viva la Vistola

Stanisław Tym e Leszek Kowalewski in Rejs (1970) di Marek Piwowski

Caldo bestia? Poca voglia di pensare alla graduale scomparsa di mestieri come la traduzione editoriale? Ebbene, ecco l’antidoto a malinconie e policrisi: la commedia polacca più riuscita di tutti i tempi. Si chiama Rejs, è stata girata nel 1969 e a rivederla oggi è ancora più fresca e moderna di quando uscì (a malapena). Il link al portale gratuito 35mm restituisce una copia impeccabile con sottotitoli inglesi e polacchi.

La storia di Rejs (pron. réis), che in polacco significa crociera, è quella di una svolta epocale nel cinema della repubblica popolare, realizzata con mezzi minimi e nella forma di un film di appena sessantasei minuti. Il regista Marek Piwowski scrisse insieme a Janusz Głowacki una prima sceneggiatura che aveva l’obiettivo di tranquillizzare le autorità. Le riprese si svolsero sulla Vistola, partendo da Toruń, e assunsero immediatamente un carattere di improvvisazione. Nel film appaiono una ventina di personaggi, tra la ciurma, i villeggianti e due clandestini, e a interpretarli è un cocktail micidiale di attori professionisti e non, trainati dal genio di Stanisław Tym. Reduce da uno spettacolo teatrale a Varsavia intitolato Kochany panie Ionesco (Carissimo signor Ionesco), Tym aveva già avuto qualche particina con Skolimowski, e incarnava una cultura riottosa e nonsense poco integrabile nel tessuto del socialismo. Al tempo, il segretario del partito era ancora il controverso Władysław Gomułka. Tym, Głowacki e Piwowski ebbero l’intuizione di parodiare, per la prima volta sul grande schermo, i birignao linguistici e culturali del socialismo col pugno di ferro.

La trama è esile e facilmente rintracciabile on line. Girato in stile semidocumentaristico, con una frontalità e un accatastamento degli episodi in pieno stile sit-com, Rejs può dare l’impressione di un film esangue, poco estroso, sicuramente estraneo alle zampate di un Wajda o al rigore intellettualistico di un Zanussi. L’unità di luogo, sul piroscafo Neptun, ricorda vagamente l’esordio di Polański nel 1961 con Nóż w wodzie, ma il paragone non regge sul piano dei movimenti di macchina e del trappolone psicologico. Piwowski è sicuramente un nome di secondo piano della cinematografia polacca, ricordato solo per Rejs e forse ostacolato nella carriera successiva dalla fama sovversiva di questa bomba a mano piazzata all’inizio degli anni Settanta. Persino Kieślowski, prima di conquistare il pubblico internazionale, è sempre stato molto attento ai filtri censori, e lo si vede persino in un capolavoro come Amator (1978), che si presenta più come un film sull’ossessione per il cinema che come un’opera apertamente critica del regime. E dire che già tra il 1970 e il 1978 si era creato un abisso sociopolitico, per via di un fattore in crescita esponenziale chiamato Solidarność. Il cosiddetto kino moralneo niepokoju (cinema dell’inquietudine morale) ben rappresentato dai drammi realistici di Wajda, Zanussi e Kieślowski, poteva contare su cambiamenti tangibili oltre che sulla presenza nei grandi festival. Rejs, commedia scombiccherata, funse da grimaldello e restò esempio isolato per alcuni anni, senza peraltro godere del sostegno “forestiero”.

Oggi, Rejs è considerato un classico. Nel corso dei decenni il film ha circolato anche al di fuori della Polonia, paese in cui uscì in due copie col crudele stampino di “film di quarta classe”. È tuttavia già miracoloso che poté uscire in qualche cinema, e che la komisja kolaudacyina (cioè la censura) non lo abbia fatto a pezzi. I sessantasei minuti di durata non sono infatti riconducibili alle forbici censorie, bensì alla decisione di Piwowski di concentrare al massimo il potenziale umoristico del film. A riprese ultimate, il materiale consentì due versioni provvisorie di tre ore e un’ora e mezza, ma gli autori preferirono snellire il prodotto finale, che ora funziona come uno stiletto. E non per via di “nessi di ferro” e concatenazione logica. Il film è davvero episodico, improvvisato, a tratti dada, quindi in linea di principio ci sono ancora delle scene sacrificabili. Ma l’equilibrio che lo rende così solido è proprio dovuto un bilanciamento misterioso, ipnotico, di lunghe sequenze e inserti lampo, cabaret filmato e smorfie da film muto. Da questo punto di vista è impossibile migliorare il montaggio definitivo, già “director’s cut” nel 1970.

