiate farlo”.
R: “Nessun abbassamento di livello, noi ci muoviamo nel rispetto della legge”.
Federico voleva capire. Quasi pentito della sua prima domanda, aggiustò il tiro.
F: “Credo di avere il diritto di sapere perché, dopo quasi due anni di lavoro, non sarei più adatto a svolgere il ruolo dell’educatore”.
La responsabile era sempre più insofferente, visibilmente scocciata.
R: “Senti Federico, tu sai benissimo il perché, pensavi che il tuo rapporto privilegiato con Raffaele sarebbe passato inosservato? Hai danneggiato, spero non irreparabilmente, il percorso di un ragazzo”.
Federico iniziò a innervosirsi. “Rovinato il percorso di un ragazzo? Ma Raffaele è al reinserimento e so che ha trovato lavoro. Non è mai ricaduto nell’abuso di sostanze, e sta bene”.
R: “Hai messo strane idee nella testa di quel ragazzo, sino a costringerci a farlo seguire da uno psicoterapeuta”.
F: “Sai meglio di me che Raffaele sta benissimo e mi auguro non gli abbiate assegnato un riparazionista teorico dell’omosessualità quale malattia! Me lo auguro per il bene del ragazzo!”
R: “Non sei più un ragazzino, pensavo che alla tua età sapessi come funziona il mondo. Ma dove credi di essere venuto a lavorare, qui per le tue teorie non c’è spazio e se i servizi di Raffaele lo hanno mandato da noi è perché hanno fiducia nelle nostre, di teorie”.
F: “E che Raffaele ora sta bene non importa a nessuno?”
Alla domanda di Federico non vi fu risposta, e l’incontro s’interruppe in un’atmosfera di ostilità reciproca. Dopo alcuni mesi di turni massacranti, nessun riconoscimento per qualsiasi compito svolto, Federico non cedeva. Nessun altro educatore caduto in disgrazia prima di lui aveva resistito sino a quel punto. La responsabile alzò il tiro, lo escluse dalle riunioni di équipe e lo delegittimò agli occhi degli ospiti, i quali, oramai, si sentivano autorizzati a ogni atteggiamento provocatorio nei suoi confronti. Fiaccato, ferito e isolato, a Federico rimanevano due opzioni: andarsene o rivolgersi ai sindacati. Decise di chiamare l’ufficio della Cgil. Gli diedero un appuntamento al quale si presentò puntuale e agguerrito. Iniziò a raccontare gli avvenimenti: man mano che il racconto procedeva il viso del sindacalista, molto espressivo, s’incupì, e alla fine non fece domande. Uscì dall’ufficio e tornò dopo una decina di minuti sconsigliando di fare causa per mobbing. A parere del sindacalista la relazione intercorsa tra Federico e il ragazzo ospite era troppo ambigua e non sarebbe stato utile fare entrare in una causa di lavoro la figura di un utente del servizio. Era evidente che il sindacalista non fosse a proprio agio col termine omosessualità. Il ruolo non gli permetteva di esternare il suo pensiero ma, probabilmente, quello era uno dei rari casi in cui si era trovato più in sintonia col datore di lavoro che col lavoratore.
Privo anche di un sostegno sindacale, rimuginando sull’ignoranza quale elemento trasversale alle classi sociali, Federico si recò a casa e, sconfitto, scrisse la lettera di dimissioni. Non avrebbe mai voluto darla vinta alla sua responsabile, ma doveva arrendersi all’evidenza. Il giorno successivo inviò alla sede centrale la lettera di dimissioni per raccomandata con ricevuta di ritorno e telefonò alla responsabile del centro, che le accolse con malcelato buonumore. Il contratto prevedeva sessanta giorni lavorativi di preavviso: con una certa crudeltà, tolti i giorni di ferie maturati, la responsabile li pretese tutti. Furono quaranta giorni molto tristi e malinconici per Federico che ogni tanto pensava a Raffaele e sperava di cuore che, almeno a lui, le cose stessero andando bene. Non aveva più chiesto notizie, era terrorizzato dal rischio di metterlo in difficoltà e sperava che tutta la cattiveria e l’ignoranza del centro lo risparmiassero e non infierissero su una vita che bisognava aiutare a rinascere. Doveva stargli lontano. Aveva sempre letto molto ma, in quei lunghissimi quaranta giorni, non si staccò mai dai suoi testi preferiti. Leggeva e rileggeva spesso le stesse pagine, le stesse prose, le stesse poesie. Una poesia su tutte lo ristorava, lo aiutava a riflettere, a trovare le energie per ripartire: Mura di Kavafis.
