noi mammiferi

Mimi (Emmanuelle Seigner) festeggia Oscar (Peter Coyote) in Bitter Moon (1992) dopo avergli regalato una rivoltella.

Sono trascorsi esattamente settant’anni dal primo ruolo cinematografico di Roman Polański, nel film collettaneo Trzy opowieści (Tre racconti). Una particina nel secondo episodio, tra il giovanilistico e il militaresco, diretto da Konrad Nałęcki. Realismo socialista allo stato puro, che Polański ha sempre detestato. Tra i suoi primi cortometraggi realizzati nell’ambito della scuola di cinema di Łódź c’è Uśmiech zębiczny (Un sorriso dentale, 1957) della durata di due minuti scarsi. Un uomo scende le scale e sbircia da una finestrella che dà sul bagno dei vicini. Vede una donna nuda che si asciuga la faccia. Dopo qualche scalino torna su per godersi nuovamente lo spettacolo, ma stavolta c’è un uomo in pigiama che si lava i denti e gli rivolge il sorriso esagerato e finto tipico di questa pratica igienica.

Nóż w wodzie (Il coltello nell’acqua, 1962) non avrebbe mai passato il vaglio della censura senza l’apporto di Jerzy Skolimowski, che convinse Polański a inserire nei dialoghi qualche accenno alla lotta di classe e al duro lavoro degli operai. I due sembrano una coppia comica. Roman è piccolo, topastro, in Chinatown (1974) Jack Nicholson lo apostrofa con “midget” prima che il minigangster gli recida la narice sinistra. Skolimowski è un aitante ex pugile. Entrambi fecero la gavetta a Łódź anche grazie ad Andrzej Wajda, che li volle in piccole parti in film come Pokolenie (1955) e Niewinni czarodzieje (1960). C’è un forte senso di cerchio chiuso nel fatto che Skolimowski, insieme alla moglie Ewa Piaskowska, funga da cosceneggiatore di Polański per The Palace (2023).

Massacrato dalla critica, uscito in pochissimi Paesi – tra cui l’Italia, anche per motivi produttivi legati a Luca Barbareschi – The Palace è uno sconcertante, orgoglioso cinepanettone sfornato da un regista novantenne. Si tratta anche della sua prima sceneggiatura originale dai tempi di Frantic. Che piaccia o non piaccia, il film sta in piedi proprio grazie alla sfacciataggine. Rispetto ai tempi in cui le autorità polacche lo accusavano di “individualismo pessimista”, non è cambiato granché. The Palace gioca senza batter ciglio con modelli “bassi”, perfettamente elencati da Gordiano Lupi, e sfodera un cast di cariatidi impenitenti. C’è anche Sydne Rome, sintomo di una vicinanza indubbia con un altro film polańskiano dalla pessima reputazione, il verace Che? (1973). Cos’è Che? Risposta: una goliardata messa in scena nella villa amalfitana di Carlo Ponti, che vira al negativo Alice nel Paese delle meraviglie.

L’attrazione di Polański per lo sberleffo secco e l’ineluttabilità di un destino catastrofico è nota. A volte, questo strapiombo si manifesta tramite lunghe inquadrature che ci portano nelle fauci della brutta fine. In Repulsion (1965), la macchina da presa scorre sugli effetti personali della protagonista nell’appartamento ormai devastato, zoomando su una vecchia foto di lei da bimba. Un zoom analogo a quello dei titoli di testa, che esce letteralmente dalla pupilla di lei. In The Ghostwriter (2010), un foglietto passa di mano in mano fino ad arrivare sotto gli occhi della persona che nel giro di un minuto condannerà a morte il suo autore. In The Palace, un travelling rasoterra tra i miseri resti della festa di capodanno scova una coppia di amanti inaspettata. L’unico lieto fine degno di questo nome, per quanto sarcastico, c’è in Carnage (2011). Uno zoom all’indietro con carrello ascendente.

Polański gravita da sempre tra due poli. Da un lato il beckettismo dei suoi primi cortometraggi come Dwaj ludzie z szafą (Due uomini e un armadio, 1958), Le gros et le maigre (1961), Ssaki (Mammiferi, 1962), che nel corso del tempo si tramuta in un gioco al massacro claustrofobico. Dall’altro lo sbraco, la goliardia pura, il kitsch. Un elemento più rischioso, che muove i primi passi col personaggio di Lionel Stander in Cul de sac (1966), in quello di Ruth Gordon in Rosemary’s Baby (1968) ed esplode in Che?, Pirates (1986), Bitter Moon (Luna di fiele, 1992), Carnage, A Therapy (2012), The Palace. Questo umorismo nero, non certo in punta di penna, innerva alcuni dei capitoli meno apprezzati della sua filmografia. Sicuramente Pirati, che vorrebbe far ridere ma fallisce di brutto. Luna di fiele è invece un’ottima sintesi di quello che Polański ama fare, rischiando, e con esiti fortemente altalenanti. La sceneggiatura del film, tratta dal romanzo Lune di fiele di Pascal Bruckner, reca le firme del regista e del suo storico collaboratore Gérard Brach.

In tutto, Polański ha diretto 8 lungometraggi con sceneggiature originali e 14 adattamenti (più Chinatown, scritto da Robert Towne). Luna di fiele segna l’ultima collaborazione con Brach. Si tratta di un film parigino, raccontato in flashback da una nave diretta in India che sta attraversando il Mediterraneo. C’è l’acqua, grande elemento minaccioso dell’universo polańskiano, c’è Emmanuelle Seigner forza della natura, c’è una doppia coppia di protagonisti in conflitto, tra attrazione e repulsione – meglio che in Carnage – e c’è una festa di capodanno letteralmente terminale. I ricconi che vomitano in barca li ha inventati Polański, e gli è bastata un’inquadratura. Nella sua decadenza a tratti implausibile, la spirale discendente di Luna di fiele dimostra tutta la forza, e tutta la debolezza, della visione del mondo polańskiana. Una visione programmaticamente, schematicamente provocatoria, decisa a tavolino e accompagnata da un risucchio visivo improvviso, scompaginante. All’apparenza classici, quasi hollywoodiani, i suoi film dell’età matura a ben vedere portano all’estremo questo metodo minuzioso che innesta in un découpage “standard” uno schiaffo ben assestato. Luna di fiele, confezionato come un thriller erotico decadente a un anno da Basic Instinct, con le musiche di Vangelis (!), è Polański al cubo, commovente e insopportabile, non per tutti i palati – grazie al cielo.