L’arma letale di Rejs è la parodia. Più circo volante che nave dei folli, il film di Piwowski mette in campo due strategie sorprendenti se si pensa all’epoca delle riprese. La prima è la parodia della cosiddetta nowomowa, la “neolingua” della propaganda socialista già smembrata da Orwell, ma comunque utilizzata con programmatica pervicacia nei paesi del blocco sovietico. Oggi la chiameremmo politichese. In fin dei conti, ogni epoca ha la sua lingua del confronto pubblico, i suoi cliché da campagna elettorale. In Polonia i discorsi di Gomułka & co. erano meticolosamente codificati, e in Rejs questo codice riaffiora nei monologhi senza senso dei protagonisti, dal capitano (Ryszard Pietruski) che fa un colloquio di lavoro al clandestino Tym trasformandolo nel nuovo kaowiec (responsabile delle attività culturali) al filosofo sculacciato (Andrzej Dobosz) passando per un poeta dislessico (Leszek Kowalewski), un azzeccagarbugli di partito (A. Sobczyk) e un cinico ingegnere (Zdzisław Maklakiewicz). Già la voce off della primissima scena, che tramite megafono informa sui rischi della balneazione, sfoggia la cadenza impassibile e il vocabolario astruso di questa non-lingua autoritaria e inevitabilmente ridicola. Se alcuni film degli anni Cinquanta, espressione coatta del realismo socialista, potevano risultare involontariamente buffi, con Rejs si passa alla parodia, appena camuffata da adattamento di gruppo dei romanzi di Jerome K. Jerome. Un aspetto ben analizzato da Karolina Dabert.

La seconda strategia è metanarrativa. Al tredicesimo minuto scatta una lunga sequenza immobile in cui l’ingegnere Mamoń critica aspramente il cinema polacco, asserendo che nei film nazionali non succede niente. Inutile dire che nel farlo, tra una pausa e l’altra, interpreta plasticamente quello che dice, davanti agli sguardi vuoti degli astanti. Anche le due sequenze più importanti del film, l’assemblea (subito dopo) e la festa del capitano nel prefinale, contengono interventi “fatici” che uniscono l’uso della nowomowa a zero ricadute pratiche. Il malinconico cantante interpretato da Janusz Kłosiński rompe così il ghiaccio al minuto 19: “Na każdym zebraniu jest taka sytuacja, że ktoś musi zacząć pierwszy” (in ogni assemblea arriva il momento in cui qualcuno deve iniziare per primo). Gli ultimi minuti del film, che sconfinano nell’allegoria, fanno culminare questa crociera decerebrata in una festa con coreografie alla meno peggio e quiz sui versi degli animali. La messa in abisso della repubblica popolare polacca diventa un gorgo tragicomico.

Come ha notato Krzysztof Obremski, lo spirito sovversivo Rejs funse da spunto a un altro regista, Stanisław Bareja, che nel corso degli anni Settanta realizzò una serie di commedie grottesche con frecciate politiche tra le righe. Insieme a Tym in veste di sceneggiatore e protagonista, Bareja è autore di Miś (‘orsetto’), film uscito nel 1981 pochi mesi prima dell’introduzione della legge marziale. Anch’esso amatissimo dal pubblico, questo film sgangherato ha avuto persino due sequel, Rozmowy kontrolowane (‘conversazioni controllate’, 1991) di Sylwester Chęciński, scritto da Tym, e Ryś (‘lince’, 2007), sceneggiato, diretto e interpretato dall’attore. La mano di Bareja è greve, anche se alcuni momenti di Miś sono davvero azzeccati e sembrano farina del sacco di Paolo Villaggio, come la latteria – tipico locale polacco dove mangiare per poco – coi piatti inchiodati ai tavoli e le posate (per due) incatenate. Quanto a Tym, conosciuto anche come opinionista sulle pagine della Gazeta Wyborcza, i suoi film si accompagnano sempre più a rilievi cinici, o semplicemente populisti, sull’attualità politica polacca. Se Miś rappresenta un documento storico sull’atmosfera che portò alla mossa dittatoriale di Jaruzelski, Rozmowy kontrolowane, prodotto in un clima finalmente scevro da rischi censori, si limita a cannibalizzare l’epoca della legge marziale con toni da commedia scollacciata, peraltro invecchiata male. Si salva solo il finale, nichilista sì ma con spirito monello.