Senza riguardo senza pudore né pietà, / m’hanno fabbricato intorno erte, solide mura. / E ora mi dispero, inerte, qua. / Altro non penso: tutto mi rode questa dura sorte. / Avevo da fare tante cose là fuori. / Ma quando fabbricavano fui così assente! / Non ho sentito mai né voci né rumori. / M’hanno escluso dal mondo inavvertitamente.*
Federico leggeva e rileggeva quella poesia scritta nel lontanissimo 1887. La sentiva sua, lui era quella poesia. Il 6 giugno Federico concluse il periodo di preavviso, raccolse dall’ufficio le sue cose, scambiò qualche chiacchiera con i ragazzi avvicinatisi per salutarlo e si avviò all’automobile. Incrociò un ragazzo sulle scale, probabilmente il suo sostituto. Si guardò attorno. In quel luogo aveva passato gran parte degli ultimi due anni ed era consapevole che ci sarebbe voluto tempo per elaborare quella breve ma intensa fase della sua vita. Salì in auto, imboccò il viale dell’uscita e iniziò a pensare su come trascorrere quell’estate improvvisamente libera da impegni. Gli avevano parlato di Berlino quale nuova capitale d’Europa. Il viaggio alla ricerca di un luogo di civiltà in cui poter essere sé stesso alla soglia dei quarant’anni doveva riprendere.
Leggendo How to Survive a Plague di David France (Picador, 2016) mi sono imbattuto in un documento risalente ai primi anni dell’Aids. Si tratta di How to Have Sex in an Epidemic, libercolo di quaranta pagine spillate a cura degli attivisti Michael Callen e Richard Berkowitz, col contributo scientifico del dottor Joseph Sonnabend. Al link soprastante potete scaricarlo in pdf e leggerlo con gli occhiali di oggi. Spoiler necessario per concentrarsi su tutt’altro: è il primo pamphlet che consiglia l’uso del preservativo per arginare l’epidemia.
A France devo la visione di un documentario candidato agli Oscar quasi dieci anni fa, tra i migliori a raccontare lo scoppio dell’epidemia in America e la reazione politica dei pazienti, che sotto l’egida di Act Up riuscirono a fare egemonia culturale e a ottenere risultati concreti. Ogni volta che lo vedo zigo come un cinno. E nel 2015 ho avuto il privilegio di vederlo a Berlino in un’aula universitaria della HU, in presenza di Peter Staley. A fine proiezione mi alzai, mostrai la mia maglietta da attivista, gli diedi dell’eroe, gli attaccai bottone a fine evento e trascorsi la serata con lui e alcuni amici a zonzo in piena primavera. Staley appartiene a quella generazione di attivisti e PLWHA che ha visto la morte in faccia, ha saputo reagire ben convogliando la rabbia e la paura e che, dopo il 1996, con l’introduzione della terapia efficace, ha resistito anche alla cosiddetta sindrome del resuscitato. Non solo. Senza Staley, il discorso sulla PrEP in America non sarebbe maturato in tempi così rapidi. E ancora oggi è sulle barricate, magari su instagram con un bicchiere di vino mentre conversa di covid insieme a Fauci, o tramite le colonne di un giornale da cui lancia il progetto vaccinale Pepvar. Un vissuto americanissimo il suo, d’oltreoceano anche in senso metaforico per sofferenza accumulata, stress psicofisico e previdenza di lusso.