In Luna di fiele, Mimi conficca a terra due oggetti contundenti: prima un rasoio, poi una siringa. L’effetto è lo stesso del coltello che cade dalle mani di Rosemary (Mia Farrow) nella sequenza finale del film anno 1968 tratto da Ira Levin. Polański non ha mai preso sul serio l’horror. The Fearless Vampire Killers (1967), tra i suoi film più mansueti, è in realtà una parodia pre-Mel Brooks che diventa esilarante con la celebre gag dello specchio. Rosemary’s Baby è un film horror senza effetti speciali, eccezion fatta per due manone diaboliche che qualcuno sembra aver staccato dal mostro della laguna nera, eppure è terrorizzante. Tutto merito delle sue ellissi e di questa ultima sequenza di penetrazione nell’appartamento dei vicini senza la quale Dario Argento non avrebbe mai potuto ideare la conclusione di Suspiria. Negli extra del dvd, Polański scherza sostenendo che Rosemary potrebbe essersi immaginata tutto quanto. E in effetti, facendo un passo indietro, potrebbe essere una burla di pessimo gusto. Ciò detto, sfido chiunque a non uscire dal tunnel del film senza la certezza che Rosemary abbia messo al mondo il rampollo del demonio.

L’elemento più orrorifico nei film di Polański sono i vicini. Una volta raggiunto il culmine della sua follia, Carole (Catherine Deneuve) riceve la visita, una vera e propria home invasion in forma di processione, dei vicini curiosi. Fa più paura la loro presenza appiccicaticcia che l’evidenza dei delitti di Carole. The Tenant (1976, da Le locataire chimérique di Roland Topor) è uno dei capolavori Brach-Polański. Anche qui, il terrore non ha bisogno di effettacci o violenza: sono i vicini, che ovviamente complottano, che ovviamente ci tengono d’occhio notte e giorno, che ci vogliono far impazzire, che ci vogliono trasformare nella persona che occupava l’appartamento prima di noi (e che, ça va sans dire, è schiattata in malo modo), sono loro a incarnare l’orrore. L’orrore è una persona in piedi per ore nel bagno al piano, dirimpetto alla nostra finestra.

Le tracce horror presenti in altri film sono red herrings, indizi che non portano da nessuna parte. In Macbeth (1971) le streghe ci devono essere per forza, ma a suscitare emozioni forti è soprattutto la breve sequenza concatenante a base di specchi, replicata più goffamente, in un digitale invecchiatissimo, nei titoli di testa della Nona porta (1999). Malgrado il suono sembri restituirci delle urla arcane, la Stonehenge che appare in Tess (1977) non vuole suggerire nulla di ultraterreno, semmai creare un’atmosfera spiazzante che anticipa la tragedia. “All of them witches” sono e restano i vicini di Rosemary, di primo acchito normalissimi. E se lo fossero davvero?

L’asso nella manica di Polański è l’esplorazione di un luogo chiuso, o di una risicata figura geometrica di personaggi. Tre in Nóż w wodzie e in Death and the Maiden (1994), quattro nei già citati Luna di fiele e Carnage, due e riga nel tour de force de La Vénus à la fourrure (2013), con Amalric e Seigner da annali. In questi luoghi è spesso la donna a dare il la. La prima moglie di Polański, Barbara Lass, è un’apparizione angelica in Due uomini e un armadio e Gdy spadają anioly (La caduta degli angeli, 1959). Deneuve dà corpo a tutta Repulsion, apparendo in ogni singolo inquadratura. Sharon Tate grazia The Fearless Vampire Killers con la leggiadria di Lass, salvo mostrare i denti nel finale. Nastassja Kinski veste i panni dolenti di Tess con la stessa caparbietà di Deneuve. E da Frantic in poi, la maîtresse indiscussa è Emmanuelle Seigner, con l’eccezione di Sigourney Weaver in Death and the Maiden.

Altri temi ricorrenti sono l’antisemitismo e la letteratura. Sommerso da critiche ormai ideologiche a causa della fedina sporca del regista, J’accuse (2019, dal romanzo di Robert Harris – come The Ghostwriter) è una disamina scientifica di come funziona l’odio nei confronti degli ebrei. Un film solidissimo, classico nella struttura ma spietato nel suo gioco di leve e ingranaggi, che si ricollega direttamente a un’altra storia vera, quella del Pianista (2001) – per certi versi, anche la storia di Polański. L’antisemitismo ha un posto di rilievo, molto più sottile, in Oliver Twist (2005, sceneggiatura di Ronald Harwood), adattamento dickensiano che poggia interamente sulla figura di Fagin interpretata da Ben Kingsley. Pur essendo un poco di buono che sfrutta i ragazzini, nel finale tutta l’empatia si riversa su di lui e sul patibolo che lo attende. Davvero un lupo vestito da agnello questo film “per famiglie” che in realtà scombina le carte alla maniera sottocutanea del miglior Polański.