Rejs è caso isolato nel cinema polacco. Commentato con ironia dalla colonna sonora di Wojciech Kilar, il film sbertuccia un’intera classe politica con naturale eleganza e una metafora quasi ancestrale, quella dell’imbarcazione alla deriva. E la barchetta va. Il senso di imbarazzo suscitato da alcune scene, la recitazione beckettiana, l’assurdità vibrante dei dialoghi fanno di Rejs un film modernissimo, comprensibile anche senza conoscerne lo sfondo socioculturale. Durante il quiz finale, a un anziano viene chiesto di fare il verso del cavallo, lui azzarda un “patataj, patataj“, che è come dire cloppete cloppete, l’intellettuale integrato lo corregge con un nitrito che sembra un raglio e il vecchio sbotta: “Pytania są tendencyine”. Le domande sono tendenziose.

stan wojenny

Dettaglio del dipinto AE73 di Zdzisław Beksiński (1973)

FilmPolska è il più grande festival di cinema polacco organizzato al di fuori della Polonia. Si svolge a Berlino nell’arco di una settimana ed è un’ottima occasione per fare il punto. Quest’anno c’è anche una retrospettiva su Zbyszek Cybulski, il James Dean dell’Est Europa, nato nella campagna ucraina nel 1927 e deceduto a Wrocław quarant’anni dopo, sotto le ruote del treno che aveva tentato di prendere al volo.

Entrambi i film (nuovi) che ho visto rientrano nell’alveo ampio e frastagliato del cinema civile polacco. Wszystkie nasze strachy (‘tutte le nostre paure’) è l’opera prima di Lukasz Ronduda e Lukasz Gutt, vincitrice all’ultimo festival di Gdynia. Dawid Ogrodnik interpreta l’artista contemporaneo Daniel Rycharski, omosessuale e cattolicissimo, famoso per aver tematizzato la violenza ai danni delle persone LGBT[IAQ*+…] in opere che fondono vita contadina e simboli religiosi. Le più famose sono le croci-spaventapasseri con i vestiti delle vittime di omo- transfobia, spesso suicide. Sulla carta una bomba, in realtà un film esile, con zero credibilità nella messinscena dei rapporti gay, che schiaccia l’acceleratore solo quando si tratta di celebrare la campagna e la fede, i due pilastri della cultura polacca. Non mancano le stoccate alla politica agricola europea. In sostanza, la cultura queer passa solo perché agganciata alla vita nei campi e a una spiritualità senza tempo che serve a modernizzare. Lo stesso sottotesto che si coglie in Boże Ciało (Corpus Christi, 2019) di Jan Komasa, distribuito anche in Italia, dove un giovane scapestrato che si spaccia per prete finisce per incarnare la chiesa anni duemila. Non esiste Polonia senza cattolicesimo, soprattutto in seguito al nesso creatosi tra l’elezione di un papa polacco e la caduta della cortina di ferro. Al cinema, pochissimi si azzardano a criticare la chiesa, tanto meno adesso che i finanziamenti per le opere cinematografiche sono ancora più legati alle direttive del governo. Il discorso portante è oggi più che mai antisovietico, nazionalista – uno spazio politico creatosi nel 1990 e lubrificato dai veti che la Polonia si può permettere dal 2004 – e malsanamente cristologico. Insomma, il messianismo ottocentesco di Mickiewicz è ora pratica quotidiana.

L’altro film recuperato a FilmPolska, già in concorso a Venezia 78, è il nuovo gioiello di Jan P. Matuszyński, l’autore di Ostatnia rodzina (‘l’ultima famiglia’, 2016), film biografico sul pittore tardo surrealista Zdzisław Beksiński. Żeby nie było śladów (‘che non lasci tracce’, sceneggiatura di Kaja Krawczyk-Wnuk) è la storia vera, e allucinante, dell’assassinio di Grzegorz Przemyk avvenuto nella primavera del 1983, pochi mesi prima che venisse sospesa la legge marziale (stan wojenny) voluta da Jaruzelski per contrastare Solidarność. In soldoni e spoiler-free: il maturando Przemyk viene prelevato dalla milizia a Varsavia vecchia per nessun motivo apparente – sta cazzeggiando con un amico – e dopo essersi rifiutato di esibire il documento viene pestato al distretto. Muore pochi giorni dopo a causa di lesioni interne. Visto che il ragazzo è figlio di una poetessa vicina al sindacato, Barbara Sadowska, le istituzioni mettono in moto un meccanismo straziante per seppellire la cosa (non ce la fanno), sovvertire i fatti (ce la fanno), scaricare il barile dalla milizia ai barellieri (ce la fanno) e risparmiare i pezzi grossi (ce la fanno). Il caso è caduto in prescrizione nel 2010. Żeby nie było śladów dura due e ore e quaranta, Grzegorz muore dopo un quarto d’ora. Non c’è un solo minuto superfluo.