E tutto americano è anche il tomo di France, uscito a quattro anni dal documentario e con lo stesso titolo. Ma con respiro storico e scientifico – pur in un’ottica divulgativa – molto più ampio. Sono seicento e passa pagine in carattere mignon, novanta delle quali di note. Dentro c’è tanta narrazione, come si suol dire, ritorna l’agiografia di Staley dai toni feuilletoneschi, ma soprattutto emergono sfumature, e sbavature, inevitabilmente restate sul pavimento della sala di montaggio del film. L’autore ha vissuto quegli anni da giornalista e da giovane gay in una New York devastata dall’insorgere dei casi di sarcoma di Kaposi e rare polmoniti. E come giornalista con grande attenzione alle fonti, e mirabile tenacia nel ricostruire gli eventi incrociandoli col proprio diario, France offre ritratti cubisti delle persone che hanno fatto la storia dell’Aids in America. Larry Kramer, carismatico, strillante e umorale, Staley broker “nell’armadio”, la gelida ambizione del dottor Fauci e le sue iniziali cantonate in tema di prevenzione, le piccinerie del dottor Gallo in lizza sia con Montagnier, sia con l’onestà intellettuale. Per chi non ha vissuto quegli anni sulla propria pelle è importante sapere che il test hiv, introdotto nel 1985, era tutt’altro che preciso (colpa di Gallo, che resta tuttavia un genio della ricerca), veniva evitato come la peste e che per orgoglio nazionale le autorità statunitensi fecero di tutto per ritardare l’approvazione di quello sviluppato dall’istituto Pasteur. Ce n’è per tutti, anche per gli eroi di questa nerissima fiaba proppiana. Basti dire che Act Up, con le migliori intenzioni, si spese per accelerare l’approvazione di farmaci come l’Azt, nocivi nei dosaggi previsti all’epoca. Oltre che insufficienti da soli. Ma questo lo si sarebbe capito, coi tempi della scienza, solo anni dopo, con la scoperta di una nuova classe di antiretrovirali e il lancio della teoria di combinazione che tuttora salva vite e restringe sempre più lo spread tra sieropositività e sieronegatività.
Con gli occhi di oggi è sempre dietro l’angolo la tentazione di confrontare le due pandemie in cerca di analogie e lezioni utili. In termini scientifici non mancano i punti di contatto, ma sul piano sociale e attivistico sono due pianeti di galassie diverse. Fino al 1982 quella che oggi è nota come Aids andava sotto il nome di Grid (Gay-Related Immune Deficiency) e in quanto tale si è fatto di tutto per spazzarla sotto il tappeto. A peggiorare la cosa era la misteriosità della nuova sindrome, tant’è per anni circolarono ipotesi diverse sulla sua origine. Prima di isolarne il virus e di studiarlo, una teoria sosteneva persino che lo stato immunodepresso derivasse da un’eccessiva esposizione allo sperma. In altre parole: che l’orgione degli anni Settanta avesse davvero generato una sorta di contrappasso bigotto. E in questo preciso contesto diventa interessante leggere How to Have Sex in an Epidemic. Partendo dalla fine.
La festa che sono stati gli anni Settanta è finita. Queste due pagine sull’amore arrivano in coda, addirittura interpolate all’ultimo momento. Il libello si apre con due citazioni in esergo (Susan Sontag, Hal David), prosegue con una prefazione disarmata del dottor Sonnabend e si lancia in un lungo elenco di attività sessuali proponendo metodi di riduzione del rischio. Ingenuamente, si raccomanda un “medically safe sex” oggi relativizzato dall’aggiunta della “r”. A pagina 15 compare per la prima volta la parola “rubber”, goldone, destinata a ripetersi a iosa – e a riscuotere un immediato successo, trattandosi di un sistema di prevenzione a basso costo. Al quale nessuno aveva pensato prima. Per frenare cosa, non si sapeva esattamente. Tant’è che il libricino di Callen e Berkowitz prende ossessivamente di mira il citomegalovirus, riscontrato in moltissimi casi.
Stampato a spese degli autori (e grazie a una colletta tra i pazienti di Sonnabend), il testo era stato concepito senza quest’ultimo capitoletto incentrato sulle emozioni. Le prime righe dei “pensieri conclusivi” ricordano il mottetto abrasivo che chiude Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971, occhio a 9’30”) di Rosa von Praunheim, quel “fuori dai cessi pubblici, tutti in strada!” che dieci anni prima aveva suonato il gong per il movimento LGBT tedesco occidentale. E al di là di alcune forse inevitabili cantonate giudicanti, il tentativo di introdurre (o riscoprire) l’etica nel sesso tra maschi è l’unico elemento concettuale che rende il libretto leggibile ancora oggi. Non come un monito, bensì come un appello accorato all’I Care, alla filosofia della cura. Verso sé stessi e gli altri. “Maybe affection is our best protection”.
Voltando pagina, si arriva all’ultimo capoverso che riporto di seguito. Quale che sia l’epidemia o la pandemia, la risposta sociale sull’onda di decisioni informate e di una limpida assunzione di responsabilità rimane la via maestra per uscirne insieme.
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