Meno riuscito il filone più letterario, che consiste non solo in adattamenti, ma in storie che vogliono riflettere sulla letteratura. Si parte con The Ninth Gate (1999) da Arturo Pérez-Reverte, passando per il thrillerone su Tony Blair The Ghostwriter, fino a D’après une histoire vraie (2017, da Delphine de Vigan). Ghostwriter a parte, gli altri due titoli sono degli indubbi pesi mosca nella filmografia polańskiana, un po’ come La rivière de diamants (1964, episodio del film Les plus belles escroqueries du monde, prima produzione internazionale per Roman) e The Palace, peso mosca sì, ma che ronza. Se La nona porta tenta di ripetere i colpacci hollywoodiani di Rosemary’s Baby e Chinatown senza tuttavia trasmettere un reale senso di minaccia, il film con Seigner nei panni di una scrittrice in crisi è davvero un’opera senile, fragile e poco seducente, con suggestioni lesbiche imparagonabili al ciclone di Bitter Moon.

La musica ha sempre un ruolo di primo piano. Il geniale Krzysztof Komeda, morto giovanissimo nel 1969, ha accompagnato Polański dalla fase dei cortometraggi fino alla ninna nanna di Rosemary’s Baby. Un esempio per tutti: i titoli di testa di Cul de sac. Philippe Sarde ha composto l’indimenticabile tema di Le locataire. Wojciech Kilar, deceduto nel 2013, ha siglato la colonna sonora di The Ninth Gate, The Pianist, Death and the Maiden (in cui però, già nel titolo, stravince Schubert). Dal 2010 il regista si avvale della collaborazione di Alexandre Desplat, il cui piglio brillante e minimalista funge da contrappunto perfetto per le sue storie buie o sbracate. Lo si vede molto bene nel corto A Therapy, marchetta per Prada in cui un Ben Kingsley terapeuta s’innamora della pelliccia di Helena Bonham Carter mentre lei è stesa sul lettino. Venere in pelliccia prima di Venere in pelliccia.

I film di Polański amano insediarsi nei non-luoghi, sulle barche, in villette e isolette, a un passo dalle scogliere, tra quattro mura che sono prigioni dorate – ma anche nelle grandi città. Le due produzioni hollywoodiane di Robert Evans che lo hanno lanciato definitivamente hanno come sfondo New York (Rosemary’s Baby) e Los Angeles (Chinatown). Londra è un personaggio a sé in Repulsion e Oliver Twist. Varsavia, o meglio una Varsavia ricostruita, fellinianamente finta, è sinonimo di The Pianist. Amsterdam e le sue stramberie affiorano ne La collana di diamanti. In questo ambito, Parigi ha un ruolo speciale. La torre Eiffel si vede da lontano nel cortometraggio Le gros et le maigre, ambientato attorno a una casupola su una collinetta. Polański, che fa “il magro” angariato dal “grasso”, alla fine avrebbe la possibilità di fuggire nella metropoli ma resta dov’è, circondato da tanti fiorellini. Parigi, spesso livida, più stradale che cartolinesca, funge da sfondo anche per Le locataire, per l'”intrigo internazionale” con lieto fine obbligatorio di Frantic, per Luna di fiele, Venere in pelliccia, Quello che non so di lei. Ma a prescindere dalle coordinate, quel che è conta è il livello di minaccia. Mentre nei film di Woody Allen c’è sempre uno sguardo turistico, innamorato, c’è l’abbraccio delle location, in Polański il luogo è lì per ostacolare, angosciare, far fuori.

Il corto Morderstwo (Omicidio, 1956) impiega meno di un minuto e mezzo per mostrare una porta che si apre, un uomo in impermeabile nero che entra, si dirige verso un uomo che dorme, gli pianta un coltellino nel petto e se ne va. L’assassino si vede in faccia prima che esca: è paffuto e baffuto. Cammina usando un bastone. Le inquadrature sono tre, con movimenti di macchina essenziali. Noi restiamo lì, nella stanza, testimoni impotenti che hanno visto tutto. Come ci sentiamo? C’è piaciuto? Vogliamo ripetere l’esperienza? A settant’anni di distanza le domande son sempre valide, e le risposte sono: insomma, sì, eccome.

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Terence Davies, sequenza dei titoli di testa di The Neon Bible (1995), immagine finale.

Scrivo dal Cairo alla fine di questo mese turbinoso di febbraio duemilaventitré. La Berlinale è appena finita, e il riconoscimento alla carriera è andato a Spielberg. Il suo discorso m’ha incollato allo schermo del tablet mentre mangiavo la mia zuppetta in cucina. Per tutta la vita ho avuto l’impressione di stare su un bullet train, ma mica ho finito – voglio battere il record di Manoel de Oliveira, ha detto. E ancora: mio padre è morto a centotré anni, quindi i geni ci sono. Spielberg ha pronunciato chiaro e tondo il nome “Manoel de Oliveira”, auspicando per sé altri trent’anni di empatia, presenze/assenze materne e affabulazione. Ha anche ammesso di non avere piani al momento, eccezion fatta per la produzione di una miniserie tratta dal Napoleon di Kubrick. Hai capito?

Nel corso della Berlinale, per me mordi e fuggi causa calendario allucinante, ho avuto la fortuna di vedere, scrivendo qualche riga per Indie-Eye, Roter Himmel di Petzold e Sur l’Adamant di Philibert. Ho anche visto quel capolavoro ballardiano di Infinity Pool e The Survival of Kindness, ritorno alla radicalità, purtroppo furbetto e spuntato, da parte di Rolf de Heer. L’Orso d’oro è andato a Philibert, cioè un maschio bianco ultrasettantenne, sulla cresta dell’onda quando i cineasti da seguire con devozione erano Kitano, Kusturica e Kiarostami. Rivoluzione! Che l’abbiano salvato i tanti rimandi subliminali ad Agnès Varda sparpagliati sulle pareti lignee del barcone protagonista del film insieme al suo carico di matti? Mi piace credere che la statuetta dorata vada soprattutto ai primi piani, agli abissi belli di quegli occhi mostrati con amore. Nel sua tragicommedia di mezza estate, Petzold gioca con gli stilemi del suo modo di raccontare, a partire dal brano dei titoli di testa: In my mind. Quasi a suggerire che l’intero film è, ancora una volta, una visione, il sogno di un morto o, in questo caso, di uno scrittore in crisi nera. Ma anche qui mi piace credere, di una fede limitata alla sospensione dell’incredulità, che le ceneri volanti che si vedono non siano il segnale di una favola ma avvisaglia vera di un incendio in arrivo. Che il cinghialetto in fiamme sia drammaticamente vero, pur nell’evidenza del cgi. E che lo stesso valga per i cieli fiammeggianti del titolo, metafora facile dell’emergenza climatica ma, nel quadro del film, innesco credibile di una catena di svirgolate che termina col faccione di Thomas Schubert, reaction shot a un comportamento apparentemente assurdo del personaggio di Paula Beer. Film coraggioso che mischia il pesante e il leggerissimo, Roter Himmel, rischiando tutto con alcune scelte di sceneggiatura. Finalmente Petzold fuori dal proprio, idiosincratico tunnel.