Ex studente e ora professore presso la scuola di cinema di Kieślowski a Katowice, Matuszyński riesce là dove il maestro del Decalogo ha sempre avuto difficoltà, cioè nel fare cinema politico tout court. Con una differenza fondamentale a discolpa di Kieślowski, che ha sempre affrontato il presente e quindi la censura di regime. Matuszyński ripesca perle nere della storia polacca, e in filigrana si coglie una critica più ampia alle istituzioni applicabile anche all’opportunismo dell’epoca Kaczyński. Quando Przemyk venne barbaramente pestato davanti agli occhi del suo migliore amico, Kieślowski aveva da poco conosciuto Piesiewicz e insieme stavano assistendo ad alcuni processi-farsa innescati dalla legge marziale con l’idea di farci un documentario. Progetto poi scartato e virato alla finzione, con la sceneggiatura “paranormale” del lugubre Bez końca (Senza fine, 1985). La filmografia di Kieślowski precedente a quegli anni è una cornucopia di osservazioni entomologiche che spaziano in tutti gli ambiti della società polacca, dimostrando particolare affetto per la città operaia di Łódź (Z miasta Łodzi, 1968), medici e infermieri (Szpital, 1976) e giovani coppie (Pierwsza miłość, 1974). Il suo primo lungometraggio, Personel (1975, per la tv), s’immerge tra le maestranze di un teatro e mette a nudo gerarchie, angherie, ingerenze da parte delle autorità. Uno slancio di impegno civile che in Blizna (La cicatrice, 1976) scende a compromessi e si stempera in immagini specchiate, avvisaglie del suo cinema più formalista e festivaliero anni Novanta. Spokój (La calma, 1976), prima collaborazione con l’attore Jerzy Stuhr, parla del fallito reintegro nella società di un pregiudicato, distrutto dalle tensioni tra classe operaia e apparati. Nel film, Kieślowski utilizza per la prima volta degli animali in chiave metaforica, in questo caso dei cavalli – visti dal protagonista prima in tv per puro caso, poi al galoppo nella notte – che rappresentano una serenità selvaggia e irraggiungibile. Nel successivo Amator (Il cineamatore, 1979), l’animale totemico e latore di sventure è il falchetto. La critica neanche tanto sottile al regime passa in secondo piano rispetto a una celebrazione quasi diagnostica della passione di filmare intesa come spostamento di realtà, dipendenza totalizzante, droga bellissima e perniciosa. Già in Klaps (1976), il regista aveva realizzato insieme ad alcuni colleghi un breve manifesto ipnotico montando gli attimi del ciak presi dai film più disparati. Cos’è un ciak? Rumore secco, azione!, sorpresa, scompiglio, inevitabile scarto. Kieślowski lo colloca invece al centro della visione, una manovra rivoluzionaria che ricorda gli esperimenti di Grifi e Baruchello. Un blob ante litteram. E parlando di cinema che si ciba di altro cinema, in Amator c’è un lungo frammento di Barwy ochronne (Colori mimetici, 1976) accompagnato dalla comparsa del regista Krzysztof Zanussi, che il protagonista Filip Modz (Stuhr) invita a un cineforum.