Durante la Berlinale, ma non nel programma della Berlinale, sono riuscito a esperire dal vivo Jerzy Skolimowski al vernissage della sua mostra di dipinti presso la galleria nüüd di Mitte. Mi era già capitato nel 2001 al Lido di Venezia, occasione pressoché identica, ma allora Skolimowski era un monumento in pensione, celebrato ogni tanto da Fuori orario. Ora, quasi novantenne, ha alle spalle una ripresa formidabile dell’attività cinematografica a partire da Quattro notti con Anna (2008), una candidatura agli Oscar per IO e The Palace, una sceneggiatura scritta a quatto mani con Polański come ai tempi del Coltello nell’acqua (1962). Sorvolando sui dipinti, il momento in cui il vecchio pugile balbuziente, scocciato dal vociare, è salito su una panca tenendo due minuti di discorso da vero stand-up comedian e arrivando a far ragliare tutti in coro, be’, è stato un fulmine a ciel sereno come sentire Spielberg pronto a seppellire una seconda volta Manoel de Oliveira. Nella testa, mentre ero alla galleria, avevo l’imminente esame orale di polacco. Di lì a pochi giorni avrei tenuto un discorso filato di venticinque minuti, senza power point né appunticini di sorta, su sei anti-favole di Olga Tokarczuk e Sławomir Mrożek. Per l’agitazione ho dormito male una settimana intera, con allucinazioni uditive del tipo Art the Clown ha appena suonato il campanello. L’esame di polacco profondo, livello B1+, è andato (ho preso 1,3 e mi bacio i gomiti), e il merito è anche del buon Jerzy e di tutte le volte che ha rinunciato alla tentazione di fare il cineasta internazionale, arrivando a girare Cztery nocy z Anną attorno a casa.

Ma questo mese, al calare del Feierabend, mi sono rituffato soprattutto nel gorgo di Terence Davies. In biblioteca ho recuperato Benediction (2021), arretrando fino a The Neon Bible (1995). Ho rivisto, dopo un quarto di secolo, la Trilogia, Distant Voices… Still Lives e The Long Day Closes. Non pago, ho messo le mani sul suo unico prodotto letterario, Halleluja Now (1984), libricino sghembo ma interessantissimo per inquadrare la filosofia di Terence. Britannico fino al midollo, con una voce stentorea che tradisce una formazione attoriale, Davies è emerso insieme alla generazione dei Derek Jarman e dei Mike Leigh, facendo il botto negli anni Ottanta con Greenaway, Loach e Frears. Ai tempi della Thatcher si parlava di rinascimento inglese, un rigurgito di autorialità senza vie di mezzo, non di rado animata da slanci politici. Terence, a volte scritto Terrence Davies, è sempre stato il più apocalittico, apodittico e ombelicale tra questi nomi rinascimentali d’Oltremanica, riuscendo a farsi apprezzare con tre mediometraggi – la Trilogia – datati 1976, 1980 e 1983 che parlano di lui, cioè di un perfetto sconosciuto, della sua famiglia cattolica e dell’infanzia a Liverpool. Come se Spielberg avesse fatto The Fabelmans al posto di Duel. Persino il film che l’ha consacrato nel 1988 risulta composto da due mediometraggi: in Distant Voices campeggia una figura paterna quasi kafkiana, mentre in Still Lives è la madre, una Madonna del popolo, a prendere il sopravvento. The Long Day Closes (1992) è considerato il capitolo conclusivo della sua lunga fase autobiografica, quando in realtà il film, primo lungometraggio senza cuciture, si limita a riproporre le intuizioni alla base dell’universo daviesiano: un tempo non lineare in cui s’intersecano le generazioni, lo struggimento per la casa di Liverpool, le sue scale, le sue finestre pulite il giovedì, la quotidianità arcana con la famiglia, il padre pazzo e manesco, un genio proustiano per l’inserimento e l’espansione di dettagli rivelatori e un amore sconfinato sia per il canto, quello improvvisato alle feste e nei pub, sia per la poesia – questa, giocoforza, altissima. La vertigine, insomma, anche questa à la Spielberg, tra l’enorme e il microscopico (lo schermo di De Mille e la faccia del bambino per la prima volta al cinema), tra il sublime e l’infimo. The Neon Bible, tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di John Kennedy Toole, è stata una bella sorpresa. Davies si sposta nella “cintura biblica” americana, filma cieli stellati, lune gigantesche, una Gena Rowlands nonna scatenata, e riesce a proiettarsi nella vita altrui. Il ragazzo (Jacob Tierney) è più Davies che Toole nella sua malinconia, nel senso di inevitabile fallimento, persino nello scatto di violenza vendicativa del prefinale, il dito sul grilletto del fucile nel nome della madre. Un ultimo guizzo prima di lasciarsi andare a narrazioni filmiche fin troppo trattenute e ieratiche, “quiet passions” che stendono una rassicurante coperta calligrafica su un nocciolo magmatico e buio. Benediction, biografia per immagini del poeta e soldato inglese Siegfried Sassoon, segna un prudente ritorno di Davies alle origini. Prudente perché sempre proiettato su tempi lontani, vite non proprie, e corroborato dalla sacralità della forma poetica. Ma Benediction è anche una tragica storia queer ante litteram, una biografia omosessuale in tempi di poco successivi alla condanna di Oscar Wilde. Non solo. È una storia sul tempo che passa impietoso, con la trasformazione di Jack Lowden in Peter Capaldi mentre la macchina da presa rotea attorno al protagonista. È, ancora, una storia di cattolicesimo con la schiuma alla bocca, con Capaldi steso prono, Cristo spiaccicato sul pavimento in pietra di una chiesa. È una storia di relazioni difettose e frustrate, che nel finale riesce a far piangere proponendo integralmente una poesia non di Sassoon, bensì di Wilfred Owen, il suo primo amante: Disabled. Nella poetica di Davies, questo componimento non parla solo della terza età come sofferenza cronica e cronica nostalgia dei tempi andati, della spensierata potenza della gioventù, ma è anche, inevitabilmente, una considerazione – inattuale? – sull’omosessualità.

E qui riemerge, tellurico, Halleluja Now. Pubblicato per la prima volta nel 1984 per i piccioli tipi di Brilliance Books, quasi una versione tie-in della Trilogia, il libretto con le sue 170 pagine è tornato in libreria nel 1993 con Penguin, sicuramente sull’onda di The Long Day Closes. La prima considerazione è che per essere un’edizione Penguin, quella che ho consultato è piena zeppa di refusi. Come se la redazione avesse preso il testo di dieci anni prima per schiaffarlo nella nuova gabbia e darlo alle stampe senza manco rileggerlo. Come mai? Jamacian al posto di giamaicano, recluctance, un Adistra in bella vista per spiegare come si dice right in italiano, e due righe dopo un classico, ma evitabilissimo, Piazza Navonna. Suddiviso in tre parti – Songs for Dead Children, Letters to a Friend, The Walk to the Paradise Garden – il libro rispecchia in maniera patente il ritmo della Trilogia – Children, Madonna and Child, Death and Transfiguration. Rileggendolo oggi vien da pensare come Davies, all’epoca quasi quarantenne, ragionasse in chiave quasi fantascientifica sulla propria morte in un ospizio. Ora ha quasi l’età del tristo protagonista di Death and Transfiguration, che muore rantolando a un volume insostenibile mentre allunga le braccia verso l’immagine anonima di un ragazzo. Ma se le prime pagine rispettano lo stile nostalgico e raffinato che ha fatto la fortuna del suo autore, una madeleine dopo l’altra, e le ultime testimoniano del suo lato più pessimista e desolante, che oggi tacceremmo di ageism, ad alzare una bandiera rossa è la parte centrale del libro. Sono cento pagine secche che espandono senza vergogna un elemento appena accennato, ma impossibile da dimenticare, nella Trilogia. L’infimo pulsionale pendant del sublime. In Halleluja Now, Terence Davies parla della propria sessualità. Un tema che nel 1976 deve aver assestato un bello choc a chi ebbe l’occasione di vedere Children, prodotto dal British Film Institute, impeccabile nel suo bianco e nero ma anche nel mettere in scena le violenze istituzionalizzate della scuola inglese e i desideri omosessuali di un ragazzino che resta a bocca spalancata sotto la doccia della piscina. In Madonna and Child, al rapporto commovente con la madre si alternano scene in cui il protagonista, col volto dolente di Terry O’Sullivan che pare uscito dalla prima sequenza di Night of the Dead, azzarda i primi passi nella Londra BDSM, bussa nottetempo alle porte di un club privato, stringe un paio di chiappe, telefona ossessivamente a un tatuatore chiedendogli se è disposto a intervenire sui genitali, mentre noi, il pubblico, vediamo in panoramica la navata di una chiesa. Questo immaginario fassbinderiano, che cozza con una grazia cinematografica più vicina a Merchant & Ivory, è il grande sommerso viscerale della Weltanschauung di Davies. Tutto questo trova sfogo, senza filtro né inganno, nella parte centrale di Halleluja Now. Con una lunga elencazione di annunci sulla rivista Malebox e di scambi epistolari, troppo efficaci per essere inventati.

Si inizia a pagina 26: “Soon I begin to answer advertisements of a very special sort: ‘Young bi-sexual leatherguy (24) would like suggestions on how to keep warm during long, winter evenings. Box BP/129’; ‘Bearded guy, bodybuilder (28) into leather and skin-tight jeans. Seeks similar. No camps. Box BP /132’; ‘Biker – good physique – (32) seeks mates anywhere with black leather and bikes. Box BP/160’; ‘Handsome London biker – interests bodybuilding/leather/rubber S&M wants friends anywhere. Box BP/200’. A pagina 55: “Quaking in the silence, I simply watch him. He goes back to his seat, picks up his guitar, and opens his legs. We looks at one another in the warm spring sunlight. ‘Are you a leather guy?’ I say after a long, long time. ‘No.’ Warm spring silence. [riga bianca] Oh God have mercy on my thoughts”. A pagina 59: “Am I the only Malebox reader who enjoys plastic baby pants?”. A pagina 65, lapidaria citazione da Donne: Batter my heart three-person’d God. Le citazioni bibliche, dal Cantico dei Cantici, dall’Ecclesiaste, dall’Apocalisse di Giovanni aumentano fino al parossismo visionario della morte.