Considerato a suo tempo l’anti-Wajda per il suo approccio accademico e lo stile pulito, Zanussi è il vero punto di riferimento di Kieślowski, che con Amator compie la svolta dal “sociale” al cosiddetto cinema dell’inquietudine morale. All’apparenza innocuo, con le sue atmosfere da campo estivo per giovani universitari, Barwy ochronne resta probabilmente l’esempio più fulgido di denuncia della corruzione nel sistema polacco, tanto da subire sabotaggi (con effetto boomerang) al momento dell’uscita nelle sale. Wajda, per decenni nume tutelare della cinematografia nazionale, non ha mai sfoggiato la raffinatezza psicologica di Zanussi, preferendo inserire direttamente Lech Wałęsa in Człowiek z żelaza (Palma d’oro nel 1981) o contaminando l’adattamento del classico della letteratura Ziemia obiecana (La terra della grande promessa, 1975), ambientato a Łódź durante la rivoluzione industriale, con una scena al limite dello splatter – all’85° minuto – e uno sfondamento clamoroso della quarta parete (133°: vedere per credere). Se Zanussi è sinonimo di sottigliezza, Wajda ha sempre optato per narrazioni potenti e polacche fin nel midollo come la pièce Wesele (‘le nozze’, 1901, di Stanisław Wyspiański, versione di Wajda anno 1973), caposaldo del “teatro enorme” targato Młoda Polska. Non è un caso che a rifare – ben due volte – Wesele al cinema sia stato l’autore contemporaneo forse più vicino al materialismo di Wajda, ovvero Wojciech Smarzowski. Tornando a Krzysztof Kieślowski, Krótki dzień pracy (Una breve giornata di lavoro, 1981), film ripudiato dal suo autore, segna l’ultima volta in cui il regista affronta di petto la semiattualità, mettendo in scena la protesta del 1976 contro il carovita nella periferica Radom, con lo scontro impari tra manifestanti ed esponenti del partito. Come in Blizna, il protagonista fa parte dell’apparato e l’esito confuso, a tratti pedante della pellicola deriva dalla difficoltà di conciliare tutte le prospettive.

Sono pochi i film contemporanei che cercano di raccontare la società polacca in un’ottica politica. Il già citato Smarzowski ci è riuscito con Kler (2018), racconto altmaniano di una chiesa cattolica che coincide col potere e l’abuso. Sebbene molto più mansueto di quanto vorrebbe (ma almeno non manicheo nel fare di tutti i preti un fascio), Kler è un ottimo esempio del cinema di Smarzowski: esagitato, caustico, esilarante quando ricorre ai video amatoriali o ai prelievi dal flusso delle camere di sorveglianza. Spesso, purtroppo, la grana grossa prende il sopravvento sulla denuncia, ottundendola. Parimenti ondivaga nei risultati, ma molto più raffinata quanto a senso dell’umorismo, Małgorzata Szumowska ha avuto il coraggio, in Twarz (2017), di sbattere al muro in un colpo solo l’idiozia della società consumistica, l’ottusità della classe dirigente e la ridicola grandeur della chiesa cattolica, che a Świebodzin ha fatto erigere una statua di Cristo più alta di quella di Rio. Premessa perfetta per il colpo di coda finale. Come Agnieszka Smoczyńska (autrice del fulminante esordio Córki dancingu, 2015), Szumowska sta ora tentando faticosamente la fortuna all’estero.

Żeby nie było śladów è un segnale di speranza in una Polonia che rischia di far passare ancora di più in secondo piano i diritti civili a causa della nuova fase geopolitica rovente. La chance di fungere da nuovo “centro periferico” dell’Europa, incarnando lo struggimento per i kresy (‘terre di confine’) tanto importanti nei libri di Sienkiewicz, rischia di dare libero sfogo a una politica già profondamente conservatrice. In questo quadro, la Vergangenheitsbewältigung di Matuszyński è preziosa perché dimostra quanto sia facile sia infliggere delle ingiustizie abissali, sia difenderle mediante il ricatto e l’oppressione. Tutto pur di non disturbare il manovratore di turno. Uno dei pochi a prendere a cuore il caso di Grzegorz Przemyk è un avvocato che ha nello studio un famoso dipinto kafkiano di Zdzisław Beksiński del 1973. Come se le immagini distopiche del pittore protagonista di Ostatnia rodzina portassero con sé il seme della ribellione alla legge marziale. Matuszyński fa un lavoro certosino che va dai vertici della Repubblica Popolare, quindi Jaruzelski e la sua cerchia ristretta, fino al cuore delle famiglie coinvolte, lacerate tra fedeltà agli ideali, scontri centro-periferia e paure umanissime (una delle testimoni chiave non si presenta al processo perché la polizia segreta ha scoperto dei suoi flirt con ragazzi non ancora diciottenni). La faccia di bronzo dello straordinario Robert Więckiewicz – una sorta di moderno Sordi polacco – nei panni del generale a capo della milizia è la pietra tombale su qualsiasi tentativo di fare giustizia. Tutto dovrebbe scorrere “senza lasciar tracce”, al pari delle lesioni inflitte calciando il ventre. Il film, perentorio e dolente, vuole sostenere il contrario. Che non è mai troppo tardi. Per fare un’inquadratura con pollici e indici. E dare quel colpo di ciak che apre gli occhi.

Krótki dzień pracy (1981, dettaglio) di Kieślowski. ‘Il programma del partito è il programma della nazione’. Sullo sfondo, manifestanti in arrivo.