Lontano anni luce dalle barricate per i diritti civili, rinchiuso in una celletta soffocante e martirologica, Halleluja Now è un lai che toglie il fiato. Al contempo, ha un valore storico e sociale al pari del documentario che Davies ha dedicato a Liverpool, Of Time and the City (2008). Tra queste pagine ingiallite si coglie il bianco e nero di una vita omosessuale da Small Town Boy, tragica perché apparentemente priva di alternative malgrado le occasioni del bacino londinese, ignara degli appelli lanciati da Rosa von Praunheim nel perimetro ristretto di Berlino Ovest – e soprattutto rassegnata. A incontri fuggevoli e meschini. A uno scambio epistolare ossessivo e letterario, finzione intervallata da pochi, sofferti momenti di carnalità. Spesso addirittura controvoglia. Rassegnata a un gioco sadomasochista di menzogne, comportamenti miserabili – gli episodi col micragnoso St John fanno accapponare la pelle – e cattiverie indirette. Ellissi nella vita vera. Il protagonista, Robert, si vendica di un amante volubile dandogli appuntamento all’aeroporto per un viaggio e restandosene a casa, nel silenzio della propria stanza beige. Nel cuore grezzo di questo libretto ci sono tutti i film che Davies non ha fatto. Vi si coglie la repressione di un Visconti, l’angoscia abissale che Pasolini ha saputo tramutare in immagini solo in Salò. Terence Davies ha preferito deflettere, proiettare, usare Edith Wharton, Emily Dickinson o Sassoon come schermi per la propria, personale, tragica idea dell’esistenza. Impossibile sapere se ha fatto bene. Prescindendo dal dato biografico, basta la scena in ralenti di Distant voices con i due corpi in caduta libera che frantumano una tettoia di vetro per qualificare Davies come uno dei registi più talentuosi degli ultimi cinquant’anni. Talentuoso e dotato di senso dell’umorismo. La sua fusione di parola poetica e immagine “allestita” non ha eguali. Eppure, leggendo le pagine autoflagellanti di Halleluja Now, mi chiedo se Davies, che ora va per gli ottanta, non abbia ancora dentro di sé il proprio Salò, un film devastante e sincero sul fallimento che, sfumatura qui, sfumatura là, ci portiamo tutti dentro. Un fallimento di carne e non di crinolina.

Terence Davies, sequenza dei titoli di testa di The Neon Bible (1995).

ultraviolenza

Titoli di testa del corto Terrifier (2011) di Damien Leone.

Se son sempre qui a parlare di film è perché il 6 dicembre 1992 mia madre insistette per farmi vedere Arancia meccanica. Prendemmo la videocassetta a noleggio in zona Fossolo, a Bologna, in un negozietto tra i palazzi a un tiro di schioppo da uno di quei vecchi centri commerciali angusti e bui, di fatto un corridoio con delle vetrine, che ora si vedono solo nell’Europa dell’Est. Dopo la prima visione del film, a suo tempo vietato ai minori di anni diciotto, non ebbi scelta: fu la natura, non la cultura, a costringermi a rimediare la colonna sonora di Ludovico van con iniezioni psicotrope di Wendy Carlos. Sempre lei, la natura, mi fece rivedere il film almeno dieci volte nell’arco di pochi mesi, da solo o in compagnia di amici da contagiare con questa magnifica ossessione. Ricordo benissimo la qualità miserrima, eppure aurorale, della versione originale – sempre VHS – sulla quale riuscii a mettere le zampe scambiando videocassette come se non ci fosse un domani. Strati su strati di sabbia magnetica, audio distorto, colori sbavati, il tutto a causa della moltiplicazione analogica, quindi organica, quindi mortale come noi, di un master perso nella notte dei tempi. Ricordo benissimo anche la prima proiezione in pellicola di A Clockwork Orange al Lumière di via Pietralata, un evento epocale. Lunga fila per agguantare il biglietto e tutto il film, coi suoi centotrentacinque minuti in tre atti, visto in primissima fila all’estrema sinistra, cranio schiacciato nella nuca e mandibola a terra.

Prima di allora, da quando il videoregistratore si era annunciato nel salotto di casa nel giugno del 1990 in occasione dei Mondiali, avevo cominciato a saccheggiare il videonoleggio di via Massarenti con i miei amici di sempre, soprattutto Fabio, passando in rassegna la sezione horror con la medesima acribia di un bibliotecario alessandrino. Il primo film che riuscii a copiare collegando il VCR a un lettore fu Re-Animator (1985) di Gordon/Yuzna. Tra i nostri preferiti c’erano le due Case di Raimi (L’armata delle tenebre l’avremmo poi vista al cinema), ma anche Profondo rosso, Le colline hanno gli occhi, Zombi (1978), Society e, guilty pleasure prima ancora di conoscere il concetto, Il bosco 1 di Andrea Marfori, esempio da manuale di film così brutto da diventare bello. A tenere insieme tutti questi sanguinolenti tasselli filmici c’era un’idea di cinema vecchia come il cinema, la stessa che anima Häxan (1922) di Benjamin Christensen, Un chien andalou o Freaks (1932) di Browning. Non la violenza in sé, non l’intento pornografico di sbattere in faccia al pubblico immagini forti. Ma la volontà sperimentale, rischiosa e ossessiva di superare dei limiti, trasformando lo schermo in un tunnel risucchiante. Più che Gola profonda, Videodrome. Un approccio che spesso invecchia male, ma in certi casi – A Clockwork Orange è uno di questi – si conserva grossomodo intatto nel corso dei decenni. Se mia madre non avesse premuto, a scopi formativi, affinché vedessi il film di Edel su Cristiana F. in tv (sforbiciato), ora non batterei i tasti da questo appartamentino di Friedrichshain e probabilmente avrei sprecato ulteriori mesi della mia infanzia (avevo dieci anni) senza conoscere David Bowie. La distinzione che si tende a fare oggi tra un horror “elevated”, diciamo quello che fa Ari Aster, e uno colpevolmente basso e anale, è quanto di più vacuo. Lo dice anche John Carpenter. La vera domanda è: ti prende alle viscere oppure no? Ti cambia oppure no? Ti resta dentro, non ti fa dormire o scema insieme ai titoli di coda? Se il cinema non è come l’intestino della creatura aliena di Nope (2022), cinema non è.

Questo mese ho visto in sala due film diversissimi che toccano questi tasti. Il primo è IO di Jerzy Skolimowski. Il titolo scimmiotta il raglio dell’asino, quindi andrebbe mantenuto in originale malgrado circoli soprattutto la versione internazionale, anglicizzata, “EO”. È la storia, o meglio il viaggio in Europa di un somaro, animale a cui Jerzy è molto legato. Il cineasta polacco l’ha scritto insieme alla moglie Ewa Piaskowska, artefice del suo ritorno dietro la macchina da presa nel 2008 col formidabile Cztery noce z Anną, film girato letteralmente attorno a casa in un paesello della Masuria. Insieme hanno poi sfornato Essential Killing (2011), anch’esso un viaggio animalesco, con Vincent Gallo catturato in Afghanistan, sottoposto a waterboarding, in fuga nella neve grazie a un incidente automobilistico e alla macchia nelle foreste forse polacche, forse arcane – foreste e basta. Questa pellicola senza un filo di grasso, un tendine più che una pizza, resta nella memoria perché il protagonista non spiccica parola e si fa largo in uno stato di natura che non lo differenzia dagli altri animali che fanno capolino: lupi, cani, cavalli, persino le formiche che mangia per trarne proteine. L’ultraviolenza di Essential Killing sta tutta nella situazione immersiva e senza vie di mezzo. Girato a temperature ampiamente sotto lo zero con Gallo che brancola a piedi nudi, il film non ha bisogno di mettere in scena la violenza. La sequenza più forte è forse quella in cui il protagonista minaccia con la pistola una madre con neonato sul ciglio della strada per farsi allattare. Il sangue, in tutto il film, si vede a malapena, a parte quello sputato dal fuggitivo a cavallo quando il viaggio, finta fuga, volge al termine. Seppur influenzato dal clima dei primi anni Duemila, con la latenza del terrorismo e l’ombra di Guantanamo, con Essential Killing Skolimowski non fa un Redacted (2007) europeo. Fa, come sempre del resto, un film libero e selvaggio su un outsider, rinunciando ai lacciuoli narrativi che gli hanno sempre azzoppato i progetti meno memorabili.

IO è una versione ancor più distillata di Essential Killing. Stavolta il protagonista non è nemmeno bipede: è un asino, anzi sei asini visibilmente diversi (Marietta, Tako, Hola, Rocco, Ettore, Mela) in viaggio dalla Polonia all’Italia. A scatola chiusa verrebbe in mente Au hazard Balthazar di Bresson, ma Skolimowski non è un autore attento alla trascendenza. I suoi film sono terragni ed epicurei. Inoltre, IO è animato da uno slancio antispecista che l’apologo morale di Bresson non aveva. E sebbene nessuno dei due ceda al lieto fine, non è nemmeno l’amarezza a unirli. Il film di Skolimowski e Piaskowska ha un che di squisitamente vitalistico, di sghembamente visionario, che prescinde dalla sinossi. In questo è persino più potente di Essential Killing. E come nel film del 2011 appare Emmauelle Seigner nel prefinale, qui si palesa una Isabelle Huppert mangiapreti (ma non come ci si potrebbe immaginare). Apparizioni divine che non scombussolano tuttavia l’equilibrio del film, né scalzano il protagonista. L’asino è solo. Manca la sua Anne Wiazemsky. IO è un film sulla libertà della visione. Lasco nella logica, geniale nel tingere di rosso fuoco panorami esplorati col drone o nello scandagliare una foresta coi laser dei cacciatori, spiazzante ma coerente (una coerenza che si intuisce soltanto) nel buttare nel montaggio un cane robot di ultima generazione o una scena sugli sci senza alcun addentellato stringente con la trama. È un film che si sofferma sugli animali – tantissimi – ma non ha alcun problema, come in Essential Killing, a sparare a palla la musica heavy metal di un’autoradio. Ma a differenza di Essential Killing, IO mette davvero in scena l’ultraviolenza. Lo fa di punto in bianco, con la rapidità di un ceffone. Non ai danni degli animali, e soprattutto scansando il sadismo furbo di un Haneke in Caché. Se IO fa piangere, perché fa piangere, non è certo per questo flash che toglie di mezzo un personaggio, spendibile e provvisorio come tutti gli altri Huppert compresa, ma il baluginare di una violenza presentata come un rombo di tuono ci resta dentro e ci accompagna per il resto della visione. Torna in mente la lampada oscillante nel finale di Deep End, che toglie la vita con un “toc”. È il bussare della natura indifferente, al cui servizio siamo ogni tanto anche noi esseri umani, utili idioti.

Dalla natura indifferente ad Art the Clown il passo non è brevissimo, ma se Michael Myers, nelle intenzioni di Carpenter, è sempre stato solo e soltanto una buia forza naturale, allora anche l’assassino in costume di Damien Leone lo è. Che non a caso agisce sempre per Halloween. La saga di Terrifier merita perché ha il rarissimo pregio di imporsi, e funzionare, proprio come una saga nel senso autoriale del termine. Titoli come Halloween, Friday 13 th, Evil Dead, A Nightmare on Elm Street, Scream o Saw sono prima di tutto “content”, diritti che passano di mano e prendono via via forme dettate dai chiari di luna del mercato. Una forma che nel caso di Saw è spesso mutuata dai PowerPoint. Quello che Damien Leone è riuscito a fare fino ad ora, a quindici anni dal primo corto, è mantenere un controllo totale su un personaggio, e una concatenazione di eventi, che nel 2022 con Terrifier 2 sono entrati di diritto nella storia del genere slasher e del cinema viscerale. Se Buono Legnani nella Casa dalle finestre che ridono era un pittore di agonie, Leone è un inscenatore di carneficine. E qui l’analisi inizia e finisce, perché non c’è molto altro da dire. Il trucido in sé e per sé è già antiquariato, e per farsene un’idea bisogna proprio tornare a quegli anni Settanta che segnarono uno scatenamento, a volte da vomito, delle immagini sullo schermo. Ma a rendere unico il marchio Terrifier vi sono almeno due ingredienti: l’aura di Art, degna di Füssli, e la costruzione pezzo dopo pezzo di un immaginario efficace, a tratti davvero terrorizzante. Una graduale messa a fuoco. Nel “Nono girone”, il suo primo corto, Leone lancia subito in scena Art (interpretato da Mike Giannelli) nella forma di un clown-stalker che fissa la propria vittima, la provoca con una trombetta e dopo averla disgustata con un mazzo di fiori con bacarozzo la mette fuori gioco con una iniezione. Il resto di questa prima celluloid atrocity è meno ipnotico, e funge semmai da portfolio per l’arte artigianale di Leone. C’è, questo sì, una scena inguardabile e irraccontabile, paradigma che resterà in ogni singola opera del regista, ma in The Ninth Circle l’ultraviolenza fine a sé stessa fa un bel buco nell’acqua. La trombetta di Art arriva più sottopelle.

Risale al 2011 un secondo corto, intitolato Terrifier e incentrato unicamente sulla figura del clown. Qui si gettano le basi reali del personaggio, compreso il paradosso di fondo che lo rende così appetibile in ambito horror. Art è un uomo in carne e ossa vestito da clown, quindi non una creatura infernale come Pennywise, eppure non muore mai. Lo si può tramortire, gli si può far male, ma dopo un po’ si rialza sempre. E ovunque tu vada, a piedi o in auto, alla fine ti becca. Magari lo hai alle spalle e sta per rigirarti un coltellino nella caviglia. Dal punto di vista tecnico, il primo Terrifier sceglie una fotografia sgranata e tendente alla seppia che “antica” il digitale, simulando quasi un found footage risalente ai tempi dell’horror ruspante. Interessante poi come sia questo corto, sia il film del 2016 siano disponibili in alta qualità nell’Internet Archive. Il 2013 è l’anno del lungometraggio All Hallows’ Eve, progetto interessantissimo sotto il segno del non si butta via niente. Leone costruisce una cornice – sempre la notte di Halloween – in cui due ragazzini accuditi da un’amica dei genitori trovano nella sacca delle caramelle una videocassetta misteriosa, contenente… Il nono girone, il primo Terrifier e un segmento nuovo, imbarazzante nella sua bruttezza, con un alieno assassino che sembra uscito dai film di Ed Wood. Ma questo il regista lo sa, tant’è che Ed Wood è proprio tra le citazioni scoperte (insieme al Romero anno 1968) che filtrano dagli schermi guardati dai vari protagonisti dei suoi film. Questa videocassetta non si limita però a spaventare, e come in Lost Highway finisce per contaminare la realtà. L’arrivo soprannaturale di Art nell’hic et nunc del film si accompagna a un erroraccio e a una scena finale, ancora una volta, inguardabile, anti-woke e, come si diceva anni fa, da denuncia. L’erroraccio, che non si ripeterà più, è la risata udibile di Art mentre tenta di spaccare dall’interno lo schermo televisivo. Art the Clown è un Marcel Marceau dedito agli smembramenti. Parla solo coi gesti. Non emette gemiti nemmeno quando si ritrova con la sua stessa mazza chiodata in testa. È questo suo silenzio tombale, accompagnato a un’espressività da commedia dell’arte, a renderlo un incubo ambulante. Il suo superpotere? Le risate mute che si fa reagendo allo sconcerto di chi assiste ai suoi macelli.

Terrifier (2016) è il vero gioiello della serie. Da questo momento, sotto il costume bianco e nero c’è David Howard Thornton, che raffina la fisicità di Art. Il pagliaccio umorale col sacco della spazzatura in spalla, sacco che lo trasforma in un Eta-Beta ammazzasette, si fa strada per i seminterrati, i cessi e le altre location laide del film come una figura perfettamente definita, un archetipo horror che attrae e respinge. Art è un bambino che si succhia il pollice in grembo a una specie di Log Lady con bambola appresso, Art si atteggia a donna indossando – letteralmente – il busto e lo scalpo della sua ultima vittima, Art spunta dalla terra come una talpa primordiale e, a mo’ di zombi risorto in base a regole che non c’interessano, torna in campo nell’ultima scena con una pallottola nel cranio dopo una tempesta elettrica, escamotage non dissimile da quello adottato per Mr C. nella Part 8 di Twin Peaks – The Return (2017). Molto meno esplicito di Terrifier 2, il primo capitolo ufficiale della serie lavora sulla tensione e presenta la final girl a metà film, sacrificando la protagonista iniziale in base al medesimo minutaggio di Psycho. La scena inguardabile non manca ed è, be’, inguardabile.

Terrifier 2 (2022) va visto in sala. A colpire, in questo film graziato dal passaparola, è prima di tutto la durata. Due e ore e venti. Normale per un film di Kubrick o Lynch, rarissimo per un film horror che sguazza senza tema nell’alveo del genere. Ma in tempi di crisi delle sale, anche la quantità conta. E stavolta Leone piazza pure una sequenza fondamentale in mezzo ai titoli di coda, strizzando l’occhio alla più grossa fabbrica di blockbuster degli ultimi vent’anni. Impeto anni Settanta, colonna sonora che flirta con gli Ottanta, giochini meta degni del Wes Craven anni Novanta e una confezione che non disdegna le regole di mercato del nuovo millennio. Ciliegina (in realtà un occhio strappato) sulla torta: un clown che fa paura e che, incredibile ma vero, non esce dalle pagine di Stephen King e non è nemmeno un pupazzo come quelli, pericolosissimi, provenienti dallo spazio profondo. E mentre Alex DeLarge canticchiava Singin’ in the Rain, in questo lungo tunnel dell’orrore serpeggia la melodia del Clown Café. Legittimo aspettarsi un terzo episodio ancora più azzardato, e dopo il terzo un bel cofanetto – di VHS.

Titoli di testa di Terrifier (2016) di Damien Leone.